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Da: Appuntamento con il notaio

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di Alessio Paša

Figlia

La mamma è alta, giovane, bionda.
Parla al telefono, il pugno premuto sul fianco.
Le gemelle hanno rovesciato la brocca e l’acqua
gocciola copiosa sul tappeto.
Si avvicina, il grembiule bianco con le coccinelle rosse.
Non torna, è in aeroporto, c’è la nebbia,
papà arriva domani.

La borsa sottile, l’abito scuro, i capelli folti.
Non sembri stanco.
Magro, ai margini della smisurata sala partenze dell’aeroporto,
attenderai immobile che la nebbia si diradi,
non lascerai il tuo posto,
questa notte, domani, quanto sarà necessario.
Non ti farai mandar via da nessuno.
Quaggiù ti attendiamo golosamente.

Il rumore del mazzo delle chiavi sul pianerottolo,
ti corriamo incontro,
le mie sorelle luride di latte e di minestra
Hai gli occhi lucidi, l’abito spiegazzato,
ci baci sulla fronte appoggiando con cautela la valigia sul pavimento.

Un cenno di saluto per la mamma,
che è rimasta al buio nel corridoio.
Tutto bene? Lo domandate insieme.
Bene. Vi rispondete, mentre lei scompare
camminando silenziosa sui grandi tappeti persiani.

La sera siedi in poltrona,
leggi un libro, ascolti la radio.
Scorrazziamo eccitate sotto le tue gambe,
ci ricambi con un sorriso debole, una carezza stenta sui capelli.
Mi siedo davanti a te.
Voglio restare qui. Anche io ascolto la musica di papà.
La mamma, la pelle chiara, muove sgraziata le lunghe braccia,
mi prende per una mano, mi tira con forza.
Non disturbo, sto qua buona buona.
Figuriamoci, è tardissimo.
Torni con il capo chino sul libro. Scendo subito, sono capace da sola.

Noi siamo cresciute,
tu eri sempre uguale.
Viaggi, paesi lontani, squilli del telefono lunghi, inequivocabili,
brevi conversazioni, se fa freddo, quando torni, tutto bene.
La sera andavamo a letto senza di te
e la mattina ti trovavamo a far colazione con la cravatta rossa annodata di fresco.
Che lavoro fa papà?
La mamma risponde malvolentieri alle nostre domande.
Viaggia, incontra tante persone, è molto impegnato.

Il sabato era dedicato al circolo del tennis,
un posto stupendo, con tante fontane e prati verdissimi.
Ti raggiungevamo per il pranzo, mamma con i tacchi alti e la borsetta lucida.
Vestito di bianco, il maglione sulle spalle,
indifferente alle gemelle che si tiravano il pane e alla mamma, livida,
lo sguardo basso, per nascondersi da quelli che ci osservavano.
Mamma mangiava poco e usciva subito per fumare.
Nel pomeriggio restavo a guardarti giocare,
gesti larghi, palle lunghe, eri molto bravo.

Parlavi in cucina con la mamma fitto fitto a voce bassa,
lei aveva una voce melodiosa e dalle nostre camere la sentivamo come cantare,
tu le rispondevi serrato, senza pause, una parola attaccata all’altra.
Mai un grido, una sedia che cade, una porta sbattuta.
Tornavate ai vostri posti, tu in poltrona,
mamma a chiudere e riaprire le ante degli armadi,
a spostare senza requie abiti e cappotti.

La domenica pomeriggio ci lasciavate in casa con la zia.
Tu sei giovane, hai i pantaloni di velluto scuro
e la camicia chiara sotto il maglione verdone.
Lei indossa un abitino a fiori, scarpe rosse e un largo cappello di tela chiara.
A passeggio sottobraccio sul lungomare,
come fate a non guardarvi,
e a parlare soltanto per scegliere
quale gusto di gelato accoppiare al cioccolato.

Pochi slanci, nessun abbraccio,
né tra voi, né con noi,
la musica a basso volume,
la televisione negletta.
Parsimonia affettiva,
in una avara monotonia
che ha contagiato la nostra irruenza
costringendoci all’attenzione e alla prudenza.

Ti chiedevamo insistenti il bacio della buona notte,
che elargivi con pudore e riservatezza.
Più avanti negli anni, eravamo ragazzine,
appena un rado saluto con la mano, in piedi,
seminascosto sul ciglio della nostra camera.
Non hai mai avuto il desiderio di stringerci forte,
di sdraiarti sul divano accanto a noi,
incollato al confortevole calore della nostra carne innocente.
No, tu eri confinato altrove, e noi per questo ci disperavamo.

