Le cose vanno come vanno

di Christian Raimo

Da quando mi sono sposato, nel 1992, mi è successo di dormire con altre donne, di starci, di tradire mia moglie insomma, soltanto un paio di volte: la prima risale a una decina di anni fa, durante un periodo oscuro e avulso dal tempo che nella mia testa e forse anche nella realtà coincide con la presunta, o anche vera, malattia di nostro figlio Edoardo, che per un anno intero, prima che gli fosse finalmente accertata una forma rara ma piuttosto innocua di artrite reumatoide, fece dentro e fuori dagli ospedali tra accertamenti invasivi, diagnosi allarmistiche e cure sbagliate; al tempo dimagrii in modo innaturale e drastico di una ventina di chili, per la tensione, la fatica o semplicemente per l’osmosi del morbo immaginario, e – in nome di qualche tipo di compensazione, credo – alla fine di tutto, come per respirare dopo essere stato troppo tempo sott’acqua, non feci molto per evitare una storia abbastanza dimenticabile con una donna che già allora non consideravo neanche bella, una nostra amica delle vacanze estive, capace però di rimanere in silenzio, in mia presenza, quasi incantata, per ore.
La seconda volta, la seconda volta che mi sono ritrovato a svegliarmi accanto a una persona diversa da mia moglie, con un odore diverso, un diverso modo di tenera la bocca semiaperta nel sonno, e questa volta senza provare l’ottuso disagio del post-tradimento, è cominciata lo scorso febbraio una sera che ritornavo verso casa in scooter e fui sorpreso da uno di quei nubifragi improvvisi e infingardi che da un momento all’altro sembrano poter distruggere per intero, palingeneticamente, Roma, rovine imperiali e palazzi umbertini compresi, e spazzare via in un colpo solo tutti gli uomini che si accalcano per le strade: mi riparai in un baretto squallido vicino al terminal dismesso dell’Ostiense, dove – mentre guardavo fuori aspettando che spiovesse e non spioveva – entrò anche un’altra ragazza, alta, allampanata, androgina senza volerlo, con una somiglianza che lì per lì mi venne immediata con l’attrice canadese Marie-Josée Croze, o meglio con il suo personaggio nelle Invasioni barbariche di Arcand – la nipote sfaccendata, tossica, che fa le iniezioni di eroina al protagonista, il professore malato di tumore. Era talmente fradicia, lei, questa ragazza, colante acqua, che la proprietaria del bar le offrì subito un asciugamano e quindi un phon. Ma appena lei lo attaccò alla presa, come per un incantesimo al contrario, il sovraccarico elettrico fece saltare la luce, e lei cacciò un urlo, si fece prendere da un panico inatteso per il buio, cominciò a strillare e a agitarsi come in preda alle convulsioni, cercando a tentoni qualcuno che le stesse vicino, aggrappandosi con le unghie alla mia giacca, finché le iniziò a uscire il sangue dal naso, e mi parve sul punto di svenire: così per mezz’ora. Quando poi si calmò, quando la burrasca anche si placò, quando la proprietaria riuscì a ripristinare la corrente, mi convinsi, e convinsi lei, ad accompagnarla al pronto soccorso del Nuovo Regina Margherita, non lontano da lì, dove la trattennero una notte per sottoporla a una TAC e da dove il giorno dopo mi chiamò per ringraziarmi e per offrirmi un biglietto per uno spettacolo teatrale di un suo amico. Io non dissi no, e cominciammo a vederci.
Dovrei dire di avere passato lo scorso inverno, e la primavera, metà dell’estate, e l’autunno, vivendo una doppia vita, mistificando la realtà dell’una a dispetto dell’altra e viceversa, ma – senza essere reticente, o autoassolutorio – non sarei esatto nel descrivere la cosa in questi termini, perché dovrei parlare piuttosto di sovrapposizioni e giustapposizioni, di coincidenze che non credo vadano interpretate, come per esempio il fatto che questa ragazza si chiami Daniela, ossia come mia moglie; e dovrei – finendo coll’essere sincero – confessare che quello appena passato è stato un anno piuttosto felice: con mia moglie abbiamo deciso (o meglio: lei si è messa in testa, e io l’ho assecondata) di avere un altro figlio, di sfidare, a quarantasette anni, i consigli di amici e parenti, e di occuparci della buona salute dei miei spermicini e dei suoi ormoni follicolo-stimolanti, di quelli luteinizzanti e degli estradioli.
