Cos’è Roma

di Christian Raimo

Dieci anni fa stavo cercando di farmi nuovi amici. Frequentavo chiunque mi stesse vagamente simpatico a pelle. Naufragavo a giocare a freccette alle tre di notte con borghesotti arricchiti dei Parioli che mi portavano poi a fare il puttan tour e mi lasciavano dormire in macchina, facevo illimitate conversazioni etiliche sulle tendenze della poesia contemporanea con fuorisede dandy, mi ritrovavo con Maurizio (che disegnava fumetti porno, insegnava basket ai ragazzini delle medie e si era inventato una rivista intitolata in omaggio a Gabriel Pontello “Ifix tchen tchen” in cui dava in allegato disegni di bambini dell’asilo che si faceva regalare dalle maestre), io e lui spersi tra le poltroncine sdrucite, a vedere in un cine d’essai Amore Tossico di Claudio Caligari, e uscendo dalla saletta imboscata e ovviamente umidissima lui commentava: “Non te rendi contro il vuoto che c’era. Ora a Roma ci sono addirittura i PIT per strada, i punti di informazione turistica! Quando siamo cresciuti c’era un vuoto che uno non riesce a immaginarsi”.
Gli anni ’80 e ’90 sono stati gli anni del vuoto, di una devastazione spirituale, ingenua e progressiva, per chi è nato e vissuto nelle periferie romane edificate dalle amministrazioni di sinistra. Palazzi con le scale che arrivano fino alla N, appartamenti di cinquantacinque metri quadri con le pareti in cartongesso, pizzerie al taglio in cui le teglie impastate di olio di colza si incurvano sui bordi, palestre in cui sui piccoli televisori sospesi a tre metri da terra venivano proiettati serialmente video di Lou Ferrigno e Arnold Schwarzenegger. Forse se c’è un personaggio emblematico della Roma di questi anni è Victor Cavallo. Attore, poeta, alcolizzato. L’incarnazione del talento che evapora, il successo sporadicissimo, l’energia dissipata senza possibilità di nobilitazione neanche da morto, neanche nelle rivisitazioni dei fan, lo spreco. E Amore tossico di Claudio Caligari è uno dei pochi film che dà l’idea di quel vuoto, il senso anticlimatico, deromanticizzato dell’anima proletaria, esausta, della Roma non più esperita dal vitalismo affamato, incantato di Pasolini. Nella scena in cui i due protagonisti si bucano all’alba sulla spiaggia di Ostia, la cinepresa si allarga, inquadrando prima i loro corpi sfranti e poi la strana scultura di ferro e pietra che sta sopra di loro. È lo stesso monumento che ricerca Moretti alla fine di Caro Diario sulle note del “Concerto a Colonia” di Keith Jarrett: quello in onore di Pasolini, posto nel luogo in cui fu ucciso. Ma mentre Moretti lo nobilita, cerca di ritrovare l’eco dell’incanto pasoliniano (civile ed estetico), ne denuncia l’incuria e l’abbandono, lo erge a simbolo di una storia italica dei vinti, lo inonda di una iper-percezione nostalgica, Caligari non ci dice neanche che è un monumento, ce lo mostra come un sasso qualunque.
Nel 1998 Caligari realizza il suo secondo e ultimo film, L’odore della notte. Anche qui è tutto senza equilibrio. Sublime e scaciata, ecco la storia della banda di ladri di appartamenti che la stampa aveva ribattezzato Arancia Meccanica. Il luogo delle azioni, la Garbatella degli anni ’80, è una specie di borgata sospesa tra la fine del proletariato e l’inizio del populismo di sinistra, dove esistono solo uomini naufraghi tra le cose e le strade. Ci si incontra per caso, nessuno ha un passato che valga la pena di stare a sentire per più di un minuto, le passioni non convincono neanche le persone che le provano. Nello stesso anno esce un altro film ancora meno pretenzioso. Giamaica di Luigi Faccini racconta la vicenda minima di cinque amici