Il trono di Grazia

di Demetrio Paolin

Ad Annalisa

Salirono in macchina. Il viaggio fu piacevole, l’aperta campagna s’apriva a un verde smagliante dintorno. Una primavera forsennata che aveva deciso dimostrare tutta la sua bellezza. Arrivarono a una chiesa. Non era niente di che, un edificio scarno e mezzo abbandonato.
“E’ sconsacrata, sai?”
“Ah…”
“Ma un’associazione culturale vuole restaurarla. Facendo i lavori hanno trovato dentro una cosa molto interessante: una tela di dimensioni grandi, di fine Cinquecento, conservata in pessimo modo, ma che io sono riuscito dopo un anno di lavoro a salvare. Ecco volevo farla vedere a te per primo”.
“Perché? Mica c’è un personaggio che mi somiglia”.
“No, ma appena la vedrai credo che ti sarà tutto chiaro”.
Entrarono, attraversarono la navata, salirono sull’ambone e si diressero dietro il grosso altare. Lì Silvio aveva allestito il suo studio di restauro. Vicino al muro appeso e tutto coperto, c’era il grosso quadro. Silvio accese le luci giuste: “Ora chiudi gli occhi e aprili solo quando te lo dico io”.
“Se non fossi mio fratello – sorrise Tommaso – penserei che mi stai facendo la corte” e quindi chiuse gli occhi.
“Ecco, aspetta, ora puoi aprirli”.

Un buio totale, che empiva ogni cosa. Pennellate dense, profonde, nere scendevano dall’alto del quadro e andavano fino in fondo. Sembravano la pece che i soldati – a difesa di qualche castello – facevano calare sulle mura contro gli assedianti. Era un nero saturo di grida, di pianti, di bestemmie a dio, di lamenti. Un nero di corpi liquefatti e feriti, che a guardarlo bene, però, aveva zone opache, come trasparenze dove s’indovina un paesaggio celato. Ci sono colline e una città sullo sfondo appoggiata sulla terra come un sudario. Al centro l’oscurità diventa veramente fitta come se ci fosse un buco nero a ingollare tutta la luce del mondo. Sopra un vecchio, la faccia rugosa e spaventata guarda giù. Tiene la mani sul viso e il corpo tutto è proteso verso il basso: quasi si volesse gettare da quell’altitudine. La bocca è spalancata larga e ne esce un piccolo sottile raggio, che cade a precipizio verso il basso. Scende giù, attraversa sottilissimo, come una particella di polvere, tutto quel nero e si trasforma in una colomba esile, smagrita dalla fame che si posa sul capo di un uomo dabbasso.
Questi è crocifisso su due travi di legno mangiate da tarme, le dita sono contratte in uno spasimo che annuncia il rigor mortis, le gambe un tronco d’ulivo torto, il capo è penzolante come se il collo si fosse spazzato di colpo. Ai lati in quella notte oscura s’intravedono due altre croci con appese membra simili a fili di ferro combuste.
Tutto dice che l’uomo è morto.
Chinato il capo, spirato il respiro, finito il lavoro logorante del cuore, consumata la carne e dismesso il sangue.

Questo videro gli occhi di Tommaso appena aperti. Un quadro di una bellezza morbosa, un esempio di Trono di Grazia.
“Hai visto?”
“Sì, è stupendo… bellissimo”.
“Sapevo che ti sarebbe piaciuto… e quando l’ho visto mi sono ricordato di quella volta che mi parlasti di questo Trono di Grazia…”
“Te lo ricordi ancora?”
“Non l’ho mai dimenticato”.
Il trono di Grazia raffigurava dio che guardava suo figlio morire in croce. Lo guardava impotente morire sulla croce. Dio era un padre che vedeva il figlio morire, non c’era soluzione. Per essere padre dio doveva vedere la carne sua estinguersi. Il figlio per essere tale, per essere quello che è, deve morire. E tutto precipita nel buio naturale, è necessario.
Abramo considerò suo figlio un tesoro, dio non fece lo stesso, non fermò la mano ma andò fino in fondo: ciò che fa di un figlio un uomo è l’essere abbandonato dal padre, ma è solo morendo che uno diventa padre e uno figlio. E solo così dio è dio, solo guardando se stesso, morire come figlio.

