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Moleskine 2

moleskine-2.jpg di Sergio Garufi

Sfilata di chierici venduti in televisione. L’Ecclesiaste va aggiornato. Chi più sa, più s’offre.

Scampoli di cinismo contemporaneo. In fila alla cassa del supermercato c’è davanti a me un ragazzino di non più di 12 anni. La cassiera lo riconosce. “Ciao Jacopo, come va?” E lui, con aria serissima e stanca: “Sopravvivo”.

La mia banca sta a 500 mt. da dove lavoro. Ci vado sempre a piedi, mi piace passeggiare. Guardo la gente, i negozi, immagino vincite fantastiliarde al superenalotto. O meglio, programmo meticolosamente la distribuzione dei soldi. Quanto alla famiglia, agli amici, quanto in viaggi, che casa comprare, l’auto nuova. Poi mi ricordo di un saggio messicano, s’intitola Disgrazie milionarie e fu recensito di recente su Babelia, il supplemento letterario del quotidiano El Pais. Si tratta di una serie di biografie di messicani che hanno vinto la locale lotteria. Lì ce n’è una sola l’anno, l’enorme montepremi va tutto a un’unica persona e questa è pubblica, tutti sanno chi è, dove abita, che faccia ha, perché viene intervistato in televisione. Forse si pensa che rendendo pubblica la sua figura questo faccia da traino per i concorsi successivi. Il saggio sembra un libro dell’orrore. Stragi familiari, separazioni, suicidi. Una volta realizzato, il sogno di diventare ricco si trasforma in incubo. Come in quell’antica maledizione gitana, che dice: “Che tutti i tuoi desideri si possano avverare”. Curiosamente, lo stesso testo che ricevo per sms dai parenti e gli amici più cari a Natale.

La vita per macroscansioni. Oggi ho 44 anni: un terzo a dormire sono quasi 15 anni. Un anno almeno a guidare, una decina di seguito a lavorare, un mese ininterrotto a scopare, molto di più a fumare. Quanto tempo avrò passato, nell’arco di una vita, a pianificare una vincita milionaria che non farò mai?

In auto provo a sintonizzarmi su qualche stazione radio, e immancabilmente inciampo su Radio Maria. Il tono è sempre afflitto, sia che trasmettano una funzione sia che parli qualche ascoltatore raccontando le proprie disgrazie. In una conversazione con Pierre Rosemberg, che stava sottoponendo a Federico Zeri delle fotografie di dipinti antichi per un expertise, lo storico dell’arte romano contestò l’attribuzione di una natività rinascimentale proposta dal francese. “Perché non può essere italiana?”, chiese quest’ultimo. “Non vedi che l’asino ride?”, rispose Zeri. Il fulcro della religione cattolica non è la Natività, è la Passione, e la Passione è anzitutto un patire.

Pare che si voglia vietare l’allattamento in pubblico. Un’aria pesante di sacrestia ha invaso il paese. Nella sala d’attesa del mio medico una donna tiene in braccio un neonato, tutto infagottato. Si vede solo il viso profondamente assopito. Hippolyte Taine, parlando del Neonato di Rennes di Georges de La Tour, dice: “Niente può esprimere quel sonno profondo e assorbente, come quello che il poverino dormiva otto giorni prima nel ventre di sua madre; la fronte senza capelli, gli occhi senza ciglia, il labbro inferiore abbassato, il naso e la bocca aperti, puri buchi per respirare, la pelle liscia e rilucente che l’aria ha toccato a malapena, tutta l’immersione primeva nella vita vegetativa. Il labbro superiore è rialzato, serve tutto per respirare. Il corpicino è incollato e serrato nelle sue rigide fasce bianche come nell’involucro di una mummia. E’ impossibile rendere meglio il profondo torpore originario, l’anima ancora sepolta.

