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Cubicoli

di Alessandra Lisini

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Le ultime cose che restano in uno spazio prima che si svuoti sono le più difficili da spostare. Perciò nelle case si ritrova sempre qualcosa di chi ci abitava prima, e anche per questo prima di rimuovere l’ultimo pezzo, negli ultimi momenti di un trasloco, ci si guarda bene attorno sperando di vedere l’ulteriore ultima cosa, prestando attenzione che in quel penultimo spostamento l’aria della stanza non ci piombi addosso con le sue poche atmosfere.
Rimango a lungo a riposare sulla scala a muro con le ascelle appese ai bordi della botola, a quattro metri dal suolo, davanti al solaio ligneo e vuoto e ai suoi cigolii da veliero. Soprattutto cedo nei giorni alla sua presenza continua e ai passi cauti, alle corsette di metà pomeriggio in diagonale sopra la mia testa, quando vedo vibrare sismicamente la tenda di fili di rafia della cucina. Sono scesa dalla scala esausta, a lavoro incompiuto, le ginocchia si sono piegate da sé e con il culo per terra ho fatto partire le pale del ventilatore. Un pezzo di letto ancora, il più pesante, è rimasto davanti a me, sdraiato sulle mattonelle, con l’inerzia del legno naturale. Forse per questo si tenta di dipingerlo, smaltarlo, laccarlo. Poche cose sanno di inane come il legno naturale, così pronto a scheggiarsi, a schioccare di colpo, a farsi incidere: su un bracciolo nel soggiorno in pino di Svezia di mia madre si legge in controluce e in colonna: “latte/ prezzemolo/candeggi[na]”. Ghigno ogni volta che vedo la lista fossile, non dico niente a mia madre, che farebbe piallare e rimordentare tutto. Ugualmente e con molta cautela gli operai del cimitero, dopo avere tentato di infilare in tutti i modi dentro il loculo la bara, un sarcofago fuori misura che le pompe funebri romane avevano scelto per mio padre, ci chiesero se potevano intaccarne gli angoli più sporgenti: erano quasi le due, piovigginava, non facemmo storie. Il primo legno nudo, che cominciò a saltare sotto i loro colpi e si scheggiò ancora quando i tre forzarono la cassa dentro il cubicolo di cemento, e il pensiero sottinteso che stavano per rovinare una cassa da morto visibile ancora per pochi minuti, li riempì di nuova foga, quel vigore allegro e inerte, senza iniziale vibrazione, che si trova sulle labbra la gente quando bestemmia. La cosa più morta di tutta l’inumazione, un’iperbole, un colmo dei colmi, tanto che io mi dovetti sedere su una tomba vicina a fissare con attenzione le schegge che saltavano ovunque e sforzarmi di non incrociare gli sguardi dei gemelli, per non scoppiare a ridere.
Questa notte, distesa sul futon nella mia nuova casa, guardo il soffitto perlinato che riveste tutto il monolocale e mi sento anch’io dentro una bara molto fuori misura. Sento rumori in cerchio provenire dal solaio, scricchiolii di assi di qua e di là, sconfinare nelle porzioni di sottotetto dei miei vicini. Il caldo diurno dilata il legno morto, che di notte si riposa.

Lo spazio dei vivi
La donna della porta accanto, una madre sola che mi ha coperto di attenzioni, pettegolezzi e avvertenze fin dal mio arrivo, mi ha chiesto con circospezione notizie sulle mie compagnie. Probabilmente vuole capire quanta disponibilità avrò a tenerle il figlio di sei anni in caso lei si assenti. Vuole farsi i fatti miei; vuole sapere per filo e per segno come si faccia a non avere figli, non sposarsi, non divorziare, non avere altra necessità che un cubicolo di mura e tetto. Vuole che le dica in confidenza, a mezza voce e con un piede dentro casa sua, chi diamine le passeggi sulla testa dopo cena. Ma che cosa le potrei raccontare? Che ancora stasera, in corrispondenza verticale con il mio addome, il perlinato del soffitto si è stiracchiato e assestato; che non condivido il letto con alcuno e quindi stasera mi rimarrà più tempo per cercare di contare le cose che mancano e le persone che restano? e mentre c’è chi cammina sulle proiezioni della mia testa e delle mie spalle, riuscirò a pensare a lungo alla propagazione del rumore, al discorso di Betti quella notte d’estate in cui per misurare il mio vecchio appartamento al settimo piano, di faccia a un grattacielo Pirelli sfondato e raggiante, io e lei tendemmo il decametro in diagonale, da uno spigolo all’altro, da un piatto di muro all’altro, dagli sguinci delle finestre ci allungammo schiacciandoci verso i soffitti e infilando le mani dietro i termosifoni, con i gatti che venivano ad annusarci la punta delle dita. Come finirebbe l’elaborazione grafica, la mappa che poi la Gina ricaverà dai nostri rilievi, se la Gina fosse ecuadoriana? mi diceva Betti: se venisse qui a vedere, e non si fidasse dei nostri numeri, vedrebbe un’altra casa, delle nostre misure il suo occhio non se ne farebbe niente. Come te, del resto, che non te ne farai niente, perché la casa l’hai vissuta fino ad ora in altro modo, ché sulla carta in fondo il mondo è morto, mi spiega, per la terza dimensione, e in Ecuador lo sanno e usano meglio forse anche la quarta e la quinta, che fa vive le altre due.
Ma a me non pareva, anzi mi pareva proprio il contrario e a pensarci mi mancava il respiro, schiacciata dai ricordi degli spazi che conoscevo, dai complessi turistici ammassati sulle coste smottate, ai campi da golf, alle formule di calcolo di impatto ambientale, alla cubatura di metri cubi, pieno, di cemento, alle cubature di metri cubi, vuoto, delle zone portuali e di tutte quelle fabbriche dismesse nei pressi delle stazioni ferroviarie che avevo conosciuto. Come se lo spazio rinviasse a qualcos’altro, come se al segno delle mappe che Elisabetta e Francesca-Gina potrebbero tracciare del mondo intero e non solo dei miei monolocali fosse apposto un numerino: legando tutti i segni e tutte le mappe avremo un’immagine mai vista, come in Cosa apparirà? Ma se nei numeri, e non nell’immagine finale, fosse riposta la salvezza? Se fossero le mappe, a salvarci, e non la realtà?