Ecco il padre di Tommaso uscire dalla memoria.
E’ in cantina nella semiluce di una lampadina. Sta imbottigliando del vino rosso. C’è una damigiana, e una serie di bottiglie accanto, alcune piene altre vuote.
La damigiana aveva un tubo di plastica verde, molto flessibile, suo padre succhiava appena e poi metteva il tubo nella bottiglia vuota. Faceva questo gesto per ore e ore.
“Tu non hai niente da dirmi?” aveva chiesto Tommaso.
“Su cosa?” aveva risposto il padre, non prima di aver dato una succhiata e mentre il vino scendeva guardava il giovane negli occhi fisso.
“Sul fatto che vado via di casa, che vado a Torino, che me ne vado dal paese”.
“E cosa devo dirti?”
“Sei mio padre…”
“Che vuoi che sia un padre. Io non ti considero figlio, ma uomo. Secondo me è più importante che, tu e Silvio, siate uomini che figli. Sai in paese c’è una tradizione: i giovani sono definiti come il “figlio di”. Io sono il figlio del ‘Genio il Tulè, e tu saresti il figlio del figlio del ‘Genio. E’ ingiusto: tu sei per me un uomo, che sia mio figlio è una specie d’accidente. E se sei un uomo, è normale che te ne vada da qui, da me da tua madre e da tutta questa terra. E’ naturale che tu diventi una cosa a sé bastevole e piccola, una nicchia, come questa cantina, dove sto. Io sono stato padre fino a quando ho aiutato te e tuo fratello negli studi, ora sono solo me stesso. E basta. Tua madre non lo capisce, ma sono donne. Le donne hanno ‘sta roba della carne addosso e s’oppone a tutto, mentre per noi è diverso. Sai quando tornerò padre, Tommaso?”
“Non, io non lo so quando, forse quando io diventerò padre?”
“No, io tornerò padre quando morirò: lì sarò nuovamente tuo padre e tu mio figlio”.
“Ma…”
“E’ così. Solo con la morte io tornerò a essere padre. Ma vale anche l’inverso, tu sarai mio figlio quando morirai. D’altronde me lo insegni tu che Gesù chiama dio ‘papà’ mentre muore. E così morendo diventiamo, nuovamente, padre e figlio. Questo per un attimo: poi si spegne tutto e sciao”. Aveva nuovamente tirato su il vino dalla damigiana e aveva messo il tubo in un’altra bottiglia, girandosi dall’altra parte a significare che ogni altra parola sarebbe stata superflua.
“Fu una discussione tremenda” disse Silvio.
“Sì, ma niente è come quell’amore lì, Silvio, niente. Non ci ha considerato un tesoro, non ci ha pensato come qualcosa da tenere gelosamente a sé. Ha scelto la solitudine per farci uomini”.

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33 Commenti

  1. Magari non tutti sanno che l’immagine è un particolare dell’Altare di Isenheim, il capolavoro di Matthias Grünewald che si può considerare, per la quantità di immagini e il sistema complicato di aperture ad ante, un gigantesco ‘libro’. Quindi è l’immagine perfetta per rappresentare la corrispondenza tra scrittura e arte figurativa. Van Gogh diceva ‘disegnare è scrivere’.
    Che poi si dipinga coi colori come Grünewald, o secoli dopo con gli oggetti e le parole, come Duchamp nei ‘ready made’, poco importa.

  2. “E’ così. Solo con la morte io tornerò a essere padre. Ma vale anche l’inverso, tu sarai mio figlio quando morirai.”

    non capisco l’idea centrale del racconto

  3. @ Dubbio.

    diciamo che il tema è la partenità. Il testo è l’estratto di un lavoro molto più ampio, dentro il quale i discorsi di Tommaso, Silvio e suo padre sono più chiari.
    mi spiace per ora non poterti dire di più.

    @ Andrea
    Hai ragione è un capolavoro il quadro di Matthias Grünewald, io l’ho proposto come corredo all’immagine perché la descrizione del Cristo presente nel racconto parte proprio come suggestione da questa crocifissione.
    In tema di iconografia ovviamente il quadro riportato non è “un trono di Grazia”, che ha una diversa “strttura” narrativa. Sul resto ovvero su “Che poi si dipinga coi colori come Grünewald, o secoli dopo con gli oggetti e le parole, come Duchamp nei ‘ready made’, poco importa.” prometto che ti rispondo.