Su un lit-blog mi si contesta un giudizio. Provo a spiegarmi ma l’impressione è che non sia in ballo una questione di gusti, bensì di logica argomentativa. Viste nel suo insieme, quelle obiezioni rammentano la XXV Centuria del Manga, quella con lo scapolo che crede di aver ucciso sua moglie, poi si ricorda che è scapolo, allora si chiede perché non ha una moglie. L’hanno tutti. Chi è lui, un cane rognoso? Perché sua moglie è riuscita a non farsi sposare? O è lui che non l’ha sposata? Il giorno prima delle nozze è fuggita con un prete eretico. Ma non è lui quel prete? Quella donna è fuggita con lui? O con un altro? Chi è fuggito? “Che puttana”, dice, e cerca la chiave in tasca, lacrimando, con una smorfia di disprezzo.

Per 35 giorni consecutivi non mi ha funzionato il telefono di lavoro. A chi chiamava risultava libero, e c’erano dei clienti e dei fornitori che pensavano fossi scappato con chissà quale cassa. Ho perso un sacco di soldi, chi voleva pagare col pos non poteva, diceva che sarebbe andato a fare un bancomat e spesso non tornava. Ora devo scrivere un reclamo all’operatore telefonico, redigere un puntiglioso elenco di tutte le sollecitazioni, scritte per raccomandata o fatte a voce, per ottenere un rimborso che sarà sicuramente ridicolo. Mi sembra di essere Ferdinand Thrän, “l’archivista delle villanie”, come fu definito da Magris in Danubio. La vita è tutta un sopruso, e l’unico modo che abbiamo per reagire ai torti subiti è farne un elenco dettagliato.

In televisione trasmettono l’ennesimo documentario sugli animali. Questa volta sono di scena i calamari giganti, bestie che vivono negli abissi marini e che possono raggiungere dimensioni impressionanti. Anche qui si parla sempre e solo di vip. Avrò guardato un’infinità di documentari sugli squali bianchi, le orche, i coccodrilli, gli orsi polari, le anaconde, i condor, le vedove nere, creature che probabilmente non vedrò mai in vita mia, se non in qualche zoo o acquario, e mai niente sui passeri, che incontro quasi quotidianamente. Il gusto per l’eccezionale è il crisma della mediocrità. Sarà per questo che mi piace Leopardi.

Un amico scrittore mi invita ad unirmi a lui nell’appello per la traduzione inglese dello Zibaldone di Leopardi. Gli chiedo se l’ha letto e mi risponde: “No, insomma in parte, ma che c’entra?”. Mi viene in mente la frase di Scheiwiller, resa celebre da Manganelli, quella che identificava il lettore forte come colui che può stroncare senza leggere (“Non l’ho letto e non mi piace”). Ribaltandola, si potrebbe ottenere un’efficace definizione di classico. “Non l’ho letto e mi piace”. In entrambi i casi, non si legge.

I testi della nuova narrativa italiana che ho letto di recente mi sembrano delle mozzarelle. L’imperativo è essere sincroni, parlare di temi attuali e con un linguaggio il più possibile al passo coi tempi. Più che una firma, appongono una data. Si vuole incarnare a tutti i costi il ruolo di interprete ufficiale dello Zeitgeist, essere riconosciuti senza esitazione come “figli del proprio tempo”, mentre si finisce per apparire pateticamente aggrappati a questa paternità nel timore di rimanerne orfani. Su questi libri a volte pare di leggere l’avvertenza: “da consumarsi entro pochi giorni”, se no la mozzarella scade. Uno di questi autori mi rimprovera di scrivere “vecchio”, di usare termini polverosi come Zeitgeist, o Weltanschauung, che sono effettivamente polverosi, ma non meno ridicoli di certi anglismi nati vecchi stamattina. Quando Stanley Kubrick si pose il problema di quale colonna sonora accostare alla celebre scena della danza delle navicelle spaziali in 2001 Odissea nello spazio, un collaboratore gli suggerì di scegliere una delle musiche avveneristiche che si componevano in quegli anni (il 1968). Se così avesse fatto, il risultato sarebbe stato ben più misero, perché semplice testimonianza di un preciso momento storico. Optando invece per l’accostamento ossimorico dei polverosissimi valzer viennesi di Strauss, Kubrick rese il suo film un classico senza tempo.

