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Una ricerca di assoluto

di Antonio Sparzani

Carlo Michelstaedter

«Non chieder più nulla,

sappi goder del tuo stesso dolore,

non adattarti per fuggir la morte;

anzi da te la vita nel deserto

fatti – che sia per gli altri nuova vita;

non disperare, ma rinuncia ai vani

aspetti della vita, e nel deserto

sarai tranquillo: dalla tua rinuncia

rifulgerà il tuo atto vittorioso,

APГIA sarà il tuo porto ΔI’ENEPГEIAΣ» ([1], pp. 92-93)

Un’opera sconvolgente apre e illumina il Novecento italiano, La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia nel 1887, suddito di sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe I d’Absburgo, re e imperatore – cantato come buono dai suoi molti popoli.

Carlo diciottenne si iscrive al primo anno del corso di laurea in matematica dell’Università di Vienna, dove però non segue regolarmente alcun corso, per optare poco dopo per l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, che aveva all’epoca tre sezioni: Medicina e Chirurgia, Scienze Naturali, Filosofia e Filologia, e che sarebbe poi divenuto l’Università di Firenze. Qui frequenta l’ambiente della Voce, e, alla conclusione del corso di studi in lettere classiche, si fa assegnare da Girolamo Vitelli, il miglior grecista del tempo, iniziatore della papirologia in Italia, una tesi di laurea su I concetti di persuasione e rettorica in Platone e Aristotele.

Un’opera ‘sconveniente’, com’egli riconosce e sottolinea nell’epigrafe al libro con le parole dell’Elettra sofoclea “so che faccio cose inopportune e a me non convenienti”.

Ben lontano dal tentare un’improbabile parafrasi dell’opera, quel che vorrei ricordare qui, a pochi giorni dal 97° anniversario della morte, è tuttavia il suo punto centrale.

Scrive Michelstaedter: “Le cornacchie nel loro volo pesante, ad ogni levar d’ala s’abbassano col corpo e non più il corpo leva le ali che le ali non abbassino il corpo, ma il falco nello slancio del suo volo, stabile il corpo, batte equamente le ali, e si leva sicuro verso l’alto. Così l’uomo nella via della persuasione mantiene in ogni punto l’equilibrio della sua persona: egli non si dibatte, non ha incertezze, stanchezze, se non teme mai il dolore ma ne ha preso onestamente la persona. Egli lo vive in ogni punto. E come questo dolore accomuna tutte le cose, in lui vivono le cose non come correlativo di poche relazioni, ma con vastità e profondità di relazioni.” ([2], p. 47).

Dell’uomo persuaso – persuasione tutta intransitiva, non arte di convincere gli altri, ma capacità matura e consapevole di essere presente ad ogni istante della propria vita e di vivere la pienezza di ogni istante per sé – dice Michelstaedter “… ogni sua parola è luminosa perché, con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano” (p. 48), mentre così conclude la prima parte del libro, quella dedicata alla persuasione (la seconda è quella dedicata alla rettorica):

“Il dolore è gioia

Questo che egli sa, che è il sapore della sua vita più vasta, è il piacere attuale per lui in ogni presente. La sua maturità in ogni punto è tanto più saporita quanto più acerba è la forza del suo dolore. Solo, nel deserto, egli vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la philopsychia accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso — ed avrà nella persuasione la pace. Di’energeías es argían.” (p. 49).

La persuasione, che Michelstaedter così precisamente descrive e disperatamente invoca è per l’appunto una drammaticamente vissuta ma non sufficientemente inverata ricerca di assoluto.

La folgorante intuizione di Michelstaedter è che l’assoluto, la persona persuasa, questo ideale irraggiungibile ma ineludibilmente presente in ogni istante, è tale in quanto vive “con vastità e profondità di relazioni”.

Di termini greci è costellata La persuasione e la rettorica, data l’estrema competenza e confidenza che Michelstaedter e i suoi due inseparabili amici Enrico Mreule e Nino Paternolli avevano acquistato con la lingua della Grecia classica: il motto che Michelstaedter pone a conclusione del capitolo vale “attraverso l’attività verso la pace” o, come Michelstaedter stesso traduce, nella conclusione del Dialogo sulla salute, “attraverso l’attività all’inerzia”.

Argìa (Cassini) era anche il nome della donna amata da Michelstaedter, il gioco di parole gli è così caro che lo usa nella sua poesia; dove però altre volte Argìa è chiamata Sénia, tanto che vari componimenti sono a questo nome intitolati. Nel quinto di questi scrive infatti:

“Non Argìa ma Senia io t’ho chiamata,

per non sostar nel facile riposo,

e la lingua la fiamma consacrata

con le parole non contaminò.”

datata 19 settembre 1910; e la poesia posta qui all’inizio è tratta dal quarto di questa serie.

Dall’1 al 3 ottobre 1987 si tenne a Gorizia un convegno internazionale sull’opera e la figura di Michelstaedter e in quell’occasione un articolo apparso su La Repubblica del 29/9/1987 di Claudio Magris titolava Il poeta – filosofo malato d’assoluto. Scriveva Magris, ricordando l’ultima poesia di Michelstaedter, intitolata All’Isonzo,“Non ci sarebbero state più estati, per Michelstaedter, che il 17 ottobre 1910, forse perché incapace di persuasione e di vivere senza di essa, si uccise con un colpo di pistola.”

