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Blog, vecchiette, le parole e la morte

di Giorgio Vasta

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Nel tg3, seconda serata, del 9 novembre, Bianca Berlinguer intervista Vittorino Andreoli. Oggetto dell’intervista è l’omicidio, a Perugia, di Meredith Kercher. La tesi, serenamente ribadita da entrambi senza che il benché minimo dubbio subentri a perturbarli, è che internet, i blog, la vita “altra” che la tecnologia rende disponibile sono nel loro complesso “complici” di quanto è avvenuto, precondizioni ambientali del delitto. Colpisce in particolare il modo in cui Bianca Berlinguer, in diverse altre occasioni giornalista sobria e ortogonale, costruisce e rivolge le domande, come alimentandole attingendo a una sua radicata stizzosa convinzione – che fra l’altro nella mente scapigliata di Andreoli trova perfetto terreno di coltura – per la quale davvero i blog e la rete nella sua interezza, con la loro intrinseca disponibilità a favorire la messinscena del sé, non sarebbero altro che teatrini, luoghi della fiction (parola che tra i due interlocutori ricorre in più di un’occasione e sempre con un sottinteso spregiativo).
Le narrazioni contemporanee, insomma, o meglio i loro più recenti supporti tecnologici, sono potenzialmente criminali. Criminogene. E quindi, nel caso in questione così come in altri, legittimamente criminalizzabili.

Le narrazioni – che dal mio punto di vista sono anche, nella loro migliore declinazione, strutture epistemologiche, impalcature attraverso le quali si prova a dare forma all’esperienza e alla conoscenza – finiscono implicitamente sul banco degli imputati. E i blog vengono percepiti come una protesi, insieme elettronica e misteriosa, di quella condizione massmediaticamente seducente che è l’“essere giovani”, una estrusione dei corpi post-adolescenti fatta di circuiti, pixel, immagini e un microscopico residuo di carne umana. I blog come i tatuaggi, come le griffe, segnali di una contemporaneità allo sbando.
Sorprende però la contraddizione. Perché se da una parte c’è un atteggiamento moralista e censorio nei confronti di questi costumi, sociali e narrativi, dall’altra gli strumenti che muovono le critiche – ovvero giornali e tv – producono a loro volta altre narrazioni ancora, e tutte di segno comune. Quello che maggiormente incuriosisce sono gli immaginari dai quali partono queste critiche, il sistema di riferimenti che viene dato per implicito e dal quale ogni giudizio prende le mosse.

Faccio alcuni esempi.
La didascalia a un’immagine che documenta l’articolo sul delitto di Perugia, a pagina 8 del quotidiano “La Stampa” del 10 novembre, recita I fidanzati diabolici. L’immagine stilizza il pomeriggio trascorso da Amanda Knox e Raffaele Sollecito. L’elaborazione in computergrafica mostra un interno, un soggiorno – mobile-libreria, televisione, tavolino, divano – e due sagome nere, Amanda e Raffaele. Una, la sagoma Raffaele, in piedi a fumare; l’altra, la sagoma Amanda, seduta sul divano. Anzi, sulla spalliera del divano, perché, si sa, i potenziali assassini, blogger selvatici insensibili alla cura degli arredi, siedono sempre sulle spalliere e mai sui canonici sedili. Diversamente non sarebbero blogger selvatici. Il testo della didascalia, infine, più o meno consapevolmente subordinato ad atmosfere alla Eugène Sue, chiarisce: “I due fidanzati trascorrono il pomeriggio a fumare hashish a casa di lui. Escono alle 20,30. Sono annoiati come sovente capita. Lui cerca sensazioni nuove.”