E questo è avvenuto contemporaneamente, contestualmente direi, a quello che mi pare essere stato un mio personale cammino di formazione che avevo rimandato per chissà quanto tempo e che invece soltanto con Daniela, la ragazza Daniela, con lei, attraverso di lei, ho cominciato a compiere: non potendoci vedere mai di sera, gli appuntamenti che ci davamo si dovevano, per forza di cose, reggere sempre su una dose auto-alimentata di invenzione, di improvvisazione, di stimolo reciproco. Si trattava quindi di andare per mostre, di imbucarsi alle matinée cinematografiche per la stampa con gli inviti che lei riusciva a rimediare da una sua amica che lavora in una produzione, di andare a frequentare addirittura alcune lezioni di filosofia o di letteratura all’università, e – con una fascinazione tacitamente condivisa da subito da entrambi – di cercarci motel desolanti vicino il Raccordo o quelli ancora più pulciosi a ore che si trovano nelle stradine incrociate tutt’intorno alla stazione Termini.
Proprio mentre eravamo in una di queste stanze di questi motel, qualche mese fa, è accaduto – e questo è il fulcro del racconto che vi sto facendo – l’episodio che ha rimesso in gioco la mia percezione della realtà. Steso sul letto, annullato, avevo acceso distrattamente la televisione, dopo che Daniela si era addormentata, stanca e annullata più di me per aver finito di confessarmi quello che per mesi avevo temuto sarebbe arrivata a dirmi: non soltanto si era innamorata di me, ma era incinta – e le due cose, secondo il suo punto di vista, erano in inscindibile relazione. Nella camera anossica che era diventata adesso la stanza, nel televisore a dieci pollici piazzato in alto il solito conduttore del telegiornale parlava del delitto avvenuto il giorno prima, due giorni prima, a Tor Marancia, già definendolo ad uso degli spettatori “il delitto di Tor Marancia”: una ragazza, una ragazza di ventott’anni era accusata di aver ucciso la sua coinquilina con cui – stando a varie dichiarazioni concordanti – pare avesse una relazione da tempo, solo parzialmente ricambiata. Mostravano in tv, in una specie di slide-show con un commento musicale lugubre sotto, le immagini della presunta, quasi certa, assassina, raccolte da foto di famiglia?, di amici?, da blog, da myspace, dal dovunque che ognuno sparge di sé nel mondo; ed erano immagini di una bellezza abbacinante: io guardavo, stregato, svuotato, il volto ricorsivo di questa ragazza, e mi venivano in mente in successione: certi volti di modelle antiche, del secolo scorso, degli anni ’60 o del dopoguerra persino, e poi alcuni ricordi vaghi patinati delle donne della mia infanzia, e poi delle impressioni fuggevoli di ragazze che avevo incrociato soltanto una volta in vita mia e da cui però ero rimasto abbagliato. Mi sentii, non so come dirlo per essere credibile, innamorato, così, come una porta che si apre all’improvviso al centro di un muro, come non mi capitava da anni. Innamorato, senza filtri né aggettivi né dubbi, di una ragazza che vedevo solo sullo schermo, un’assassina e lesbica, di nome – e il caso ancora una volta si dimostrava un grande stronzo – Daniela: Daniela Carta.
Quello che è successo dopo è la dimostrazione della capacità narrativa intrinseca della vita. Il modo in cui reagii alle dichiarazioni di Daniela, della ragazza Daniela, fu quello di fare finta che lei non mi avesse detto niente di cruciale: le seguitavo a proporre di andare al cinema il pomeriggio, di accompagnarla per chiese, e a mia moglie continuavo a non fare cenno, né a mostrare in alcun modo i pensieri che avevo, la massa gommosa di tutti pensieri. Nel frattempo (“nel frattempo” che in realtà era un tempo che passavo per la gran parte immobilizzato, almeno mentalmente) presi a scrivere delle lettere barocche, esaltate, dichiarazioni d’amore di una sincerità al limite dell’autodenuncia a Daniela Carta, presso Casa circondariale di Rebibbia, via Bartolo Longo, a cui non ricevetti risposta a parte due scarni – anche se per me fondamentali – biglietti di ringraziamento per la solidarietà manifestata.
Due giorni fa mia moglie ha ritirato le analisi che confermano quello che le aveva detto il test la settimana scorsa: è incinta, anche lei è incinta – il feto è una goccia di vita di quasi due mesi e fino a questo punto è sano. Sarei dovuto diventare dunque due volte padre entro la fine dell’anno, se a Daniela, alla ragazza Daniela, al quinto mese, un fibroma uterino non le avesse causato un aborto spontaneo. Daniela Carta è stata rinviata a giudizio e – a quanto dicono i giornali – si è fidanzata, non ho idea in che senso, forse platonicamente, forse nella finzione del gossip dei media, con un giornalista che da subito si era interessato al suo caso, ed è riuscito a incontrarla una volta in carcere.
Le cose – pensavo proprio oggi –, alla fine, vanno come vanno.