Lo spazio dei morti
Gli anni settanta producevano foto marroncine anche a Buenos Aires, un tono che poi si consolida e morde la tavolozza dei colori originari, appiattendoli. La mia amica si trova perfettamente al centro dell’immagine, con l’abito bianco del battesimo, in braccio a una zia che le guarda la nuca. Afferra un foglio di quaderno a quadretti per spiegarmi il suo progetto, lo mette dietro la fotografia, fa delle freccette che indicano alcuni dei famigliari ritratti. Questo è m o r t o, scandisce Caro e con la penna rossa scribacchia accanto alle freccette: morto, morto, morta, morto. Alla fine senza didascalia rimangono lei, la zia che la teneva in braccio, chi aveva scattato la foto. Tutti quelli che guardano l’obiettivo sono morti, chi guardava te è ancora vivo, notiamo tronfi io e l’invincibile armata del mio intuito. Ma Caro non ne sembra convinta: non si può capire bene dove le persone guardino, dice piccata, è una foto, lo spazio è tutto schiacciato e in più c’è questo alone marrone sulle nostre facce che appiattisce ulteriormente il senso del tridimensionale. Elaborerà quindi l’immagine e toglierà una persona alla volta, lascerà il vuoto, anche non in ordine cronologico, forse modificherà il punto di marrone, ci deve pensare. Sto mappando i fantasmi!, dice Caro, faccio in bidimensione quello che nelle tre dimensioni è già successo. Fa scivolare la foto da una parte e mentre se l’avvicina a due centimetri dal naso, ricompare il foglio a quadretti nudo, con le freccette e le didascalie morto, morta, morto. Per alcuni, dice, è la realizzazione di un’idea macabra, ma certa gente non si rende conto che è il contrario. Nelle foto il tridimensionale non esiste, vedi, è solo una interpretazione. Anche la scrittura è così? mi chiede, dov’è il tridimensionale quando si scrive? Non so, dico io, forse c’è quando leggi. Forse la profondità è creata anche lì dall’interpretazione, dall’avanti e indietro tra scrittura e lettura, anche quando uno scrive e non viene letto se non da se stesso. Non ti succede mai, le dico, di sognare qualcosa e raccontarlo mentre ce l’hai ancora vivido e mentre lo racconti chi hai davanti ti chiede cosa significherà il tuo sogno, e tu dici chissà: sono cose complicate; ma in realtà ti vergogni da morire perché hai capito benissimo cosa significava il tuo sogno, e lo hai capito mentre lo raccontavi, non prima, quando ci ripensavi, ma proprio mentre lo stavi trasformando in qualcosa di leggibile? Forse è questa la terza dimensione? Carol mi interrompe, mi avvicina la foto: secondo te dove guardavo?