Le nostre amiche poco gradite,
per ogni richiesta di invito un motivo di rifiuto,
festicciole striminzite, tutte scalze, per non far rumore.
L’inconsueto evento di una amica a cena e,
rara coincidenza,
la tua presenza a tavola.
Allora parlavi,
la voce profonda, le maniche della camicia rimboccate,
narravi di viaggi e città, di aerei grandi e veloci.
La mamma cercava di interromperti.
Noi eravamo strabiliate,
a noi non raccontavi mai nulla.

Andavamo in montagna sempre nel medesimo luogo.
Sciavi indossando una giacca a vento di tela scura
e una lunga sciarpa lasciata al vento.
Alto, le spalle diritte, scendevi tenendo le braccia larghe,
lento, maestoso, i movimenti attenti, carichi, studiati.
Ti seguivamo incantate in fila indiana.
Abbronzato, gli occhiali scuri sopra i denti bianchissimi.
Ancora una pista ragazze. Ancora una, sì papà.
Sino a sera, affamate, pazze di gioia, togliendo gli sci a buio.
La mamma sciava poco e si inquietava quando tornavamo così tardi.

Discussioni, quelle con le figlie adolescenti,
poche parole educate,
strette tra la tua lontananza e la sterilità
delle reazioni della mamma.
La tua assenza smorzava le nostre passioni.
Non avevamo nessun avversario contro cui combattere.

A quindici anni ho raggiunto la certezza
che mia madre fosse la vessatrice
e tu la vittima incolpevole.
Eri in viaggio e dopo cena la mamma
stirava ballando lenta una vecchia canzone.
Non gli lasci spazio, lo costringi sempre nell’angolo,
non ascolti quello che dice, lo tratti come un cameriere.
La mamma mi ha guardato con gli occhi acquosi,
senza rispondermi, né smettere di stirare né di ballare.

Dopo la riunione del circolo delle volontarie,
quindici donnone ingioiellate, in maggioranza vedove,
mamma raccoglie le tazze e i posacenere colmi,
fumano come ciminiere, quelle signore generose.
Papà lavora per permetterti questo,
e tu lo ricambi con l’acqua fredda,
ti ricordi almeno cosa significa abbracciare un uomo.
Sedici anni, Giovanni, il mio primo fidanzato.

Ti ho chiamato in ufficio. Non mi hai riconosciuto subito.
Sì, hai capito bene, Giovanni, è il mio ragazzo.
Invitalo a pranzo domenica, mi farà piacere conoscerlo.
No, questa sera, beviamo l’aperitivo insieme.
Ti ho sentito deglutire con fatica, ma hai accettato
e hai stretto la mano a Giovanni come fosse un uomo
e lo tieni per un braccio mentre lo sospingi verso il banco del bar.
Gli offri un secondo bicchiere, gli parli nell’orecchio.
Non è questa la tua voce,
e non ti accorgi della mia vergognata sorpresa.

La nostra abitazione nella penombra,
le tapparelle semichiuse e le tende come bare.
Nell’ingresso l’appendiabiti a muro con cinque pioli,
uno per ciascun componente della famiglia.
Nelle sere d’invito mamma estrae da un armadio una piantana mobile
dove solo gli ospiti possono mettere i loro cappotti.
Pavimenti a cera, il salotto vietato e in bagno niente doccia, troppi schizzi.

A diciotto anni mi sono chiesta come trascorresse il tempo mia madre.
Le gemelle ne avevano quindici e per noi aveva poco da fare,
per se stessa quasi nulla, mangiava in piedi,
un pezzo di formaggio e i pomodori a morsi.
Come riusciva a rodersi il fegato così in silenzio,
senza smaniare, né avvilirsi,
al più torcendo le mani vizze
rialzando il collo teso in uno sporadico tic,
un vizio solitario, che teneva ben celato a tutti.

Discorrevi delle tue settimane peregrine
trascorse in faticose riunioni con olandesi biancolatte
e piccoli sudamericani dai capelli unti.
Digerivi le giornate senza sussulti e
a noi le rappresentavi come l’esecuzione di un dovere necessario.
Nessun entusiasmo, la noia mortale.
Abbiamo imparato presto a non porti domande,
il tuo presente era immobile, senza qualità.

Il passato era zona proibita.
L’università, il primo impiego,
il matrimonio, la mia nascita.
Nulla a proposito di quel momento magico,
della coincidenza astrale che vi aveva fatti incontrare,
quell’attimo,
se quel giorno la mamma non fosse inciampata
noi non saremo nate.