Proponendosi un’analisi spietata del linguaggio giornalistico che racconta la morte – compito che credo essere in generale utile per fare una periodica manutenzione degli immaginari – le ultime due frasi della didascalia mi sembrano indicative. Sono annoiati come sovente capita. Curioso l’uso dell’avverbio ‘sovente’, così manierato, così pretenzioso, ma semplicemente perfetta la descrizione dello stato d’animo condiviso dai due. Annoiati. Lo spleen che li avvolge (“Quando basso e pesante il cielo grava…”), l’accidia come premessa al crimine. Un pigmento luciferino che si affaccia sulla scena. Una frase che serve da innesco alla successiva: Lui cerca sensazioni nuove. Lui cerca sensazioni nuove perché è, con lei, annoiato. Prima la causa, poi l’effetto, che si fa a sua volta causa di quell’ulteriore effetto che è la traduzione in atto della ricerca di sensazioni nuove, il rapporto sessuale e poi l’omicidio. L’essere giovani, e dunque annoiati, e dunque in cerca di sensazioni nuove (per lo più orientate al consumo di droghe e di sesso) come ragione di scandalo. In filigrana sembra di poter leggere esclamazioni come “Non c’è più mondo!”, o il più raffinato “O tempora, o mores!” In generale una percezione delle cose che non è semplicemente distante dalla famigerata categoria dell’“essere giovani” (che è in sé sfarinata se non gassosa ma che invece i media intendono sempre in maniera precisissima, come se fosse un solido, un cubo perfettamente riconoscibile: del resto l’hanno inventata loro), ma che risulta distante prima di tutto dall’umano. Nel senso che la nozione di umano in ambito giornalistico sembra essere quella di una vecchietta di paese, ignara di tutto ciò che esiste, avvitata a una percezione delle cose che esclude come “non umano” tutto ciò che non le è noto. Quindi quasi tutto. Il giornalista italiano si imbarazza, non sa dire, è reticente, dice “sensazioni nuove” nello stesso modo in cui dice “tenera amicizia”. Si legge, si ascolta e si resta sgomenti.

L’articolo di Alessandra Cristofani, subito sotto, nel fare la cronaca della giornata, è a sua volta generosissimo.
“C’era anche lui [ci si riferisce a un musicista maghrebino irreperibile] la notte in cui Mez ha urlato tutto il suo terrore mentre Amanda, la dolce Amanda che ieri dal carcere chiedeva un dizionario, si tappava le orecchie.” La dolce Amanda. E poi altre espressioni come “festino a luci rosse finito nel sangue”, straordinaria nella sua capacità di ricondurre quel che accade ai cliché più immediatamente riconoscibili, all’estetica exploitation; ”Sua, del quasi ingegnere dai capelli quasi biondi, l’arma del delitto.”, con la reiterazione sarcastica del “quasi” cui segue, poche righe sotto, “… ma intanto l’Audi del giovanotto pugliese è stata sequestrata…”, con l’ulteriore inevitabile sarcasmo concentrato in “giovanotto”.
Qui l’articolo nella sua interezza, ed è facile, tramite Google, trovare, della stessa firma, le altre cronache. In ogni caso domina l’enfatizzazione capziosa. Le parole non sono più le parole, non si limitano a riferire all’interno di una strategia comunicativa nella quale dovrebbero confluire prudenza, decenza e sobrietà, rispetto dei morti (e dei vivi), un rispetto che non essendo esistito nelle azioni compiute con le mani dovrebbe esistere nelle azioni compiute con le parole. Al contrario si producono parole che cercano lo scandalo, l’indignazione di maniera, la reprimenda generica. Una lingua che ha già chiuso la sua privata istruttoria, che l’ha chiusa nel momento in cui l’ha aperta, decidendo le responsabilità, chiarendo che il mondo è un luogo che può essere osservato e risolto da una prospettiva manichea.

Un atteggiamento analogo si riscontra nelle discussioni televisive. Ancora una volta, il fatto che Amanda Knox e Raffaele Sollecito abbiano entrambi un blog è segnalato come una specie di aggravante, indice di una dimestichezza perniciosa dei due con il mezzo tecnologico. E cosa dire, poi (e qui repubblica.it si è distinta come sempre da par suo), delle foto che Knox e Sollecito hanno pubblicato sui loro blog. Lei truccata ed elegante, in posa da fotomodella (circostanza che induce la succitata giornalista a escogitare l’inaspettato epiteto “dark lady”, del quale davvero si sentiva il bisogno), lui fasciato di carta igienica e con una mannaia in mano, un più che evidente prodromo di un impulso omicida – rilevano Berlinguer e Andreoli nell’intervista di cui sopra – un vero e proprio indizio, una dichiarazione di intenti, il manifesto del giovane blogger assassino seriale. È il caso di intercettare subito quei blog nei quali sono presenti fotografie dello stesso tenore goliardico (decisamente tanti!) e andare ad arrestare tutti questi pericolosi potenziali assassini (a confortare prospettive di questo genere c’è adesso quanto accaduto in Finlandia, e quindi si accetta l’emotività allarmistica a detrimento di un po’ di sana razionalità).