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54 Commenti

  1. OT, scusate: mi chiedo se “dormire” per “fare sesso” sia un calco dall’inglese oppure no. Il De Mauro lo registra come una forma eufemistica ma, boh, a me suona proprio come un calco (magari così diffuso che il dizionario lo registra).

  2. io l’episodio di daniela carta, non lo ricordo, ma non importa, magari è inventato, oppure io non seguo spesso la cronaca nera, però mi ero sempre domandata, incuriosita, quale tipo-di-umano scrivesse ai coinvolti in casi d’omicidio, perchè ne rimaneva attratto e affascinato, anche l’americana amanda, al momento, sta ricevendo un sacco di lettere d’amore e solidarietà in carcere.
    Ora, grazie al tuo pezzo, almeno un tipo del genere me lo posso immaginare e non pensare, ottimisticamente, che fossero tutte ballose invenzioni dei soliti giornalisti:-).
    geo

  3. Vedo che hai ricevuto solo critiche. Poteva essere altrimenti? Siamo circondati da persone che credono che i sentimenti e gli affetti siano fatti evidenti e controllabili. Basterebbe questa storia a far cadere ogni certezza sull’amore.

  4. Basterebbe questa storia a far cadere ogni certezza sull’amore

    … perchè qualcuno ha certezze sull’amore?
    l’amore è come l’arte, a priori non esiste :-) quando c’è magari lo si vive, lo si apprezza e ci si crede (anche senza certezze), ma in absentia chi le ha le certezze sull’amore, scusa? … e sull’arte?
    boh
    geo

  5. Abile, molto abile, sia con la penna che a gestire un tripla situazione di omonimia, amori e figli programmati e non. Come navigare tra Caso e Metodo, Passione e Raziocinio, tra Gotico e Pop.

  6. Pensavo oggi pomeriggio al personaggio, che come si chiamerà, forse Danilo, immagino e Raimo lo ha reso perfetto nella sua incoscienza o assenza di sguardo su se stesso, o almeno a me sembra così.

    La prima cosa che ho pensato era però dovuta a una cattiva lettura tutta mia: mi riferisco al termine “stronzo” che nel racconto riguarda il caso e che invece io avevo riferito a Danilo!
    Riporto lo stesso, nonostante l’equivoco, perché mi sembra pertinente:
    Questo Danilo è tutto tranne che stronzo, la stronzaggine presuppone un minimo di presa di posizione di fronte alle cose, di “scelta” più o meno calcolata, mentre Danilo mi sembra più trascinato dalla corrente che velista. Lo stronzo poi di solito è anche “figo” e Danilo invece mi risulta privo di fascino, di spessore, di un minimo di sofferenza anche simulata. E’ di una mediocrità che resta tale.

    La seconda parola che mi sembrava e sembra inadatta è il “pensavo” nell’ultima frase. Non è certo un pensare ergo sum, né un pensiero emotivo ne’ un vero pensare. Mi sembra che Raimo qui abbia voluto testimoniare un’assenza di pensiero che parla in prima persona. Io avrei messo “notavo”.

    Confermo la mia opinione di prima: racconto molto riuscito

    fem

  7. E’ il titolo che dà il giusto taglio al racconto.

    E in fondo in Danilo io mi ci ritrovo, soprattutto in questo ultimo periodo…, proprio a partire dal titolo.

    Sarà perché sono quasi suo coetaneo, sarà perché sento come se non avessi più nessuna capacità di intervenire…su come vanno le cose…,

    cose che, sorprendendomi, misteriosamente vanno…

    Ma non vanno più secondo la direzione (o anche soltanto secondo una direzione) che mi ero dato anni fa… a dire il vero neanche tanti anni fa.