    @Binaghi, Marino, Chapuce, il curatore e Brown
    grazie. sia per l’apprezzamento che no.

    d.

  4. quando accompagno a scuola mia figlia, lei va con la cartella in spalla fiduciosa perchè sa che io la guardo. e quando passa il cancello, entrando in quel posto che la terrà con sé otto ore – molto più tempo di quanto non passi con me – si volta e mi manda un bacio soffiandolo dal palmo della mano.
    vorrei essere sempre un padre così: lasciare che la figlia vada, fiduciosa, per la sua strada e faccia esperienza di sè, sapendo che a distanza c’è chi la pensa.
    condivido l’idea che un buon padre debba lasciare che sia.

  5. perchè…?
    padre
    perchè?
    …era l’urlo degli oceani
    l’urlo dell’animale ferito
    l’urlo del ventre squarciato
    della paroriente
    urlo della stessa morte:
    “perchè”?
    e lui non ha risposto
    mi sento madre, io, mi sento terra, io.
    se potessi caricarmi del peso della vita dei miei figli, io lo farei, se potessi raccontar loro il tradimento della sublime illusione io lo farei, se potessi dir loro la verità, io la direi.
    se potessi portare la loro croce, io la porterei.
    posso solo accoglierli, sempre, perchè una madre, la madre , è per sempre.

    dio,
    è di genere maschile
    tanti baci
    la funambola

  6. Non sono sicuro se ho capito bene: il padre tornerà ad essere padre quando morirà perché rivivrà nella memoria del figlio come tale, oppure il padre, per se stesso, soggettivamente parlando, tornerà ad essere, a sentire di essere padre, un attimo prima di morire, poi tutto si spegne e (s)ciao? Ma morendo sentirà ugualmente di essere stato anche figlio ? E soprattutto: cosa sentirà davvero in quel momento cruciale?
    Nell’ultimo istante soggettivamente parlando, un attimo prima di morire, ciascuno sarà un uomo (solo) che sublima la vita che ha vissuto. E con ciò l’esser stato padre, figlio, amante, e tutto il resto. Sia chiaro: per tutta la vita non ha mai smesso di esserlo: figlio, padre, tutto; e nell’ultimo fiato, sono sicuro che la consapevolezza di questo tutto che se ne va sarà lucidissima e la commozione per quel che svanisce, suprema.
    Riesco dunque a cogliere l’ultima frase del passo: “…ha scelto la solitudine per farci uomini”.
    Il concetto di uomo non nega quello di padre o di figlio, li contiene.
    Non sono nemmeno così sicuro dell’altra affermazione: “Io sono stato padre fino a quando ho aiutato te e tuo fratello…” .

    Infine: Dio non ha ‘abbandonato’ il figlio sulla Croce.
    E’ Gesù che sente che il Padre lo ha abbandonato, non perché non fosse suo figlio in quel momento o lo dovesse riconoscere nuovamente tale con la morte, ma perché ha dovuto condividere il destino dell’uomo. E anche lui ha dovuto restare ‘solo’ sulla Croce pur essendo Figlio, della stessa sostanza del Padre.
    (abbiamo detto la stessa cosa?)

  7. tu beppe hai capito quello che volevi capire e secondo me, tu, hai capito molto bene.
    te l’appoggio
    baci
    la fu

  8. @funambola

    dio è maschio, o meglio il personaggio che io chiamo dio nel racconto è maschio.
    Ed è logico che lo sia perché io mi interrogavo sulla paternità e non sulla maternità.
    so che una madre si farebbe crocifiggere al posto del figlio, lo so ma non mi interessa.
    il personaggio del padre lo dice chiaramente: che questo rapporto padre/figlio è una questione tra uomini. Ora ilmio racconto non vale un’acca rispetto al romanzo La strada di McCarthy, ma credo che nel rapporto padre/figlio e soprattutto sul tema della parternità ci sia un “sommerso” di cose che non sono state messe alla luce.