all’incirca ventenni che vivono a Cinecittà all’inizio degli anni ’90. Alla seconda scena del film uno di loro, quello nero e sorridente, muore nel rogo appiccato da ignoti in un centro sociale; per il resto del film gli altri cercano di capire chi è stato. Ma quello che fanno in effetti è vagabondare per una Roma inerte e notturna con un furgone scassato, videografato sulle fiancate con immagini rasta. La loro fragilità è abissale. Sono quattro attori non professionisti che sembrano anche esseri umani non professionisti. Hanno tutti i tempi sbagliati e le reazioni emotive scomposte. C’è una scena verso la fine in cui fanno una partita a calcio senza palla. Se uno pensa alla scena della partita a tennis senza pallina di Blow up, i quattro appaiono ridicoli, sciatti, inestetici. Uno di loro a un certo punto si blocca perché intravede passare in macchina sua madre con l’amante. Le si getta incontro. Si strattonano. Poi lui si butta a terra e piange sull’erbetta del campo da calcio. Ed è un momento che va aldilà del patetico e del tragico, è qualcosa di così assolutamente nudo che fa quasi impressione che qualcuno abbia ripreso la scena.
Il film è ispirato alla storia di Auro Bruni – era lui il ragazzo diciannovenne di origine maghrebina il cui sogno era andare in Giamaica –, morto carbonizzato una sera di maggio del 1991 nel centro sociale “Corto Circuito” a Cinecittà. Era rimasto da solo all’interno del centro mentre gli altri che occupavano erano usciti di notte a comprare i cornetti. La magistratura indagherà e non risolverà nulla. Qualcuno rivendicherà l’azione: gruppuscoli fascisti che sono l’onda lunga e sbriciolata delle formazioni degli anni ’70 e ’80. Esistono tre, quattro centri sociali a Roma al tempo: il Forte Prenestino, il Break Out, l’Hai visto Quinto?. La scena politica è ridotta a frammenti. L’indignazione per Gladio, i movimenti di protesta universitari, il revanscismo civile per i grandi misteri insoluti d’Italia: il 1991 è anche l’anno del Muro di gomma, di Santoro in televisione. Sono gli ultimi scampoli temporali della Prima Repubblica. I ragazzi portano i jeans a zompafosso, sotto calzini da ginnastica bianchi e Timberland. L’idolo dell’estate precedente è stato un calciatore siciliano cafone e socialmente impresentabile che alla Juventus prendevano per il culo perché finiva le frasi con quindi, e negli stadi veniva insultato perché dicevano che rubava le gomme.
Dal “Corto Circuito” nel tempo è nato il movimento per il diritto alla casa Action. Quelli di Action occupano gli stabili che a Roma sono sfitti, case degli enti, delle banche; praticando forme di lotta che sembrano archeologia in una città governata in modo dolciastro dalla perfetta intesa tra amministrazione comunale e costruttori. Sono rozzi, maldestri, molesti quelli di Action, parlano ad alta voce, fanno discorsi senza consecutio né cogenza logica, hanno la pelle butterata, i codini, la tuta per sciare sotto i pantaloni, bestemmiano appena si può, hanno i cappotti coi bottoni che stanno per sfilarsi, le giacche con le maniche più corte e le macchie appuntite di vernice, manifestano paranoie infantili sulle dinamiche di potere, si fanno le canne anche volitivamente sotto la pioggia, tirano fuori qualche parola latina ogni tanto, hanno gli occhi bovini, si abbracciano in modo smodato, si chiamano frate’, hanno la cinta con la fibbia allentata, i denti più acuminati con le otturazioni di piombo, si irrigidiscono per un nonnulla, hanno paura, sfottono le guardie, mangiano grasso, intingono il pane nel piatto di quello che gli sta accanto, sono una delle pochissime forze politiche a Roma.