E ancora la terminologia millenarista – una terminologia caricata al massimo, tipizzante, finalizzata a liberarsi in tempi brevissimi delle persone a vantaggio dei personaggi – alla quale molti giornali fanno ricorso. Le stesse intonazioni dei giornalisti televisivi, il timbro, il volume. I giudizi impliciti, l’irrisione, il sottintendere “a me – carini – non la si fa”, le analisi da senso comune, la psicoanalisi da rotocalco, lo studio ostinatamente grossolano dei meccanismi che regolano i concetti di verità e di menzogna, del loro statuto e della loro friabilità. E il pedagogismo spiccio e spocchioso. La riproposizione dello schema, vecchio e rassicurante, per il quale nei servizi televisivi si dà la parola ai padri – che compiangono, lamentano, rimproverano – e poi ai figli – scelti tra i più utili a confermare lo stereotipo che li vuole sfatti, tonti, sintatticamente inesistenti, dunque complici del luogo comune paterno, o meglio paternalistico. L’eterna consolatoria frattura tra le generazioni che nella sua declinazione massmediatica ripropone la più consunta infantilizzazione, nella quale la tv è il padre e il telespettatore è il figlio che va corretto ed educato. Restando in tema televisivo ma osservando la questione da un’altra angolazione, penso alla scelte lessicali che leggo nella lettera con la quale la Rai mi sollecita a pagare il canone: “Con riferimento alle nostre precedenti comunicazioni, da Lei ricevute in questi ultimi mesi e per le quali non ci è pervenuta alcuna risposta utile alla definizione della pratica, desideriamo ricordarLe nuovamente i vantaggi che offre un pagamento spontaneo e quindi bonario dell’imposta.” Prima l’intonazione piccata, il risentimento esibito e insieme trattenuto, come in una scaramuccia tra fidanzati (“Te l’avevo detto che l’appuntamento era alle 11,00 e non alle 11,30, te l’avevo detto a voce e poi per sms, è inutile che fai finta di non ricordartelo…”); poi l’apertura, la disponibilità (ma sempre severa), la geniale contraddizione che grava sull’aggettivo spontaneo, “un pagamento spontaneo”, nel contesto di una lettera di sollecito, e di quell’indimenticabile bonario, che materializzandomi davanti agli occhi la pappagorgia di Aldo Fabrizi mi conforta e mi consola e mi fa sentire comunque figliol prodigo, qualcuno che deve solo mettere la testa a posto, pagare il canone e poi mangiare il vitello grasso al desco del padre.

Le parole servono a dire. A “rompere” il silenzio. Va bene. Ma ho la sensazione che le parole possano servire anche a fare silenzio. A costruirlo. A difenderlo. Le parole che dicono la morte – o che intorno alla morte di qualcuno gravitano – sono sempre a rischio “abiezione”, per usare il termine che Rivette adoperò ragionando su Kapò di Pontecorvo. È sufficiente il voler estetizzare, fare il doping alla realtà, suscitare indignazioni ovvie, prendere le parti in maniera ingenua.
C’è una quota fisiologica di silenzio che sta all’interno di ogni parola, negli interstizi di vuoto tra le lettere. In certi momenti, quella quota di silenzio può esserci utile a “nominare”, con decenza, la morte.

[nel momento in cui pubblico questo articolo, su Rai 1 comincia la puntata di Porta a Porta. Si intitola “Ventenni all’inferno”. In una sorta di preludio soffuso, Bruno Vespa, in piedi, intervista i “giovani” perugini. Fa domande sull’uso di droga, su quello che chiama “sesso estremo”. L’humus culturale degenerato che produce il crimine. Penso che il bisogno di cause sia qualcosa di spasmodico, di feroce. Una specie di ricatto. Il mondo accade e Bruno Vespa partorisce cause.]