Il 16 ottobre aveva terminato la stesura delle appendici critiche a La persuasione e la rettorica; avrebbe dovuto sostenere la tesi di laurea il 18.

Un buon link è naturalmente il sito www.michelstaedter.it
[1] Carlo Michelstaedter, Poesie, Adelphi, Milano 1987, 19924­­.

[2] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettoricaappendici critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1995.

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7 Commenti

  1. “Itti e Senia si risvegliaro
    dei mortali a vivere la morte”.

    da: Poesie (Adelphi, 1987).

    Non mi aspettavo di leggere questo post. E quindi per prima cosa ringrazio. A livello personale, perché a volte non si possono proprio scindere i libri letti e amati da se stessi, l’opera di Michelstaedter mi ricorda un biennio doloroso, attorno ai miei vent’anni, la perdita di qualcuno con modalità simili a quelle che scelse il giovane filosofo, e lo scambio difficile con un’altra persona mia coetanea, da sempre presente-assente per me, con cui il dialogo è spesso affidato ai libri. Scusate la digressione, ma è questo che mi fa più caro un autore, ne fa parte delle mie viscere.
    Vorrei aggiungere che la persuasione, quest’idea di assoluto, si esaurisce nell’individuo, è la totale indentità di vita e morte: noi viviamo a tutti gli effetti la morte, ne portiamo le tracce ogni giorno, sono solo la consapevolezza e l’incapacità per paura di vedere che fanno la differenza. Dice: “A ognuno il suo mondo è il mondo”. Non esiste, non può, un’esperienza totale, una condivisione umana e sociale del vivere – non si possono possedere verità globali ma solo la pochezza del proprio vissuto. E’ solo accettare il proprio limite e soprattutto la propria relatività ( si è persuasi alla fine, del fatto che si è nulla, che non si è mai, non si può essere il punto centrale di una realtà che si allarga da noi stessi), che se non ci schiaccia ci permette la gioia. La gioia, non la felicità (la prima è un andare verso le cose, un coraggio da portare, dove la seconda è solo un illusorio punto d’arrivo) che combacia esattamente con la misura del dolore esperito.

  2. “Itti e Senia dal regno del mare
    sul suolo triste sotto il sole avaro…”
    Anche secondo te, Itti è Carlo? Grazie Francesca di questo che più che un commento è uno scavo bello acuminato. Sono contento che Michelstaedter svegli questi densi pensieri.

  3. La lingua sarà forse un organo ribelle –
    ma il silenzio avvelena l’anima.
    Mi biasimi chi vuole-io sono contento.

    E.L.M.

  4. [grazie, ovviamente, molto]

    *appunti sparsi su Michelstaedter

    _______________***_______________

    M. disegnava e dipingeva ed amava molto la musica, che per sua intrinseca natura si candida ad arte “persuasa” per elezione, dove la coscienza individuale si fonde in quella universale in quella dimensione eroica e tragica che eleva (dovrebbe) e poi in reltà lo annienta.
    L’amico pianista e compositore Giannotto Bastianelli a Firenze gli fa conoscere Beethoven in cui egli riconoscerà questi due estremi ossimori:

    “una gioia tragica, che spaventa; è qualche cosa di macabro, come una danza sui sepolcri. Pare che la vita di tutti i tempi che devono venire si consumi vertiginosamente in quell’orgia, e si sente che il limite è l’annientamento”.

    _______________***_______________

    poesia alla sorella Paula, scritta due mesi prima del suicidio

    Paula, non ti so dir dolci parole,
    cose non so che possan esser care,
    poiché il muto dolore a me ha parlato
    e m’ha narrato quello che ogni cuore
    soffre e non sa—ché a sé non lo confessa.
    Ed oltre il vetro della chiara stanza
    che le consuete imagini riflette
    vedo l’oscurità pur minacciosa
    —e sostare non posso nel deserto.
    Lasciami andare, Paula, nella notte
    a crearmi la luce da me stesso,
    lasciami andar oltre il deserto, al mare
    perch’o ti porti il dono luminoso
    . . . molto più che non credi mi sei cara.

    In questa assoluta tenerezza della sua scrittura la sorpresa di quest’immagine infantile a me così cara e vicina: il buio oltre i vetri della finestra che riflettono l’immagine sicura e familiare della stanza di sera, specchi vetri neri, oltre l’oscurità popolata di minacce, di ignoto.
    (Sono fratelli i bambini che hanno avuto paura del buio.)
    La sorella Paula racconta, in alcune note autobiografiche, di essere stata lei, da piccoli, rinchiudendolo per dispetto (per quella peculiare crudeltà dei bambini) in uno stanzino e fuori in terrazza durante un terribile temporale con tuoni e fulmini, ad aver provocato questa paura del buio.

    _______________***_______________

    cercare dipinti e disegni

  5. Ciao Antonio,

    Itti è ciò a cui tendeva – è un’immagine del Pesce e di Cristo, colui che si immerge nel profondo, che salva se stesso. E’ appunto l’uomo persuaso. Mentre Senia, se ricordo bene, è colei straniera alla terra. Sono due puri atroci. Nel modo in cui anche un gesto come il suicidio lo è. Ma penso che sia veramente molto difficile scindere una simile opera da quella che poi è stata la conclusione della vita di CM.

    @così&come – (fa male quella tenerezza). Il sonno ed l buio ci affratellano (o assorellano) sempre – nella stessa misura in cui ci fanno indifesi e arresi. Ed ora mi vado a vedere i dipinti ed i disegni.

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