La solitudine del recensore

di Sergio Pasquandrea

Ogni due mesi trovo nella casella postale un pacchetto, la classica busta gialla imbottita di cellophane. È pieno di cd, in genere almeno una dozzina, a volte anche più: la rivista per cui scrivo me li manda, perché io li recensisca.
A casa apro il pacco, do un rapido sguardo ai cd, poi sbrigo subito il lavoro più noioso (“quello che non vuoi fare, fallo subito”, diceva mia nonna): apro un file word e trascrivo tutti i dati di tutti i dischi, autore, formazione completa, etichetta, numero di catalogo, distribuzione, lista dei brani.
Poi li metto nel lettore, uno per volta, inserisco la funzione “random” e saltabecco da una traccia e l’altra. È quello che si chiama un “blindfold test”, una specie di moscacieca: serve per farmi una prima idea, del tutto epidermica, di ciò che il disco contiene. Butto giù qualche appunto in cui segno ciò che la musica mi suggerisce: idee, immagini, aggettivi, domande, dubbi, qualunque cosa, rigorosamente alla rinfusa. Poi inizio ad ascoltarli con la massima attenzione, uno per uno, dall’inizio alla fine, anche più volte se serve; se non conosco i musicisti, mi documento; e alla fine scrivo la recensione.
Detta così, sembra semplice: ma non lo è affatto.

Innanzi tutto, sono convinto che un esercizio indispensabile, per chi scrive, sia mimetizzarsi nei panni di chi legge. Quindi mi capita spesso di chiedermi: ma perché uno legge una recensione? che cosa cerca? ad esempio, io: perché le leggevo, quando ancora non le scrivevo?
I motivi possono essere vari, ma credo si riconducano essenzialmente a tre.
Primo: per avere un’idea di ciò che succede in giro, annusare l’aria, sapere chi ha suonato cosa con chi.
Secondo: se ho già il cd, per confrontare il mio giudizio con quello del recensore (e approvare, disapprovare, gratificare il mio amor proprio, incazzarmi, scandalizzarmi, sorridere, a seconda dei casi).
Terzo: se non ho il cd, per decidere se investire o no i miei sudati euri nell’acquisto. Qui, ovviamente, gioca molto il rapporto di fiducia con il recensore. Con un po’ di esperienza, uno arrivo a capire se quel critico ha gusti affini ai miei, e se ci capisce qualcosa.
Ne consegue che io, come critico, ho prima di tutto il dovere di informare il lettore, dargli un’idea di che cosa quel disco contiene, di come suona, raccontargli se e perché e che cosa mi ha interessato, emozionato e (eventualmente) deluso; poi, devo dargli il mio personale giudizio, il più possibile informato e ponderato.
Un simile esercizio di immedesimazione stanislavskiana mi sembra fondamentale per non trasformare l’opera della recensione, che è un umile servizio che la mia modesta persona rende al lettore, in una devastante supernova egolatrica. Perché il potere è una brutta bestia; anche l’infimo potere che deriva dallo scrivere “questa è una cagata” e dal vederselo pubblicato rischia di trasformare la persona più mansueta in un sadico, intossicato dal dolce veleno della stroncatura.
È per questo che cerco di tenere sempre in mente questo aureo principio: io, come giornalista, scrivo per rendere un servizio al lettore, e se non gliel’ho reso nella maniera più corretta vuol dire che non ho fatto bene il mio mestiere. E magari ci rimetto anche la faccia.

Ciò non toglie che, ogni tanto, scriva anch’io delle stroncature. Però, mentre una recensione positiva la faccio volentieri e a cuor leggero, perché sono contento di aver trovato qualcosa di buono e mi fa piacere condividerlo con gli altri, prima di fare una stroncatura ci penso non due, ma almeno tre o quattro volte. Voglio dire, è una responsabilità: chi ha suonato in quel disco ci ha impiegato anni di studio e giornate di lavoro, chi lo ha prodotto, inciso e distribuito ci ha investito soldi. D’altra parte, però, se il disco è brutto io ho il dovere di avvertire il lettore. Non mi piace la stroncatura fine a se stessa, ma io faccio il recensore, non il prosseneta, e nemmeno sono disposto a scrivere una recensione positiva solo per tenermi buono un musicista o un produttore discografico.
Insomma: sarò ingenuo, sarò coglione, ma credo ancora che la critica abbia una sua ragion d’essere, per non dire una sua etica. Io, almeno, ho bisogno di pensare che quel che scrivo possa servire a qualcuno.