    @ beppe.
    l’acqua è sempre acqua sia allo stato solido, liquido e gassoso. Ma non puoi dire che il ghiaccio, una pozza d’acqua, e il vapore acqueo sono la stessa cosa.
    Spero di essere stato notevolmente criptico.

    d.

  9. Non so se è vero che per essere uomini bisogna essere abbandonati dal padre. Forse succede quando il padre non condivide e non ama il progetto di vita del figlio. E allora l’abbandono rimane tale, e il padre viene restituito al figlio ( alla figlia!) solo nel momento della morte.
    Il padre di Tommaso non lo abbandona, lo lascia andare… Rispetta, se non ama, il progetto indipendente del figlio.
    Non so se è vero che le donne portano nella carne l’impossibilità a lasciar andare i figli : anche noi possiamo amare e rispettare il loro progetto di vita, solo ci costa più fatica, ma questo significa allontanarsi e poter rimanere genitori…
    Grazie Giorgio, il pezzo è bellissimo e fa riflettere… con una figlia appena partita per Sarajevo, ne ho tratto utili pensieri. :))

  10. Giorgio chi?
    @demetrio
    è vero, ma il ghiaccio è anche un po’ acqua, la pozzanghera d’inverno si ghiaccia sopra, un po sì e un po’ no, poi il il ghiaccio sublima, e la brina bagna l’erba al primo sole. E nel deserto della morte, l’acqua c’è mai stata?
    Sì.

  11. Per fortuna che anche mio padre era un tipo così.
    Tante volte abbiamo tirato il vino insieme in cantina ed imbottigliato,
    con una gommma senza spina,
    poi io ho migliorato, ho una canna con il rubinetto automatico.
    Lui s’incazzava con me, ma rispettava la mia strada.

    Questo bel racconto me lo ha evocato. Grazie Demetrio, sei stato molto bravo!
    E pure sempre emozionante rivedere l’altare d’Ildesheim, uno dei più bei dipinti della storia dell’umanità. Una volta ci sono stato un’ora davanti.
    Poi c’è un vecchio dio padre affrescato in una cappella a destra nella chiesa di San Secondo in Asti, che mi ricorda questa figura, è un dio padre molto faccioso e molto contadino.
    MarioBianco

  12. Molto bella e attraente questa discussione, come veramente bello è il brano di Demetrio, a prescindere dal concetto padre-figlio.
    @ demetrio
    Non posso che condividere, da donna, il commento di MGiovanna. Anche una donna può lasciare andare un figlio. Amare e considerare proprio l’oggetto dell’amore sono due cose ben distinte. Mi viene in mente una bella immagine di un film che ho visto di recente: ‘La sconosciuta’. Una bambina ha una patologia (psichica) a causa della quale non ha le difese istintive che hanno tutti gli altri bambini. Se cade non porta le mani avanti, e non riesce a rialzarsi. Se qualcuno le tira uno schiaffo, non tenta di schivarlo. La madre (o quella che pensa di essere la madre in quel momento) la induce ad un esercizio forzato ripetutatmente: la benda e la lega, e poi la spinge a terra più volte, costringendola a rialzarsi da sola. La bimba piange, grida “basta”, le chiede aiuto, la supplica, ma la mdre continua a ributtarla a terra. Finchè la bimba non inizia a reagire, e si rialza, e poi si difende anche. Ecco, credo che questo sia uno dei più alti atti d’amore che abbia mai visto. Amare non signfica proteggere, o accompagnare. E sacrificare la propria vita per quella di un figlio è la cosa più facile che esista. Amare significa far diventare uomini i nostri figli. A volte i genitori non lo fanno, e lo fa la vita.
    @ Beppe. Condivido comunque la tua frase sull’acqua, e l’interpretazione del quadro.