Alla fine, io terminavo il liceo, la tua assenza,
è divenuta costante, imprescindibile.
Apparivi a ore inconsuete, alle tre del pomeriggio,
per rifare la valigia e ripartire di nuovo,
oppure rientravi tardissimo, per dormire qualche ora vestito in poltrona
e scomparire prima che noi ci svegliassimo.
Mamma aveva da uscire, pallida, i rossetti vistosi,
e le stesse scarpe di dieci anni prima, consunte e fuori forma.
Credo, oggi, che vagasse sul lungomare stringendo la borsa sottobraccio,
i tacchi alti, i capelli in disordine, oggetto di occhiate imbarazzate.

Una mattina ti ho sorpreso addormentato sul divano,
la cravatta allentata, la barba lunga e la valigia
aperta su un disordine di mutande,
carte di lavoro e attrezzi da toelette.
Dormivi, nella luce del mattino filtrata dalle tapparelle chiuse,
il profilo alto, la bocca semiaperta, i capelli radi, schiacciati sul cuscino rosso.
Rannicchiato contro la spalliera tenevi stretta la giacca a coprirti il ventre,
le calze nere sopra i piedi magri.

Quella stessa sera a cena eravate molto seri.
Dobbiamo parlarvi. Hai detto, gli occhi fissi sul centro della tavola.
Avevo vent’anni, le gemelle diciassette.
Abbiamo deciso di separarci.
Papà se ne andrà per un po’. Ha detto mamma.
La cena non era pronta, piatti vuoti, in tavola mancava anche l’acqua.
Una delle gemelle ha predisposto pane, formaggio e maionese,
abbiamo mangiato senza fretta,
nessun imbarazzo, mamma era gentile
e l’altra gemella ha raccontato di un avvenimento di scuola,
facendoci ridere di gusto.

Ti abbiamo accompagnato in ingresso,
avevi la valigia grande e la borsa da lavoro,
hai baciato la mamma sulla fronte e a noi hai detto ciao.
Senza cravatta, il maglione blu di lana grossa,
hai impugnato la valigia con energia.
Vado. Hai detto.

Ci telefonavi ogni tanto,
pacato, offrivi risposte esaurienti, ridevi di gusto.
Abitavi in un residence e qualche volta ti ho chiesto di poterti venire a trovare.
È una stanza piccola, disordinata,
ti puoi immaginare, un uomo solo.
Ci vedevamo per un aperitivo, per una cena,
qualche volta con le gemelle,
ammutolite davanti a quell’uomo che conoscevano appena.

Hai chiamato per dirmi che avevi preso casa.
Sì, già da qualche settimana.
Ti eri sistemato, una cosa modesta
ma finalmente una casa vera.
Ero invitata a cena.
Una voce sconosciuta, giovanile e confidenziale.
Sai, qui, non sono più solo
Ho sorriso forte. Grande lupo, mi piaci papà.

Hanno aperto il portone senza domandare chi fossi
e al piano la porta è spalancata
su un ingressino rettangolare, libri per terra e
soprabiti e cappotti buttati a casaccio su una sedia al centro della stanza.
Vieni avanti. Hai gridato dal fondo del corridoio.
Vai in cucina, c’è Lorenza.

La figlia della compagna di mio padre,
una ragazza della mia età, i capelli tenuti alti da un nastro rosso
e gli scaldamuscoli neri sui polpacci.
Grande confusione di pentole sui fuochi,
libri di cucina aperti, il salame sull’affettatrice.
Io sono Lorenza, scusa il casino, ciao.
Mi offre una mano sottile, senza smalto sulle unghie corte.
Aspetta di là, è quasi pronto, siamo subito da te.

In sala i libri traboccano disordinatamente dalla libreria,
sopra un magro tappeto peruviano altri libri,
una maglietta appallotolata e una macchina da cucire ancora imballata.
Al centro del soffitto pende sghemba una lampadina,
per terra una borsa sportiva aperta su un paio di mutande femminili.
La tavola è apparecchiata senza cura, i tovaglioli di carta malpiegati,
i piatti di coccio spaiati, i bicchieri di forma diversa.
Ci sono soltanto tre coperti,
non c’è nessuna madre di Lorenza.

Preferisco ricordati magro e silenzioso
in piedi nella grande sala delle partenze
di un aeroporto lontano, in America, forse.

Quelle telefonate confuse, a voce alta,
come per aiutare le parole a superare l’oceano.
I tuoi ritorni assenti, la tua distanza,
anche da me, povera figlia,
che amava quel padre sottile,
che amava quel padre che avrebbe voluto avere.

(Da: Appuntamento con il notaio – Vibrisselibri, 2007)

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3 Commenti

  1. Mi piace moltissimo, anche l’idea di offrirne assaggi qui. Complimenti a
    Vibrisselibri e ad Antonio.
    La cosa bella di questo lavoro é che non c’é sforzatura, anzi sembra proprio che non si potesse far a meno di raccontarlo in questa maniera.
    Grazie.

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