Qualche tempo fa, ad esempio, ho trovato nel pacchetto tre o quattro cd di un’etichetta, una delle più note del jazz italiano. Li ho ascoltati e ho deciso di recensirli tutti insieme, in un box. Ora, un paio di quei dischi erano discreti, uno davvero buono; l’ultimo mi è sembrato irrimediabilmente brutto: banale, tronfio, pretenzioso, pieno di stucchevoli arrangiamenti a base di archi e sintetizzatori, roba che manco il peggior Fausto Papetti. Però, per coscienza, l’ho riascoltato più volte, ho letto con attenzione le note di copertina, mi sono informato sul musicista (il quale, per inciso, è un professionista capace, che ha fatto cose buone). L’ho fatto anche sentire ad altre persone, ne abbiamo discusso, ma il giudizio non è cambiato. Brutto brutto brutto. Allora l’ho stroncato.
Sulla rivista in cui scrivo, le recensioni hanno una lunghezza media di 1300-1500 battute, che includono anche autore, titolo e tutte le informazioni di cui parlavo all’inizio; per i box con recensioni multiple, si arriva a 2000-2500, non di più. Capirete perciò che il giudizio non si può articolare più di tanto. Ciononostante, ho cercato di argomentare il più possibile, spiegando perché, secondo me, quel disco era brutto: però alla fine l’ho detto chiaro e tondo.

Pochi giorni dopo l’uscita della rivista, è arrivata al giornale un’e-mail del direttore di quell’etichetta, incazzato nero per la mia recensione. Ora, in tutta onestà posso capire l’incazzatura: anch’io al posto suo ci sarei rimasto male. Ma il problema non è questo.
Il problema sono gli argomenti usati: quando un giornalista scrive una stroncatura, sosteneva il discografico, “una rivista seria con un direttore assennato sai cosa fanno? Prendono in mano il telefono, chiamano la casa discografica interessata, discutono la cosa e generalmente giungono a questa conclusione: affidare la recensione ad un critico un po’ più benevolo oppure, se proprio il disco non piace, allora la recensione non viene proprio fatta. Personalmente propendo per la seconda soluzione in quanto mi sembra la più corretta”.
“Non si stronca mai un disco”, continuava la mail, “specialmente uno appena uscito, perché così facendo si provoca un danno d’immagine al musicista e alla casa discografica e si uccide la novità”.
La mail andava avanti per un altro po’ su questo tono, poi, dopo qualche velenosa frecciata all’indirizzo del sottoscritto, si concludeva annunciando che la casa discografica in questione non ci avrebbe più inviato dischi da recensire.

Penso che la mail si commenti da sola, ma vorrei far notare solo un paio di cosette.
Nella mail non c’era nemmeno una parola in merito al valore artistico del disco. Non: “Sergio Pasquandrea è un incompetente e non ha capito che questo disco era un capolavoro” (cosa, per carità, possibilissima: è capitato anche a critici più capaci di me). Soltanto: “Sergio Pasquandrea non va pubblicato perché mi rovina le vendite”. Non si contesta il giudizio del recensore, semplicemente si pretende che venga ignorato, cancellato, censurato. Un vero e proprio editto bulgaro.
Una “rivista seria” e un “direttore assennato” sarebbero quelli che, anziché lasciare libertà di espressione ai giornalisti, curano gli interessi delle case discografiche. Le recensioni vanno fatte fare ai critici “benevoli”, sottintendendo quindi che se il giudizio è negativo non è perché il critico ha fatto il suo lavoro, cioè criticare, ma soltanto perché è stato guidato da malevolenza. Se parli male di me, è perché ce l’hai con me, mi odi. Una sottile opera di delegittimazione.
Insomma: ciò che al discografico in questione proprio sfugge, e che invece secondo me è fondamentale, è che una rivista di critica musicale è qualcosa di diverso da un’agenzia di pubblicità. Pubblicare un’opera, di qualunque tipo, significa sottoporla al giudizio del pubblico e della critica. Fa parte del gioco. E, soprattutto, come critico io ho il dovere di avvertire chi mi legge che quel disco, secondo me, è brutto. Poi, se qualcuno ritiene che io abbia detto una boiata, se ne può discutere, dati alla mano. Fa parte della normale dialettica.
Va detto, a loro merito, che l’editore e il direttore editoriale hanno preso le mie difese e non si sono piegati a logiche clientelari e massoniche. Però il mese dopo si è ripetuto un episodio analogo: un altro recensore ha stroncato un disco, e il distributore italiano di quell’etichetta, per ritorsione, ha annullato tutta la pubblicità sulla nostra testata.
Si tratta di un ricatto bello e buono, perché la pubblicità è una delle principali fonti di introito della rivista. E non c’è nulla di male in questo, fintanto che si tiene ben presente la differenza tra un’inserzione pubblicitaria e una recensione criticamente argomentata.
Per questa volta, abbiamo resistito. Ma quanti non lo fanno? E si può sempre resistere?