  13. Se cade non porta le mani avanti, e non riesce a rialzarsi. Se qualcuno le tira uno schiaffo, non tenta di schivarlo. La madre (o quella che pensa di essere la madre in quel momento) la induce ad un esercizio forzato ripetutatmente: la benda e la lega, e poi la spinge a terra più volte, costringendola a rialzarsi da sola. La bimba piange, grida “basta”, le chiede aiuto, la supplica, ma la mdre continua a ributtarla a terra.
    …c’est terrible! :)
    insegnare a difendersi, insegnare la guerra, insegnare la tua rinuncia, insegnare la tua visione del mondo attraverso le tue lenti deformate dalla paura.
    credo che amare sia cosa molto difficile perchè l’amore , quello che chiamiamo amore, non sia una cosa spontanea, istintiva.
    di spontaneo ed istintivo c’è solo l’istinto bestiale, l’istinto primordiale, il nostro marchio insomma e l’istinto con la ragione, la sola ragione, è stato ed è foriero di drammi e dolori e cose atroci che solo noi umani abbiamo potuto concepire e perpetuare in quella fetida fedina penale che è la storia, la storia dell’umanità.
    l’amore consapevole non ha connotazione di genere, è, e basta.
    chi ama consapevolmente non può che rispettare e compassionare il figlio e lasciarlo andare significa solo fare quello che avresti voluto, desiderato per te, quando eri figlio.
    e questo sentire non appartiene in misura superiore alla madre piuttosto che al padre, appartiene semplicemente ad un uomo ed una donna cui la storia, la propria di storia, ha insegnato qualcosa.
    quando tuo figlio se ne va e tu sei stato per lui l’arco, ecco, questo di figlio non chiederà permessi o benedizioni perchè non sta andando via e lui lo sa, e sa anche che tu lo sai.
    così, tanto per stare in tema, forse.
    molti baci
    la funambola

  14. Non si può estremizzare una situazione portata ad esempio, elevandola a concetto assolutistico, per poi poterla smatellare con della retorica. Insegnare a difendersi era una necessità in quella situazione. Impartire insegnamenti attraverso lenti deformate èproprio l’opposto di ciò che intendevo dire (ma forse, non mi sono spiegata bene). Non si può insegnare a diventare uomini, nè a diventare uomini migliori. Non si può insegnare la saggezza, ma la si può trasmettere in altri modi. Ogni uomo è il risultato del suo percorso soggettivo, non di quello dei propri genitori. E ogni uomo vive in quanto Individuo, prima di essere parte di una qualsiasi altra appartenenza (affettiva, sentimentale o ideologica che sia). Ma questo non significa negare il ruolo di un padre o di una madre (di pari sentire, sono d’accordo).
    Ma per evitare di uscire di nuovo dal tema (perdonatemi..) o magari di cadere dall’iconolatria all’iconoclastia, termino qui. Buon proseguimento..

  15. @Simona Cappellini
    in effetti l’esempio che avevi portato era un po’ forte. Ma volevo chiarire ancora: essere figlio non significa appartenere (tu hai detto: E ogni uomo vive in quanto Individuo, prima di essere parte di una qualsiasi altra appartenenza), essere figlio ed essere padre non sono appartenenze, ma inevitabili condizioni esistenziali che si racchiudono nella stessa persona. E’ come il nascere e il morire.
    Un individuo pur emancipato è individuo padre ed individuo figlio, al tempo stesso. Il padre che lascia che il figlio se ne vada per diventare uomo è una figura retorica secondo me neanche tanto nuova, che distingue ruoli troppo marcati, come l’acqua che non è ghiaccio e non è vapore…(e a cui ho già risposto). I casi sono due: o quel figlio che ha bisogno di ‘lasciare’ il padre per diventare uomo in realtà, così facendo, se lo porterà dietro, oppure era un ‘bamboccione’ e allora il padre fa bene a buttarlo fuori di casa (ammesso che il figlio non sia un precario cococo).
    In questo senso sono d’accordo con la funambola allorché dice: “quando tuo figlio se ne va e tu sei stato per lui l’arco, ecco, questo di figlio non chiederà permessi o benedizioni perchè non sta andando via e lui lo sa, e sa anche che tu lo sai”.
    Scusate.

