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La bella estate

ovvero La ballata del (cinema) lavavetri

di Lorenzo Esposito
Mi sarei dovuto arrestare al titolo. Non all’esattezza funerea dell’eco pavesiana, ma alla secchezza del lavoro d’inconscio veggente che si chiama cinema (che è origine copia plagio scarto deviazione generazione morte: ‘la ballata del lavavetri’ si intitolava film non dei migliori – italiano? polacco? – di Peter Del Monte). E dis-mettere subito, nel vuoto d’argomenti che svolazza sotto la canicola – cioè chiudere in men che non si dica la questione risibile che nasconde ed è indicatore di ben altro: a fare schifo non è il derelitto formicaio appostato ai semafori d’incrocio, né l’inesistente racket, ma la vigliaccheria mediobenpensante di quello che accelera, di quell’altro che aziona i tergicristalli, nessuno capace di un semplice no (è a questo circo di piccole inciviltà e grande ipocrisia che i sindaci assicurano protezione).

Invece l’arresto arriva sulla parole. Sulla gigantesca e illusoria gabbia chiamata comunicazione che confonde le dichiarazioni con le notizie, il dibattersi del senso con millantate esigenze collettive. E così si ordiscono trame e si appendono vuote stampelline che diventano – in questo assordante belniente – motivi politici: sicurezza, legalità, civiltà (qualche riga più sopra scappata a me pure, nella sua versione altrettanto ipocritamente privativa). L’alibi è lo stesso di chi crede che per dire democrazia basti avere il diritto di voto, né di destra né di sinistra, proseguendo nel frattempo nel progetto diffuso di continue limitazioni delle libertà individuali. Vantate deportazioni di massa di rom e carcere per tutti, per chi lava un vetro, per chi fa un graffito, per chi accende un fumogeno allo stadio, per chi si fuma uno spinello, sono solo la superficie dell’ignobile impianto a-morale dell’etica di Stato. “Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo per scoprire su di esso nient’altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient’altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza”. L’ignoranza, del resto, è la più grande delle cospirazioni.

Poi c’è l’altra parola: italiano. Rileggendo lo Scalfari del 2 settembre (“la Repubblica”: La crisi di un cinema senza linguaggio), si capisce subito che non di cinema si sta parlando (non se ne parla mai, ne siamo tutti parlati, ecco perché chiunque ne può scrivere). Non dell’interferenza che l’immagine comunque produce nel gigantesco proliferare moebiusiano di controllori e controllati (vedere fra gli altri l’ultimo De Palma: le guerre cominciano con le bombe e finiscono con/su youtube). No, si sta parlando di cinema italiano. E a seguire, tutto il ben noto armamentario accademico: crisi di valori, linguaggio, rappresentazione etc. Più che di cinema italiano sarebbe interessante scrivere la storia della cecità, dell’affollarsi più che secolare di non vedenti, convinti dell’esistenza di un’immagine nazionale, sicuri che ci sia una bellezza nel farsi specchio della società. Tanto che non riescono a spiegarsi la sovra-nazionalità dell’immagine di Stato di una Leni Riefenstahl, o di uno Dziga Vertov, oppure, come Galli Della Loggia, proprio non possono accettare che la ‘perfezione’ neorealista di Rossellini non sia Roma città aperta, ma Cartesius, e questo perché il neorealismo non è mai stato specchio di nulla, rappresentazione di niente, se non dello stato eccedente dell’immagine rispetto al reale, quella fuga in avanti che allentava i processi di causa-effetto (industrialmente definiti sceneggiatura), che ri-scriveva il mondo prima ancora che il mondo sapesse de-scriversi. E allora, come il cittadino infastidito dal lavavetri, spingono sul pedale dell’acceleratore e si puliscono la coscienza parlando di crisi di valori. Non a caso il genio assoluto del Rossellini televisivo, oggi completamente dimenticato, volutamente osteggiato e esorcizzato, già parlava comunque di un necessario “rammendo della specie umana”.

Ammettendo pure che abbia un senso oggi parlare di cinema italiano (e russo inglese americano egiziano indiano francese sudafricano), della sua scarsa incidenza, è viceversa proprio il suo perenne stato di nebulosa, se non altro perché mette in dubbio anzitutto l’atto dello scrivere, a essere affascinante. Non a caso la lista di Scalfari si ferma ai forse e ai Moretti, Muccino, Tornatore, Verdone, dimostrando solo quello che già sappiamo leggendo le pagine degli spettacoli del ‘rivoluzionario’ giornale da lui fondato, e cioè che finge e occulta l’inesistenza del 90% del cinema mondiale. Ma, per limitarsi all’Italia, meglio appuntarsi a futura memoria una lista di grandi senza nazione: Cottafavi, Grifi, Citti, Bargellini, Bava, Freda, Amico, Lattuada, Ferreri, Troisi, Argento, De Bernardi, Ciprì e Maresco. E poi Cicero, Laurenti, Ferroni, Questi, Castellari, Fulci, Di Leo, Corbucci, Margheriti. E poi Calogero, Martone, Gaudino, Sandri. E poi Comencini, Monicelli, Risi. E poi Momo, Rondolino, Staino, Santini, Caligari, Eronico. E poi Soavi, De Lillo, Segatori, Rezza, Benigni, Piscicelli, Guadagnino, Garrone, Pozzessere, Capuano, Incerti (mi scuso con gli assenti, ma chiunque è degno di non-esserci, basta una sola sequenza in cento film ancora da fare). Nessuna voglia di fornire un alibi alla parola scelta come traiettoria non sistematica, il cui unico sistema è il frammento, lo spazio nero bucato, perché è l’immagine, non l’immagine ‘italiana’, a svuotarsi e a moltiplicarsi per non darsi a vedere, per non concedersi il vedere.