All’inaugurazione per la stampa della mostra su Christo a Lugano ci sono quasi solo fotografie delle sue opere, quelle mastodontiche, ambientali, che lo hanno reso celebre. All’inizio però impacchettava col pluriball sedie, comodini, piccoli oggetti, che sono tutti esposti nelle sale del Museo. A queste esposizioni i giornalisti vengono portati in autobus da Milano, e impressiona l’età media dei partecipanti, alcuni dei quali non mi sorprenderebbe vederli girare con una flebo o il catetere. Dopo la mostra si pranza in un ristorante sul lago, e io càpito in una tavolata con degli autorevolissimi ottuagenari. Uno di loro mi chiede che ne penso di Christo. In genere nessuno parla mai delle mostre che si sono appena viste, oppure limita il giudizio a quelle formulette sintetiche che appartengono alla gente comune quando esce dal cinema. L’elogio si riassume in: “ha il suo bel perché”, e la stroncatura è: “niente di che”. Provo a dire qualcosa di più articolato, parlando dell’idea del trasloco, di come cioè tutto per me abbia preso spunto dalla sua vita nomade, dai continui spostamenti di residenza, sempre in giro per il mondo imballando gli arredi di casa. L’impacchettamento come un trasloco semantico, insomma. Mentre parlo noto che gli altri fanno silenzio e mi guardano stupiti. Lo stupore non nasce dall’originalità dell’idea, ma dal semplice fatto che io l’abbia esposta, infrangendo una prassi consolidata. Solo un pivello racconta le sue idee ai colleghi, che potrebbero fregargliele per il loro articolo. Lì c’è gente che scrive per mensili, settimanali e quotidiani, e chi è più presente sulla carta potrebbe agevolmente scipparti. Ma le idee sono spore, germinano dove gli pare e nessuno può pretenderne l’esclusiva.

C. si lamenta della mia scarsa curiosità, perché dopo 6 ore in giro per Istanbul a vedere musei e moschee sotto un sole feroce dico che sono stanco e vorrei tornare in albergo. Intorno a noi fiumane di gente, fra cui molti italiani, che arrancano sfranti da una meraviglia all’altra. Quella non è curiosità, è la concezione penitenziale della cultura, secondo la quale in vacanza all’estero bisogna espiare il peccato di non aver mai letto un libro a casa propria durante l’anno o di non essere mai entrati in un museo.

La reimpiegologia è una forma di plagio, o di decontestualizzazione alla Duchamp. Nel Medioevo riutilizzavano spesso elementi architettonici precedenti cambiandogli funzione e destinazione. Un sarcofago romano diventava un altare o una fontana, e una lapide pagana veniva incastonata in una chiesa, ridotta a puro materiale edilizio. L’angolo di Milano che amo di più è in via degli Speronari, vicino al Duomo. Lì, di fianco a una pasticceria famosa per i suoi cannoncini alla crema, c’è il campanile di San Satiro. Ad altezza d’uomo vi hanno inserito una lapide romana scorciata. In quel periodo scarseggiavano i materiali di costruzione e si usava di tutto. La lapide è stata collocata di traverso, ed è scorciata a tal punto da rendere anonimo il suo titolare. Nell’antica Roma le lapidi svolgevano una funzione promozionale, pubblicitaria, venivano esposte lungo le vie più trafficate, e le dimensioni, la qualità della pietra e la bellezza della grafia scolpita fungevano da status symbol. Nel testo ci si autorappresentava al meglio. I più vantavano parentele altolocate seppur lontane, un po’ come se oggi si dicesse che il morto aveva un cugino sottosegretario o viveva in un attico e possedeva una Porsche Cayenne. Quella in via degli Speronari è di un servo, l’ultimo gradino della scala sociale, un mero attrezzo da lavoro dotato di voce (instrumenta vocalia), come allora veniva considerato. Questo servo non dice niente di sé. Dedica solo la sua piccola lapide alla moglie adorata, donna di grandi virtù (coniugi benemerenti) “cum qua vixit sine ulla macula“. Lo smog sta corrodendo l’iscrizione, e già oggi più che leggerla la si intuisce. Fra poco, della vita di quello schiavo innamorato si sarà persa ogni traccia, a meno che esista una memoria dell’universo, come congetturarono i teosofi.