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23 Commenti

  1. C’è un modo grossolano di cautelarsi dai media scaricando su di essi la responsabilità della degenerazione dei costumi (ed è quello che indichi tu) e ce n’è uno più meditato, che meriterebbe più attenzione.
    Come non ho mai pensato che lo spettacolo televisivo della violenza possa aumentare di per sè il tasso della violenza giovanile, non credo affatto che l’esposizione di fantasie su un blog possa innescare la loro riproduzione reale. L’azione dei media sullo psichismo è molto più profonda, e riguarda la strutturazione del principio di realtà, come ha insegnato McLuhan.
    Il libro ha incentivato la formazione del punto di vista individuale, la radio ha riportato il tam tam tribale, internet ha reso possibile la comunicazione senza esperienza. Chi come me ha avuto accesso alla Rete intorno ai quarant’anni, non può non chiedersi quale effetto abbia la medesima quando non viene a integrarsi ad una personalità strutturata da un sistema precedente di esperienze e relazioni, ma a sostituirlo.
    In questa direzione io cercherei le ragioni di una cautela nell’accesso alla Rete da parte dei giovani, che finora è stata sostituita da un’inutile allarmismo sui contenuti.

  2. non solo Cristofani, ma anche il Telegraph utilizza toni piatti, rassegnati, con oscillazioni tra il morboso e il terrorifico da tabloid.
    http://www.telegraph.co.uk/opinion/main.jhtml?xml=/opinion/2007/11/10/do1007.xml
    E’ interessante vedere come questi registri stilistici stiano diventando standard, uscendo dalle nicchie narrative in cui erano confinati (romanzetti giallo-rosa, le didascalie ammiccanti dei giornaletti scandalistici, la diaristica), perché credo che fino a oggi un travaso simile e generalizzato fosse prerogativa del burocratese verso la lingua standard e neo-standard. Questa era la novità sociolinguistica, si pensi all’italiano di Totò o alle locuzioni di canzoni pop come il Triangolo): lo si poteva spiegare pensando che provenendo da fonti autoritative ovvie (la legge, i regolamenti, le procedure, le sentenze. poi la politica), era più facile che si diffondessero assumendo lo status di lingua da imitare. Ma parole e locuzioni che oggi provengono da queste altre fonti, altrettando rigide e prive di interstizi espressivi, di che autorità godono? Che marcia in più hanno rispetto ai vari substrati linguistici individuali (del proprio dialetto, della lingua parlata in famiglia, poi di quella appresa a scuola), su cosa hanno fatto leva per imporsi in modo così diffuso -grazie ai media-, così socialmente trasversale?

  3. La retorica televisiva è “ad animos permovendos”. Non si propone di “docere”, ossia di fornire informazioni, di sollecitare un ragionamento, bensì di estorcere un’emozione. E per farlo deve attenersi all’ovvio, coccolare i nostri pregiudizi, così come prescriveva Cicerone per i sermoni o i discorsi pubblici. La mozione delle entragne, siano esse pericardio, rognone o pia madre, è condannevole non in sé, cioè per la sua evidente disonestà intellettuale, l’intento manipolatore, ma perché abolisce la frattura necessaria fra chi parla e chi ascolta. Se una trasmissione vuol far di me un uomo migliore, o rassicurarmi che il male è sempre e solo altrove, io cambio canale perché significa che son finito nei bassifondi dell’etere, dove si uccide per un euro e ci si salva l’anima anche per meno. Il suo miserabile scopo è quello di gestire e dettare simultaneamente i nostri sdegni, le nostre commozioni, le nostre esaltazioni, le nostre fantasie, perfino i nostri argomenti di conversazione, con lo stesso potere suasorio di quando cerca di venderci un detersivo o un’automobile. Ma è rassicurante anche l’illusione di credere che il suo potere di condizionamento si eserciti solo nei confronti delle fasce culturalmente più deboli. Quanti di noi, che aspirano al ruolo di coscienza critica del paese, finiscono poi per andare a rimorchio dei temi proposti dai media come emergenze prioritarie? Il crocefisso nelle scuole, le coppie di fatto, la fecondazione assistita, il burqa, la mucca pazza, l’indulto, i cambiamenti climatici, gli ogm, la casta, l’antipolitica, i lavavetri, i rom, gli ultras; tutte questioni epocali che puntualmente svaporano nell’arco di una settimana, neanche il tempo di far bella figura firmando un appello di coscienziosi intellettuali redatto con le stesse lacrimevoli ovvietà – solo un po’ più forbite – usate da Vespa a Porta a porta.