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7 Commenti

  1. Ho scritto, e tutt’ora mi capita di scrivere, recensioni per quasi un decennio.
    Sono stato autore di qualche stroncatura e non perchè non creda in questo tipo di recensione, ma perchè non la ritengo particolarmente utile.
    Io, come te, mi sono chiesto perchè qualcuno dovrebbe leggere un articolo di questo tipo, per quale scopo e cosa ci volesse trovare dentro.
    In fondo credo che un buon recensore debba essere quel tipo di amico con i gusti simili a tuoi ma che ha tempo e voglia di sentire dieci volte i dischi che senti tu e che possa quindi farti saltare le cose brutte, che non meritano, che non hanno un “bel sapore”.
    Per questo credo non esista un recensore perfetto. Può esistere un ottimo recensore, uno che ha formato i propri gusti e le proprie conoscenze in maniera valida, oggettivamente precisa e saggia, ma tuttavia non potrà mai essere “il miglior amico di gusti” per chiunque.
    Quindi le stroncature non hanno senso. O forse lo hanno solo per levarsi uno sfizio, egoisticamente.
    Quello che uno dovrebbe fare è dire oggettivamente cosa è un tal disco, a cosa somiglia, a chi può interessare, cosa contiene emotivamente e dove vuole puntare.
    Se poi un disco è di nazipunk e ti verrebbe voglia di dire che è una merda, beh, dovresti proprio trattenerti e dire “se quello che cerchi è questo, allora ti piacerà.”
    Il recensore deve saper adottare criteri generici, sapersi immedesimare in altri gusti, utilizzando parametri che non condivide in taluni casi mentre in talaltri non conosce.
    Ho avuto furiose litigate con persone sconosciute.
    La cosa fantastica era scoprire che ti ritrovi a litigare o con altri recensori o con i gruppi o con qualcuno dell’etichetta.
    Il lettore tira avanti.
    Se ti pensa come suo amico, compagno di feeling comprerà il disco, altrimenti farà spallunce e non si fiderà e non comprerà il disco, oppure leggerà altre opinioni.
    Più facilmente, per come sono cambiate le cose negli ultimi dieci anni, lo scaricherà e si farà una propria idea.

  2. “In fondo credo che un buon recensore debba essere quel tipo di amico con i gusti simili a tuoi ma che ha tempo e voglia di sentire dieci volte i dischi che senti tu e che possa quindi farti saltare le cose brutte”.
    Perfettamente d’accordo, è quello che dicevo anch’io.

    “Quindi le stroncature non hanno senso. O forse lo hanno solo per levarsi uno sfizio, egoisticamente.”
    Le stroncature gratuite no, quelle fatte per una ragione precisa e con argomenti solidi sì.

    “Quello che uno dovrebbe fare è dire oggettivamente cosa è un tal disco, a cosa somiglia, a chi può interessare, cosa contiene emotivamente e dove vuole puntare.”
    D’accordo su tutto, tranne che sull’ “oggettivamente” (che cosa è oggettivo? per essere “oggettivo” dovrei fare una trascrizione integrale del disco, e neanche basterebbe; è un po’ il paradosso della mappa della Cina nel racconto di Borges: l’unica mappa perfetta è quella che coincide con la realtà, ma a quel punto la mappa diventa superflua).