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33 Commenti

  1. Stai dando vita ad un genere nuovo, mi pare, qui su NI.
    Ti leggo ancora più volentieri.

    (Qualche sera fa ero con mio fratello e rispettive consorti a mangiare da Paolo – “Giulio in Pelleria” -, che ci ha servito quattro successioni di piatti di solo baccalà, cucinato in vari modi.)

  2. . Chi più sa, più s’offre.
    come è vero!

    mi gusta molto questa serie di Moleskine tutte da sfogliare
    e meditare…

  3. Questo ultimo aneddoto milanese mi fa venire in mente, chiaro, a chi è che stavo pensando fin dall’inizio della lettura. Forse, come dice Di Monaco, stai dando vita a un nuovo genere letterario. O forse, le tue potrebbero essere pagine moderne di “Ascolto il tuo cuore, città”, di Savinio.

  4. come scrive Eostre,possiamo secernere parole infinite e recensioni cilestrine,ma loro proprio non ci arrivano.Manganelli invece conosceva la verità(non a caso moleskine_2 ricorda a tratti una Centuria,la 56 forse).Una prece per Jacopo davanti a tutto,12 anni e già pensa alla vita,pesante come uno di quei moderni capolavori quotidiani che oberano gli scaffali delle librerie(non l’ha letta e inizia a non piacergli.Ma gli sorride lo stesso)

  5. Leggendo le cose che scrivi, e queste ultime in particolare, mi viene da pensare che tu abbia trovato una chiave di volta, un sottile e complicato dispositivo narrativo grazie al quale il mondo, come un tetto, non ti crolli addosso.
    Le tue inattualissime considerazioni mi appaiono come delle superpositions (uso il termine francese perchè quello delle sovrapposizioni è quasi un genere di scrittura) feconde non solo rispetto a quello che sta accadendo, alle cose che ti succedono, che ti interrogano, ma anche rispetto all’esperienza vissuta, reale o letteraria che sia.

    Si tratta di paesaggi che si aprono attraverso squarci talvolta dolorosi, quasi come ferite, e che attraverso la scrittura cerchi di ricomporre, ricucire. Ecco perché ad ogni frase si sente tutto l’amore che hai provato, sperimentato, sulla tua pelle, come un ammirato quadro poco noto, un’anomalia cinematografica colta d’istinto, una frase letta e memorizzata più che come citazione come un oggetto da portare con sé. Magari in tutte le sue variazioni, come ami fare per certe opere pluri interpretate.

    Quello che si legge nelle cose che scrivi è forse proprio lo stesso desiderio o testimonianza di purezza (sine ulla macula) con cui hai chiuso questo secondo episodio. Purezza che solo un libertino come te – termine da riferirsi alla illuminata ed incompresa tradizione francese – può inseguire.
    Grazie
    effeffe

  6. Quando io ho un’idea non la tengo chiusa nel comodino perché altrimenti non può germogliare. E forse germoglia da qualche altra parte. Il frutto dà il seme e il seme dà il frutto: chi ha orecchie per intendere intende. Peccato, se all’idea o allo spunto non corrispondesse una aggiunta o un perfezionamento. Perché l’idea da sola non frutta, e chi la vuole far fruttare solo per sé, non gli riesce.

  7. -Lo stupore non nasce dall’originalità dell’idea, ma dal fatto che io l’abbia esposta,-

    e per esporre ci vuole coraggio!

  8. @effeeffe

    a proposito della chiave di volta. Si può scrivere su qualsiasi particolare, e con cognizione di causa, soltanto se si possiede l’universale. E se ne può scrivere soggettivamente, senza cadere nel banale, solo quando il soggetto si sa, fin nel profondo dell’anima, mediato dall’oggettività, a cui appunto si ribella scrivendo. L’osservazione sulla singola cosa è critica, nasce dalla spontanea insoddisfazione di come essa è, e dalla considerazione che potrebbe essere diversa, senza l’universale che la determina. Il punto di vista di quest’ultimo si potrebbe paragonare a quello del sole al tramonto, che irradia il suolo radente, e rende visibili tutte le asperità dell’esistente che quando è allo zenith non si vedono. In una tale prospettiva, mi pare, cerca di mettersi Sergio quando guarda il quotidiano e lo descrive.