  4. Molto interessante il pezzo di Giorgio Vasta e per me davvero condivisibile.
    LIBERARSI IN TEMPI BREVISSIMI DELLE PERSONE A VANTAGGIO DEI PERSONAGGI… è questa l’osservazione fondamentale di tutta la riflessione.

  5. Quoto anche io l’impostazione di Vasta, per la disamina e l’osservazione dei fatti mediatici che fa con il suo intevento, ma è a Binaghi che mi viene di fare un osservazione. Mettentendomi in scia all’affermazione sulla “cautela nell’acesso alla rete da parte dei giovani” a conclusione del suo intevento, mi viene da dire che, per quanto condivida una necessaria presa di coscienza sull’utilizzo della rete, parlare di cautela, mi rimanda a forme attenuate di divieti. I divieti sono uno strumento utile se ben applicato, certamente, ma nel caso della rete e dei “giovani”, credo che sia importante che nel loro quotidiano abbiano la possibilità di fare esperienza. E’ la serie di divieti strumentali, di cancelli, muri, restrizioni che nel mondo fuori dallo schermo impediscono l’incontro con l’altro, restringendo e condizionando lo spazio fisico vitale, che hanno ridotto la possibilità di fare esperienza.
    A volte penso che nella rete ci siamo caduti.

  6. Come al solito le cose che scrie Giorgio Vasta sono puntuali e necessarie fino all’ultima sillaba. Mi intrometto giusto per segnalare il bel gesto del Corriere di oggi che mette in prima il pezzo: “sei bella, come stai? Lettere e messaggi per Amanda in cella” e a pagina 21 l’articolo ci regala in chiusura questa perla “Quelli che vorrebbero passare una notte con lei, forse, li ignorano [gli elementi dell’accusa]: attratti come sono da altro, di Amanda viso d’angelo Knox”. Il giornalista si chiama Alessandro Capponi.

  7. @Malfagia
    “E’ la serie di divieti strumentali, di cancelli, muri, restrizioni che nel mondo fuori dallo schermo impediscono l’incontro con l’altro, restringendo e condizionando lo spazio fisico vitale, che hanno ridotto la possibilità di fare esperienza.
    A volte penso che nella rete ci siamo caduti”.

    Sono assolutamente daccordo.

  8. Personalmente, la lettura di certi blog mi procura inquietudine e in coscienza cerco di eviatare alcune letture e alcune immagini. Non so dire se questi tipi di letture che mi turbano turbino anche gli altri, ma immagino possa essere del tutto possibile. Cioè, non lo si può escludere. A me fanno venire qualche nevrosi piccolissima, che mi lascia impertutbabile, altre volte invece mi fa venire piccoli tic nervosi… insomma, non va bene generalizzare ma nemmeno dire che non c’è problema. Avete mai pensato agli adescamenti in internet? ai plagi operati con la rete? Beh! insomma, bisogna stare attenti a non abbassare il livello di guardia.

  9. E Patrick, il musicista congolese?
    La sua voce in questi giorni non si è sentita molto, non ha rilasciato interviste o dichiarazioni, non ha un padre primario oncologo, non ha un blog (quindi non si può incolpare internet), è integrato, sposato, padre di famiglia e artista (quindi non un clandestino delinquentoide).
    Di lui che cosa si dice?
    Io non intervengo, sia perché in questi giorni sono sommerso dal lavoro e non sto seguendo molto i media, sia perché lo conosco di persona (anche se solo di vista, come quasi tutti qui a Perugia), ma mi piacerebbe sentire qualche parere.
    Secondo voi, come l’hanno costruito i media? Che narrativa hanno creato, se ne hanno creato una? E se non l’hanno creata, perché?