Forse questa notte custodisce quella veglia che faceva dire a Blanchot, che lo faceva sperare, che non si fosse ancora e mai scrittori, e che quindi le immagini, anche quelle meno ‘degne’ di essere ri-conosciute e parlate, serbassero una zona d’impersonalità da cui fosse possibile trarre un orizzonte, una linea così infuocata e incerta nel suo celibato estremo, da estrarre dal vuoto una scrittura politica, cioè ‘altra’ quanto basta a circolare, raccontare, agire. Il confine è sottile, visto che il non-essere che vorrebbe essere parlato e parlante, ha come prima tentazione quella di rappresentarsi o di dare una rappresentazione. La questione del cinema italiano è sempre questa: non filma, ma pensa che le immagini servano a rappresentare la realtà. Se il cinema fosse un linguaggio, non se ne parlerebbe. Invece si cercano le parole. Il linguaggio è dei giornalisti. E “non si scampa alla volgarità dell’azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione di Stato”.

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9 Commenti

  1. Per me il film più bello che ho visto è ladri di biciclette. E’ un film famoso, lo so, che illustra la società italiana dopo la guerra. Non posso vedere questo film senza lacrime.
    Il momento al ristorante è intense: lo sguardo del bambino, non si puo dimenticare.
    La critica sociale è molto presente nel cinema iataliano. Moretti è certo un riferimento, mescola la vita intima alla vita del paese. Il passato storico si appica ancora alla storia. Di recente ho visto: il mio fratello è figlio unico. L’ambiente storico è simboleggiato dalla guerra/amore tra le due fratelli: certo il tratto è un po’ eccessivo. Me mi piace vedere film italiani, soprattuto l’epoca di Riso Amaro, amo l’ambiente, nero e bianco, il ritratto amato delle donne forte, coraggiose, e anche la mammà que occupa lo spazio.

  2. “Forse questa notte custodisce quella veglia che faceva dire a Blanchot, che lo faceva sperare, che non si fosse ancora e mai scrittori, e che quindi le immagini, anche quelle meno ‘degne’ di essere ri-conosciute e parlate, serbassero una zona d’impersonalità da cui fosse possibile trarre un orizzonte, una linea così infuocata e incerta nel suo celibato estremo, da estrarre dal vuoto una scrittura politica, cioè ‘altra’ quanto basta a circolare, raccontare, agire. ”
    Tagliare, tagliare, manca il respiro….

  3. A Véronique Vergé consiglio Berlinguer ti voglio bene, film del 1977, diretto da Giuseppe Bertolucci (fratello minore di Bernardo), interpretato da Roberto Benigni. In quel film c’è tutta la dimensione emotiva italiana prima dell’avvento della tivù privata.

  4. Concordo in pieno con Berlinguer ti voglio bene. Stranamente i due film italiani che ricordo di più (oltre al testè citato) soprattutto per i finali clamorosamente significativi sono tutti e due dei fratelli Taviani. Il primo è Il sole anche di notte (1990). La storia di una specie di San Francesco che da Barone si fa monaco e che, dopo aver ottenuto molto seguito, per estremo atto di umiltà, dopo aver provato ad uccidersi per estremo atto di annullamento della sua volontà, scopre come tale gesto non sia affatto umile ma pieno del ‘volere’ la morte. Egli va via e fa quindi perdere le sue tracce. L’oblio è la vera morte (umiltà assoluta).
    Anche Le Affinità Elettive mi ha colpito nel finale. La giovane popolana accede per aspirazione personale alle tematiche affrontate dai nobili (che non lavorano) e che lei serve. La sua sofferenza passa da quella materiale del lavoro e dello sfruttamento a quello del dramma esistenziale. Il film finisce con un urlo di dolore della giovane ragazza, mentre i suoi compari continuano in lontananza a lavorare nei campi. L’emancipazione del proletariato comporta il carico per questo di temi etici ancora più rilevanti del semplice perseguimento del benessere materiale. Proprio per questo, come è andata a finire lo abbiamo visto.

  5. Grazie Alessandro,
    Spero avere l’occasione di vedere il fim consigliato.
    Per fortuna, a Amiens c’è un cinema “art et essai.”
    A volte si danno film italiani: è la mia delizia.

  6. Perché “Nooo” vi prego? A me quei due film erano piaciuti per i motivi che avevo detto. Puoi spiegarmi?

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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