  9. @Sandro

    Le cose che dici sono più che condivisibili, però non credo siano la “cifra” della scrittura di Sergio. Prima di approfondire la cosa premetto che in alcun caso ritengo queste mie osservazioni come oggettive e inopinabinabili.

    Il paradigma “universale” (intero) di cui parli tu mi sembra meno fecondo di orizzonte. Anzi di quello che alcuni filosofi tedeschi definivano come Umgreifende. L’orizzonte come punto a cui guardare ma che si allontana ogni volta che ci si avvicina, ovvero come piano che comprende il particolare viaggio, il particolare occhio, e le cose che uno si porta dietro ma che non si lascia “comprendere” totalmente.

    La rivolta di Sergio mi sembra più che contro pretesa oggettività di un tutto (seppure declinato attraverso le cose che lo compongono e che uno conosce) indirizzata alla complicata relazione che abbiamo con le cose.

    C’è una poesia di Borges (autore maestro di Sergio) che riassume abbastanza la poetica di Garouf :

    Le monete, il bastone, il portachiavi,
    la pronta serratura, i tardi appunti
    che non potranno leggere i miei scarsi
    giorni, le carte da giunco e gli scacchi,
    un libro e tra le pagine appassita
    la viola, monumento d’una sera
    di certo inobliabile e obliata,
    il rosso specchio a occidente in cui arde
    illusoria un’aurora. Quante cose,
    atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
    ci servono come taciti schiavi,
    senza sguardo, stranamente segrete!
    Dureranno piú in là del nostro oblio;
    non sapran mai che ce ne siamo andati.

    Tu dici a un certo punto:
    E se ne può scrivere soggettivamente, senza cadere nel banale, solo quando il soggetto si sa, fin nel profondo dell’anima, mediato dall’oggettività, a cui appunto si ribella scrivendo.

    La questione non è nel sapere le cose nel senso di conoscerle (intellettualmente, teoricamente. O forse si, nel modo in cui a Napoli addirittura si usa il termine sapere , soprattutto parlando di persone: Ie a chille ‘o saccie, quella persona io la so. Che è più che conoscere , ovviamente. Sapere le cose più che conoscerle. Io so cos’è un trasloco (ho cambiato casa 14 volte) più di un traslocatore, che magari non si è mai mosso di casa. Io le cose le so a partire dal momento che me le porto appresso. E le cose possono farti sentire leggero, oppure pesantissimo al punto di non farti avere la forza (in francese si traduce con courage) di fare la fila davanti a un museo o per visitare una moschea
    effeffe
    ps
    all’orizzonte, forse,la terra e le cose che ci salveranno. Certamente i doni, degli amici, che ci sono dentro.

  10. C’erano delle rubriche simili sul Domenicale, firmate da Pontiggia e poi Meneghello, e si potrebbero citare anche i Quaderni di Cioran, autore che Garufi ama molto. Dice bene effeffe, l’immagine che ne traspare è quella di un Atlante schiacciato dal peso del mondo, che condivide i suoi pensieri perchè in verità chiede aiuto. Una prosa che comunica il senso di una disperazione quieta, che osserva con malinconia un mondo sempre più affettato e irrigidito nelle sue pose ( il ragazzino cinico ), fin quasi al rifiuto, al desiderio di non parteciparvi più ( i musei di Istanbul ).