  10. eh sì caro sergio, ci danno il titolo del tema e noi lo svolgiamo.
    dobbiamo stare al passo, al passo, op op op…
    je suis frastornè
    senza traccia saremmo persi, non avremmo più un cazzo da dirci.
    si potrebbe far l’amore o mangiare cetriolini guardando fuori dalla finestra.
    tanti baci
    la fu

  11. McLuhan, almeno per quello che ho potuto leggere, non ha potuto comprendere appieno il fenomeno. Internet, nella forma in cui lo conosciamo noi, nasce nella seconda metà degli anni ’90. Pur condividendo, per buona parte, il suo approccio non sono sicuro che il punto cruciale risieda nella mancanza d’esperienza (che mi sembra più una acorporalità dell’esperienza, e forse nemmeno questo). Mi sembra che la difficoltà grossa d’approccio stia nella capacità di gestire la complessità (complexity) dei rapporti personali disponibili.

  12. Le rete, quando si tratta di documenti tecnici, ha contenuti lineari e gli scambi e le relazioni avvengono su questi contenuti, mentre invece, quando si tratta di emozioni, come per esempio i testi letterari o i blog personali, che alla fine sono cose personali, i contenuti sono praticamente più vari e più varia è la loro interpretazione. Per cui, di fronte allo stesso documento di emozioni, come un blog personale, le reazioni emotive potrebbero essere le più dispare e perfino non inerenti al messaggio dell’autore del blog; nel particolare, uno che mette una foto avvolto nella carta igienica potrebbe avere intenti goliardici ma il lettore del blog potrebbe reagire con le proprie paure o con le proprie ossessioni. Ma di certo è così anche la vita, solo che in rete l’isolamento del navigatore è poco capibile e là dove nel reale è riconoscibile una reazione a queste ossessioni e paure, qui in rete è assai più difficile; come se alcune emozioni e alcune relazioni siano rivolte in realtà ad un sé o addirittura ad un altro che non è realmente e fisicamente al di là della connessione della rete.

  13. Il regime ci riempie di tutte queste “fufferie” per distogliere il paese dai veri problemi come ha sottolineato,anche, Travaglio. I blog, una “rivoluzione industriale” che toglierà posti di lavoro ai pennivendoli del sistema. Spero che questo avvenga al più presto. così ci liberiamo del “concime” che non fa ricrescere le piante.

    Marco

  14. Sì, sì, liberiamoci di coloro che dissentono. Evviva la rivoluzione. Valorizziamo le virtù del bavaglio della censura.

  15. caro sergio mi rende infelice il fatto che non le piacciano i cetriolini, per il resto io mi riferivo al suo omonimo :))))

    internet è una bella trovata, l’uomo è sempre quello.
    non rimpiango un passato che non ho vissuto,
    l’età dell’oro è quella dell’inconsapevolezza quindi non fa testo.

    credo che c’entri qualcosina e se non c’entra io mi scuso sinceramente.
    apprezzo molto tutti questi vostri pensieri ma quando c’ho un vasetto di cetriolini in mano mi si apre un mondo.
    baci cari
    la funambola

  16. Da cinquantenne imbufalita, ho sigillato la TV da almeno sei anni, e seguo (poco) la Radio e abbastanza i giornali sulla maledetta rete. Qualunque sia il mezzo, non si può non notare che la cronaca nera è il primo alimento di tutto quanto fa spettacolo. Vivendo FUORI dai media, nella vita della gente ( ho il privilegio di lavorare a contatto con la gente), mi rendo conto che la vita è tante altre cose ( e meno male!). Riusciremo mai a raccontarla fuori dai frame obbligati, dai generi… giallo, thriller, poliziesco, politico di bassa lega? Nazione indiana è uno dei mondi possibili.

  17. Mi piace l’impostazione analitica del testo e i toni di Vasta, moderati e un filo ironici.
    Detesto invece che in Italia si facciano i preprocessi alla tibbùsione da parte di cinici pressapochisti senzazionalisti, tanto per smuovere i bassi geni, come diceva quel bravuomo.
    E’ un grave malattia, credo.
    MarioB.

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