    “Il recensore deve saper adottare criteri generici, sapersi immedesimare in altri gusti, utilizzando parametri che non condivide in taluni casi mentre in talaltri non conosce.”
    Qui invece non sono del tutto d’accordo. Secondo me si tratta di due processi diversi: devi cercare di capire che cosa quell’autore ha voluto fare e se ci è riuscito. Poi, però, hai tutto il diritto di giudicare secondo i tuoi parametri. L’importante è che i parametri siano chiari e trasparenti. Mi è capitato più volte di scrivere cose come: “questo disco è un perfetto esempio di neo-hardbop, è suonato benissimo eccetera eccetera: ma ha ancora un senso il neo-hardbop?”.

    “Il lettore tira avanti. Se ti pensa come suo amico, compagno di feeling comprerà il disco, altrimenti farà spallunce e non si fiderà e non comprerà il disco, oppure leggerà altre opinioni. Più facilmente, per come sono cambiate le cose negli ultimi dieci anni, lo scaricherà e si farà una propria idea.”
    Infatti: per questo dico che bisogna essere corretti e onesti. E’ un rapporto di fiducia: se, come lettore, mi accorgo che un recensore stronca per antipatia o loda per piaggeria, a un certo punto smetto di leggerlo.

  3. Il problema mi pare essere quello classico del Mercato (sì , con la maiuscola). Riprendendo un famoso paradosso di Eco si dovrebbe dire che la merda è buona perchè altrimenti milioni di mosche non vi si poserebbe… È il sistema di valori adottato quello sul quale quotidianamente ci scontriamo. Il parere del recensore è secondario: in fondo anche quando è positivo lo è nel senso che sostiene le vendite -punto a capo. Rispolverando i criteri della statistica si dovrebbe dire che le stroncature fanno il paio con l’incensare. Il fatto che un recensore stronchi (o osanni) è per me relativo. Quallo che mi importa e che trovo piacevole è l’argomentazione, la cultura che lo sottende: è in base a questa se arrivo a fidarmi di un giudizio o no -ed indipendentemente dal fatto io sia d’accordo. Ma, caro Sergio, trovo coraggioso in ogni caso il dire che qualche cosa è brutto: e se lo sponsor si ritira dalla testata… eviterò di comprare il suo prodotto: è il mio piccolo insignificante contributo alla democrazia ;-)
    O per dirla con l’Alighieri: ” non ti curar di lor, ma guarda e passa “…
    saluti.

    hag reijk

  4. Mi pare che tu condivida praticamente tutto quello che ho scritto, e che in fondo oserei definire come una mentalità d’arrivo per uno che ha fatto questo mestiere per molto tempo.
    La piccola parte che non condividi in verità non è contrapposta al mio discorso.
    Se recensisci un disco punk o epic metal o folk credo che tu debba adottare un punto di vista conforme ai gusti e al rigore dettato da alcuni stili musicali.
    Dovresti dire: “Questo disco fa cacare perchè contiene un assolo” nel caso del punk.
    E dovresti dire “Questo disco fa cacare perchè non ha assoli” nel caso dell’epic metal.
    Sono due banalissimi esempi ma vogliono indicare che la camaleonticità di un recensore, la capacità di adottare canoni di gusto che non sempre possono essere i suoi, è fondamentale.
    In verità puoi concederti di dire “Tuttavia il punk ha senso nel 2007?” ed è solo una riflessione aggiuntiva, strettamente personale, ma che non è in contrasto con quello che ho scritto. E più volte, anche io, ho scritto frasi di quel genere.
    Un recensore non fa altro che scrivere perennemente cose come: “Relativamente ai vostri gusti, relativamente al genere, osservando il picco massimo dettato da XXX e ricordandoci del picco minimo di YYYY, relativamente agli errori e ai pregi del genere, in base a quello che vi aspettereste da un disco dei ZZZZ, se vi piacciono i TTTT e non sopportare i KKKK, ecco, tenendo conto che l’autore ha puntato a quella meta e che forse non c’è arrivato, questo disco è un 8 su 10.”
    Lo ripeti in mille salse, ma in fondo in fondo siamo lì.

  5. Un po’ si dimentica che oggi molti ascoltatori scaricano, sentono e giudicano da sé le opere – dai cui gli applausi (e gli allarmi, che sento più miei) per la cosiddetta morte della critica.

  6. Non so niente di jazz, quindi non credo di aver mai letto niente di Pasquandrea, se non per caso, ma un recensore che usa nello stesso pezzo “prosseneta” e “coglione”, per me merita lettori, a priori. Mi documeterò.
    Mi piacerebbe da matti leggere qualcosa di simile da un critico letterario. Consigli?

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