  11. Radio Maria si prende anche sugli appennini meno ricettivi, l’ho sperimentato in auto quest’estate: immagino che molte pievi si siano riciclate in ripetitori abusivi. Garufi, grazie per le moleskine.

    andrea

  12. @effeeffe

    Certamente conosci Sergio meglio di me, e quindi le tue osservazioni sulla sua formazione e sulla sua opera sono più pertinenti delle mie. Io mi regolo da quel poco che ho letto di lui, e mi sembra, da quel poco – e senza nulla togliere alle tue idee, che pure giudico convincenti – di poter confermare il mio precedente commento. Voglio mostrarlo brevemente prendendo in esame dettagliato Moleskine 2. Se c’è un punto di vista unico, coincidente con l’universale, dovrà apparire in ogni particolare, cioè in ogni singolo pezzo di cui Moleskine 2 è composto. Ma prima di iniziare vorrei chiarire cosa intendo per universale. L’universale è la condizione di possibilità, la ragion d’essere, di ogni particolare; la legge a cui quest’ultimo obbedisce. Per cui, conoscendo l’universale, cioè conoscendo la legge, ho la chiave per conoscere tutti i comportamenti dei particolari. L’universale non si può afferrare come una cosa, come un fatto, è logos, è legge, e come tale si può solo cogliere negli effetti empirici che ha sui particolari. Per fare un esempio fisico, un universale è la legge F=ma, a cui, su ordini di grandezza abbastanza grandi, ogni particolare della materia deve obbedire. Naturalmente, i particolari di cui si occupa Sergio sono uomini, fatti umani, con tutto il loro corredo di spiritualità e autonomia; ma anche loro sono sottoposti ad un universale – che è il più importante di tutti, perché fa esistere l’uomo stesso e la sua coscienza, nella quale appare tutto l’esistente. Chi ha in mente questo universale, analogamente a quel che avviene nella fisica, può interpretare ogni comportamento umano, può veramente capirlo sino in fondo, senza perdersi tra l’infinita varietà dei particolari. Insomma, il punto di vista dell’universale consente la reductio ad unum di tutta l’infinità molteplicità del sociale. Ovviamente, poiché l’uomo è diventato storicamente libero e cosciente, l’essere mera appendice di una totalità sistematica è una condizione che contraddice le sue potenzialità, ma finché queste rimangono tali, egli rimane sottoposto alla legge sociale oggettiva. L’universale è pertanto un concetto dialettico, contradditorio: indica una effettiva, presente, attuale deducibilità dell’uomo e dei suoi comportamenti, e insieme la critica alla luce delle sue potenzialità di razionalità e di libertà.
    Questo, a meno di non sbagliarmi del tutto, è l’universale attraverso cui Sergio guarda i particolari della realtà quotidiana. Quest’ultima, nella sua visione, si stacca dal suo banale hic et nunc e acquista una profondità quasi metafisica, rimanda appunto al di là di sé, al suo principio, e lo fa sempre in tono dolente, malinconico, o rassegnatamente sarcastico, perché quel principio non è l’ens realissimum, il summum bonum a cui tendere, ma appunto il male radicale, grazie al quale, tra infiniti sacrifici e sofferenze, gli uomini (quelli che ci riescono) sopravvivono .
    A questo punto qualche rapidissimo esempio.
    La vita è una serie di soprusi, si può solo farne l’elenco. Nel senso che si DEVE farne solo l’elenco. Ogni tentativo di restituire il sopruso – in genere all’inferiore, giù giù fino all’individuo omega, perché al superiore non si può – si risolve nella conferma del cattivo universale di cui sopra, a cui invece è giusto sfuggire.
    Radio Maria e il tono lamentoso e doloroso dei suoi speaker. L’assoluta mancanza di umorismo della religione è in accordo con la violenza del dogma, che blocca e inibisce il pensiero e le pulsioni con la paura dell’autorità suprema. Il riconoscimento della realtà della sofferenza, che è vera, diventa falso quando con un diktat viene dichiarato eterno. L’universale che la genera, non ha esistenza autonoma ed eterna, ma solo quella che gli uomini gli trasferiscono.
    La mostra di Christo a Lugano. L’ingenuità di Sergio. L’universale ha talmente informato di sé gli uomini, che questi agiscono esclusivamente secondo il suo principio: l’antagonismo, la ragione strumentale, il do ut des, il principio di scambio. Chi ha ancora, magari solo per pochi attimi, la forza di sottrarsene, e agisce o parla secondo il principio di spontaneità, cioè per amore della cosa o dell’argomento, è considerato senza scampo come un ingenuo: è kitsch.
    Chi vince la lotteria cade in disgrazia. Sotto il dominio dell’universale gli uomini vengono formati così simili ad esso, con così poco riguardo per il senso del giusto, della misura, del riguardo per gli altri e per se stessi; con così poca attenzione per il raffinamento culturale dei propri impulsi; con così poca consapevolezza del senso della vita; – insomma, così impreparati alla libertà, che quando la possono esercitare combinano solo danni, a se stessi e agli altri.