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Questo testo fa parte di “Niente restera pulito”, edito da Rizzoli.

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23 Commenti

  1. Ogni volta che leggo un pezzo di Raimo su N.I, mi convico sempre di più che sia uno scrittore politico. E uno dei migliori che abbiamo. E, sia chiaro, la politica non sta nelle idee (non solo) che sostanziano i suoi pezzi ma nello sguardo con cui ci fa vedere le cose, nella capacità di darci quei particolari che ti fanno dire “si questo è un pezzo della mia esperienza”, è la sensibilità per i frammenti naufraghi della nostra realtà.
    Cazzo, che bel pezzo, frate’ (e non solo questo). Grazie di (r)esistere.

  2. Questo è quello che era, Roma. Mi chiedo oggi. cosa sia.
    Caligari chiuso in casa, fuori dalla finestra i red carpet di Veltroni che si srotolano per la città. L’altro giorno davanti a un bar, un gruppo di ragazzetti, i cappellini con la visiera sotto i caschi, i jeans a vita bassa che lasciano intravedere i boxer D&G. Scherzavano. ridevano sguaiati. Si picchiavano per gioco, come i giovani cervi provano le corna, come fanno gli adolescenti per misurare la consistenza dei propri bicipiti. Uno, il più forte, inneggiava a Hitler. Mi chiede da accendere. Gli dico: Ma lo sai chi era Hitler. Lui: Certo che lo so.

  3. Bel pezzo come sempre. Bello che si è ricordato quel gran film che è “L’odore della notte” di Caligari.

  4. Mio cognato è uno dei fondatori del Corto Circuito. Si chiama Renatino. E’ amico fraterno di Nunzio D’Erme. Spesso lo sento parlare concitato al telefonino, dire cose come “C’è un clima liberticida!”. Sono le uniche persone “politiche” che stimo, quelli del Corto. Sono con Raimo (da un po’ di tempo a ‘sta parte).

  5. Secondo me gli anni del vuoto (non so se spirituale) a Roma sono questi che stiamo vivendo, fine anni ’80 inizio anni ’90 sono stati invece un momento di equilibrio (positivo) tra la non ancora avvenuta esplosione dei prezzi delle case, l’immigrazione (agli inizi) di studenti ed extracomunitari, il persistere di una certa “romanità” della gente, anche della gente del centro, che ancora non era stata sfrattata in massa. Insomma Roma era ancora non così sovrappopolata, un po’ meno caotica, era sul viale del tramonto il genocidio da eroina, era finito il terrorismo, se prendevi un milione e mezzo di lire al mese, a Roma facevi il signore. E un milione e mezzo era lo stipendio medio. Poi si è avvicinato il 2000.
    Gli anni ’90 erano gli anni in cui via Arenula era ancora a doppio senso, in cui avevi ancora la sensazione che Roma fosse un paesone grande e grosso, abbastanza tranquillo, molto bello a vedersi, un posto speciale in cui vivere. Poi si è avvicinato a grandi passi il 2000.
    Bisognerebbe scrivere qualcosa sugli anni ’90, secondo me un’epoca d’oro, un po ‘ come gli anni ’60 in Bianca di Nanni Moretti…

  6. Ho letto il brano che trovo interessante, strano perché conosco da Roma il sguardo della turista banale. Ma Roma sigue a entrare nella mia mente. Pura coincidenza: stanotte, ho sognato il mio viaggio a Roma: ero smarrito, vedevo palazzi bagnati dell’acqua, tempio con specchio d’acqua nel centro, un po’ come un chiostro con il suo giardino.
    Signalo un libro che ho amato e da cui l’argomento è la vita a Roma: Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous: impara molto sulle mentalità.

  7. Roma, la frontiera esotica di noi di provincia.
    Negli anni 80-90 a Roma non ci andavo mai. Ora sì, per lavoro.
    Cazzo, che casino di traffico!
    Traffico: una limitazione esistenziale allo spostamento e al tempo della vita.
    (In coda).
    Senza contare la ricerca del parcheggio, che dico del parcheggio: di un buco. Vuol dire girare intorno agli isolati con la macchina per lo meno per una decina di volte, se non ci si vuole allontanare troppo dal posto dove si deve andare.
    Eppure il fascino esotico di Roma regge.
    Mi basta fare un giro in centro e la poesia violenta della bellezza mi stordisce.
    Una mia amica romana mi dice che sono sette anni che non ci mette piede, in centro.
    Io le dico: non ci credo.
    Vedo un ragazzo vestito più o meno come quelli da noi e mi chiedo: ma se ne rende conto lui di essere a Roma?!
    Sicuramente quelli di Roma sono più tosti. Anche i ragazzini a Roma mi sembra ne sappiano più di me.
    Il fascino esotico di Roma regge, eccome!
    Casualmente passo con l’auto tra i bastioni (palazzoni) della periferia e penso: qui, qui sì che si consumano i veri drammi della società italiana… da noi tutta robetta…(anzi robbetta).
    La Rai! C’è Rai tre (la radio intendo), dove mi immagino sempre quelli lì che parlano e sanno tutto: ci pensi?, quando escono loro sono a Roma, cazzo!
    Insomma sì, penso che chi vive a Roma sia di più, sappia di più, viva di più, incontri di più, incontri gente famosa, partecipi di tutto questo ben di dio che qui non c’è.
    Perciò quando vado a Roma, lì per lì mi sento diverso, impreparato, timido, …di meno. Mi chiedo se sia quella la vita vera e la desidero (sempre quella lì che mi immagino di voialtri romani).
    Che fortuna che avete!
    Le persone che conosco di Roma mi dicono di fare una vita come la facciamo noi, ma con in più il problema del traffico.
    Roma, la frontiera esotica di noi di provincia.