Gas
Con un colpo di reni mi metto seduta a iperventilare: prima erano i vetri infranti a foglia d’acero della fonderia di San Gavino, e il cartello della vicina stazione dei treni, che ossidato e relegato su un binario morente, riportava invece “S GAV NO”. Seduta sul treno in sosta alla stazione, venivo confusa ogni volta dalla toponomastica pseudo-sovietica creata dalla ruggine, che aveva mangiato il ferro sotto i segni scomparsi, creato buchi di senso, riempiti a malapena dal paesaggio di eucalipti retrostante. A mandarmi in debito d’ossigeno sono ora le tubature cromate sospese sui libri della Büchmesse, ora i magazzini postali gocciolanti sotto i binari di Milano Centrale, lo scafo in vetroresina a doppia camera che rese inaffondabile la barca di mio padre, il pozzetto della pupilla incassato nella sua iride di onde piatte e chiare e quello oleoso, aromatico del motore dietro il gavone di prua; ora i parallelepipedi di cartone ripieni, svuotati, rigati dalla taglierina e poi schiacciati di quest’ultimo trasloco, e talvolta le persone che attraversano le strade, che si infrattano a sorpresa nelle nicchie scavate nei corridoi del palazzo in cui lavoro per entrare nei loro studi o sparire dietro le porte a molla dei laboratori. Usare al bisogno, c’è scritto sulla ricetta. Faccio spazio nei polmoni, inspiro il farmaco dovuto e, ne sono certa, anche un po’ di gas propellente.
Facendo capolino sul tetto dell’edificio U3, tra il vento e i sibili dei manoriduttori, mi sono issata sulla casetta delle bombole d’azoto liquido, sporta sull’orto dischiuso di Piazza della Scienza voluto da una speculazione della nuova Pirelli immobiliare sui terreni della vecchia Pirelli industriale; laggiù, dietro il cubo di vetro e anodizzato eretto in mezzo alla piazza, fluttua e poi compare la sagoma di un ex operaio che da quando hanno costruito la nuova università ha percorso ogni giorno Piazza della Scienza, sedendosi tra le matricole sulle panchine di marmo e parlando di continuo, con loro o da solo; oggi sta attraversando lo spazio in diagonale dall’edificio U1 all’edificio U4 e oltre i binari del tram sette, evita i gruppetti di studenti come magneti di campo contrario, con uno sciabordio di tomaie infradiciate ad ogni passo, mi chiedo se sia ancora lui, se possa essere ancora vivo. Chiudo la porticina dell’azoto, apro gli occhi e spengo di nuovo la luce. Ma mi rialzo subito, prendo ogni legaccio di casa, le cinghie dei borsoni e dell’accappatoio, lo spago da pacchi, invento un’imbracatura di spago, buchi e moschettoni, mi assicuro strettamente il palo di legno rimasto alla schiena infilando le corde tra le gambe, stringendole alla pelvi. Con gli psoas segnati dalle cinghie mi avvio verso la botola, impalata, il profilato d’acciaio che io stessa avevo avvitato al legno mi riga la spina dorsale. Sfondo i quattro metri in verticale e la botola con la testa del palo, liberandomi lentamente dai cordami al piano di sopra. Mi ributto sudicia sul futon e, in penombra, conto i nodi del legno perlinato. Da nodi come questi, quand’ero bambina, calavano orde di piccole scimmie di luce le cui liane si dissolvevano mentre le scimmiette correvano via verso l’andito. I ricordi degli spazi cassano l’esistenza di una quarta o quinta dimensione, a filastrocca ne irridono: “inutile! inutile!” il desiderio; perché alla fine su tutti vince sempre questa terza e miserabile, che nel buio non si agguanta, un demanio para-cartesiano che ti ritorna indietro, vuoto di gente, ti si insacca sulle spalle; la profondità semplice e luttuosa che anche una lavatrice possiede e a cui per ora non arrivo. Mi giro per cercare di respirare meglio e a sorpresa tasto un pezzo del letto mai montato, un mattoncino di legno liscio e leggero di cui cerco le forature con i polpastrelli. A sezione quadrata, cinque centimetri di lato per cinque per quaranta, lascio che pattini sulle mattonelle e faccia come un suono di respiro dai fori. Non voglio pensare di cambiare ancora città, abitudini e conoscenze, torno supina e zitta tra i rumori – nel buio ormai pesto e dissestato allungo le braccia verso il soffitto e qualcosa stride, non so se le mie giunture, o il legno, o lo spazio sopra di me. Lo stesso rumore lo farà con le braccia la gente che si agita per strada in preda alle proprie conversazioni e lo avrà fatto anche quell’uomo, l’ennesimo uomo con gli occhi celesti sgranati che ho creduto di vedere ieri davanti alla gelateria tutta gialla di smalto e acciaio. Fermo poco prima del gradino d’ingresso ha teso le mani nel vuoto, pensando di trovare un diaframma di vetro basculante tra la seconda e la terza dimensione, di spingerne con la porta l’immagine gialla e cromata, scoprendone invece, atterrito, la profondità.

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4 Commenti

  1. Mia madre ha una scatola piena di fotografie di gente morta. Di molti non ne ricorda più il nome, ma solo il grado di parentela. Il paragrafo “Lo spazio dei morti” è davvero bello.

  2. belli, molto belli questi pezzi. Mi piacciono “la lista fossile”, “i gatti che venivano ad annusarci la punta delle dita”. brava.

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