    Può darsi che queste considerazioni siano la proiezione del mio punto di vista su Sergio, ma è una possibilità che ritengo remota: parla troppo chiaro il contenuto delle sue narrazioni di vita quotidiana e la loro stessa scelta.

    Un caro saluto
    sandro

  13. Questi moleskine non pretendono di giudicare il mondo. Non pretendono neppure un mondo. Semplicemente (e la semplicità, lo sappiamo, è la cosa più profonda – nonché la soglia di ogni gesto sovrano d’amore) espongono “dei mondi” in un “batter d’occhi”. Catturando segni ed e-scrivendoli. Questo mi piace molto. Così come ho amato gli “essais” di Montaigne. Lì c’era però ancora una volontà di fare un ritratto, per quanto fosse impossibile compierlo, e il gesto stesso di Montaigne era un gesto performativo. Nei tuoi batter d’occhi non c’è volontà di fare un ritratto, per quanto impossibile. C’è una cattura istantanea di forme, scovate nelle pieghe dei mondi, forme piene di senso, di sensi.

  14. Garufi è bravo e scrive cose intelligenti, ma ho dei dubbi che abbia scoperto un genere nuovo.
    Le sue sono considerazioni sparse, che rimandano al supporto sul quale sono fissate, le moleskine, appunto, ma cose analoghe esistono da sempre. “Taccuni”, “diari”, “quaderni”, “pagine”, “agenda”: tutti sostantivi di cui ugualmente ci si è serviti nel tempo per indicare un tipo di scrittura che, seppure evocata da una stessa voce, procede per bolocchi separati.

  15. Che ripieno di parole in fricassea… e l’universale, e il nuovo genere.
    Garufi possiedi e i famose e rari : “occhio rovesciato”, “orecchio asincrono”. Di sicuro “tatto braille” ed “olfatto parallelo”. Tutti guardiamo le stesse cose, per le stesse strade, ascoltiamo più o meno le stesse note, annusiamo gli stessi miasmi, ma ricavandone associazioni diverse. Inoltre credo che pensi più pensieri della media ed essi si fanno scrivere per motivi di saturazione spazio temporale. Certe cose si scrivono per liberarsene.

  16. Ma quale nuovo genere. Leggere meno e meglio e respirare più a fondo, ogni tanto.

    Garufi – Morgillo ha ragione – meriterebbe una rubrica settimanale su una rivista nazionale, punto e basta. Non è un artista, è un intellettuale. Non crea, pensa. Non è geniale, è erudito. Quello che scrive non dura, si consuma nell’attualità.
    Ma è un consumarsi, un’erudizione, un pensiero perfettamente intonato al décor culturale nostrano. Per questo Garufi sarebbe un columnist di tutto rispetto.

  17. Fui io a scoprire per primo le potenzialità di Garufi nella miniserie “Ioooo e Borges”. Se solo oggettivasse tutto questo stream of consciousness in un personaggio alla Mrs Dalloway, potrebbe diventare una sorta di Virginio Woolf de noantri:- )

  18. search “garufi” e “salva con nome” tutto quello che ha scritto su NI: fare provviste per i tempi bui (dei paesi tui…)

    fem

    grazie Sergio, i tuoi post sono sempre molto e molto e questo in particolare ancora di più

  19. Sono d’accordo con Sara: appropriatissimo il paragano alla rubrica (mensile) del Domenicale.(Più Pontiggia di Meneghello)
    Osservazioni sparse estratte dal Quotidiano. Misura,intelligenza, memoria storica, cultura.

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di Sergio Garufi
sergio garufi
sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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