  8. @Aoh, te? mi sa? ma un c’hai proprio capito una sega nulla in quello che ho scritto… (e da come parlo dovresti capire da che parte vengo…).
    Non c’ho proprio un cazzo di complessi e io? sto proprio bene dove sto, e sai una cosa? non mi sento nemmeno provinciale e di persone cazzute ne conosco un sacco anche se non sto a roma. Casomai te dovresti preoccuparti se non cogli nemmeno l’ironia e la sorte di una città come la tua dove chi viene da fuori ne prova il fascino e chi ci vive, si sbatte tutto il giorno.
    Ci sono complessi e complessi, il tuo (come quello dei romani come te) è più preoccupante…

  9. @ beppe
    rileggendolo in chiave ironica, il tuo commento è tutt’altra cosa.
    anche la resa del toscano è godibilissima!

  10. @Aoh!
    chiarito il malinteso
    va tutto bene
    ritiro quel che ho detto
    (potresti chiarire quel ‘tutt’altra cosa’?)
    grazie

  11. nessuno può dire cosa sia roma, o cosa sia stata.
    nessuno lo sa.
    queste sono percezioni di fenomeni ristretti.
    molti di noi trasformano il loro intorno nel tutto.
    è normale farlo, certo.

  12. L’ultimo pezzo del post di Christian Raimo potrebbe essere letto con lo scarno sottofondo musicale di Mamma Roma di Remo Remotti… E sì, nel periodo descritto ero anch’io una piccola tessera del puzzle spirituale devastato di Roma.

  13. @plessus
    non più devastato, il puzzle spirituale, di quellodi altre città.
    a meno che, invece delle fasce emarginate e alternative e antagoniste e cetera, non si voglia posare lo sguardo sul ceto cosi detto medio: lì sì che c’è la devastazione.

  14. @tashtego: in quegli anni un fiume di eroina circolava per la città. Un tessuto culturale di grande valore lacerato dalle tossicodipendenze. Ci siamo salvati in troppo pochi. Intendevo devastato in tal senso. Se vogliamo poi parlare pure del cosiddetto ceto medio, d’accordo con te: agghiacciante più ora che allora.

  15. Roma
    infinito presente
    Essere
    la città
    in cui la sola cosa
    che non puoi fare è
    abbracciare
    questa né altra città
    (ed ogni sua infinita
    contemporanea età)
    anche solo
    con l’immaginazione

  16. Oh tu amico ponte della Magliana!

    Lavori lasciati a metà!

    Oh povera bandiera italiana:

    Milano, verde del quattrino straniero,

    e dell’erba sotto il trattore,

    bianca tu Roma, dove si guarda la luce,

    e tu senzanome, rosso meridione,

    quadrato di sangue a cui si abbeverano

    le teste dei morti senza forza.

    Costruiscono un nuovo gazometro,

    per far da sfondo a qualche pellicola,

    in cui vi specchierete, fiaccàti

    da fiacchi intellettuali,

    O mezzi specchi! e tu,

    il palazzo giallo ben noto,

    dagli angoli tondi,

    tu ridi

    sopra le curve della tangenziale!

    Basta scostarsi un poco dalla vita

    per […]

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