  16. l’immagine dell’arco e della freccia è usata mi pare da Gibran ne Il profeta. Quando ero più ragazzino e mi fecero leggere quel libro, mi dissi solo: ecco io non scriverò mai una cosa del genere. Il fatto che funambola l’abbia scritto significa per inverso che io ho scritto una roba diversa. Non meglio e non peggio, ma diversa e questo mi consola.
    A chi mi leggeva e citava Gibran, io replicavo con Sbarbaro, che consiglio vivamente.
    io ho un padre simile a quello di Mario B., sarà perché io e mario B. veniamo dalla stessa terra, l’astigiano, o meglio quella prozione di terra tra monferrato e langa? E’ un uomo di poche parole, nulla o minimo affetto anche nei gesti, ma di immane amore.
    Ripeto il pezzo è una estrapolazione di racconto più lungo sul tema del padre. Posso solo dire che Tommaso, il protagonista, come Silvio, il fratello, non sono bamboccioni, sono andati via di casa per lavorare e studiare: vivono la loro vita e proprio perché assolti dalla figura del “padre” ci ragionano. (insomma beppe, mai mi convincerai che l’acqua e il ghiaccio e il vapore si mescolano: mi puoi dire che in questo modo perdo la complessità, la ricchezza etc etc… e ti posso dare ragione, ma chi ha detto che io volevo essere complesso?)

    d.

  17. il figlio riesuma il discorso del padre nel contesto di un atto restaurativo, in questo senso, cioè in quello del p a t r i monio culturale mi pare che ben lo rifletta, cioè che ne sia proprio figlio, figlio di quel patrimonio. il problema non è tanto il patrimonio, che è, ma se se il figlio resta: figlio del Padre, della conservazione, della restaurazione. Come da racconto, sarebbe (giustamente) meglio che il figlio se ne andasse da li, da sua madre, da tutta quella terra patrimoniale – per inciso parlo da un qui infesciato di carne. Cioè da donna da figlia da madre di un figlio –

  18. “Non si può estremizzare una situazione portata ad esempio, elevandola a concetto assolutistico, per poi poterla smatellare con della retorica”

    La retorica (dal greco rhetoriké téchne, arte del dire) è l’arte di strutturare nella forma più convincente e persuasiva un discorso, esaltando i propri punti di vista e disprezzando quelli altrui.(viki)

    quando vado a scrivere due pensieri è perchè sono sollecitata da qualcosa che mi ronza nella testa e devo mettere a fuoco.
    ho compreso bene quello che intendevi dire perchè io anche di fronte a all’imagine che tu hai evocata
    ho sentito una forma d’amore disperato nei confronti di quel figlio senza difese, in balia della vita, in balia degli altri.
    e io anche sarei tentata di bendarti e legarti e buttarti a terra per “insegnarti” che il dolore, l’eperienza mortificante, ci fortifica, ci sprona al riscatto (quale riscatto?)
    che solo attraverso un’esperienza di dolore si diventa “grandi”,
    che salvati, salvati, figlio mio.
    è che il dolore non ha umanizzato gli uomini, li ha solo incattiviti, li ha solo disincantati, li ha solo resi folli di vendetta.
    quante piccole vendette consumiamo in una giornata.
    allora c’è qualcosa che non funziona, c’è qualcosa che ha mai funzionato passando il “testimone”.
    si dovrebbe indagare sì sul rapporto padre figlio, madre figlio, uomo uomo,uomo donna.
    si dovrebbe indagare senza paura, senza manuali, senza cultura, senza retorica.
    ogni uomo è la sua consapevolezza.
    baci
    la funambola

  19. @ la funambula
    “si dovrebbe indagare senza paura, senza manuali, senza cultura, senza retorica.
    ogni uomo è la sua consapevolezza.” E qui ci avviciniamo molto. Non so che cosa sia trapelato dal mio messaggio ma ti assicuro che in fatto di sofferenza e dolore ho un buon cv, e ti posso dire che non sempre il dolore rende gli uomini più cattivi, più assetati di vendetta. Più disicantati sì (ma non significa forse un pò anche questo diventare grandi?). Il dolore è un patrimonio dell’uomo, e come tutte le ricchezze, ognuno ne fa l’uso che vuole. Molti ne fanno un cattivo uso. Altri lo investono in un futuro migliore.
    Grazie comunque, e ora mi defilo (ma non perchè non trovi interessante la discussione).

  20. certo che credo esista la possibilità che il dolore possa essere il trampolino di lancio verso la Consapevolezza, diversamente non sarei qui a risponderti e a parlare con te/me.
    sarebbe un inganno comunicare per non dirsi nulla.
    la storia non contempla dolore, forse è per questo che è tanto mostruosa.
    sempre baci
    la funambola

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