    Sono disorientato, ma cosa posso farci? E’ accaduto anche questo…

    Danilo non fa “molto per evitare una storia abbastanza dimenticabile”, Danilo, non parla di ‘quello’ che gli accade, di ‘ciò’ che gli accade, ma di ‘come’ gli accade e del fatto che gli accada comunque. (Quel ‘come’ è in modo casuale o comunque in modo non controllabile o comunque non coerente).

    Quelle storie sono narrate da Danilo più per il come sono apparse casualmente nella sua vita (addirittura “nel televisore a dieci pollici piazzato in alto”) che per la relazione, o per l’amore o addirittura e semplicemente per il sesso che hanno prodotto.

    La cifra del racconto per me è proprio questa descrizione (attenzione ora) non fatalistica della realtà, ma estremamaente realistica (della realtà).

    Solo che non ce ne accorgevamo.

    E’ sempre stato così anche quando eravamo giovani e credevamo di avere una missione da compiere.

    Cristo! Cosa sarebbe stata della mia vita se lo avessi capito a vent’anni! (sarei stato più libero).

    Ma ora, a quest’età, è veramente così…, quando ci accorgiamo di essere un…’Danilo’.

    Come una presa d’atto che nella vita poi alla fine si smette di pianificare le cose (perfino quelle dell’amore e della vita), e allora le cose da quel momento in poi vanno come vanno. E per il fatto che vanno come vanno ci sembra che non vadano più come debbono andare…

    La constatazione non è nemmeno triste: è.

    Il racconto in altre parole parla delle cose che accadono.

    Che accadono e basta (del resto è avvenuto che siamo nati e avverrà che ce ne andremo).

    …Che non accadono più secondo l’interpretazione che le vorrebbe ricondurre nell’ambito di determinati paradigmi.

    I fatti, i fatti della vita, non rappresentano più un unicum riconoscibile (sono io!), ma ora rimangono scollegati e senza coerenza “…perché dovrei parlare piuttosto di sovrapposizioni e giustapposizioni, di coincidenze che non credo vadano interpretate”.

    La domanda a questo punto è: esiste un senso etico ed estetico nelle cose che vanno come vanno?

    Lo sto cercando, ma sono fiducioso.
    (poi ve lo dico se lo trovo)

  8. E soprattutto povero feto.

    Sarebbe curioso leggere magari di Danilo che scopre che anche per suo padre, in fondo, le cose andavano come andavano e magari pure per sua madre (poverella, le vogliamo concedere un po’ di “libertà” pure a lei??). E che quindi non sa di chi è figlio, ecc. ecc. e magari di chi è fratello, ecc. ecc. Tanto problemi di identità mi sembra che Dany non ce li abbia… senza offesa, sto solo andando ancora un po’ più in là nella realtà delle cose. Bella scoperta. Non so, il clima mi sembra sempre più in stile post-“personaggio-Mastroianni e simil-Moraviano”. De gustibus… e de latitudinis, perché da altre parti le spose multiple sono legali e normali.

    fem

  9. Fortissima l’entrata in scena della ragazza Daniela nel “baretto squallido”: durante un nubifragio che sembra “spazzare via in un colpo solo tutti gli uomini che si accalcano per le strade” irrompe una ragazza che attira e seduce col proprio straniamento, la debolezza, la ferita, allampanata, fradicia, spaventata, col naso che sanguina. Mi sono studiato per bene questo passaggio, anche tecnicamente, intendo.

  10. @ Francesca E. Magni

    ne sono convinto anch’io: più difficile, ma se lo cogli, più vero e più bello. Non hai parlato però del senso etico, perché?

  11. La storia è un po’ datata (scoprire le proprie donne incinte in contemporanea) così come le coincidenze dei nomi, ma lo stile mi piace moltissimo! Complimenti.

    (Solmi, dal canto suo, ha detto una cosa che mi ha fatto capire un sacco di altre cose… Grazie!)

  12. Il problema è che a Danilo sembra scivoli tutto sopra la testa: “Le cose – pensavo proprio oggi –, alla fine, vanno come vanno.”, non c’è adesione, non c’è gioia, né stupore o, chessò, sofferenza.

    probabilmente deve essere fondata (soprattutto sperimentata nel quotidiano) una nuova etica (che ingloba secondo me anche estetica) per la quale non si sistemizzi il vissuto, ma se ne tragga comunque valore.

  13. il racconto nella mia testa segue una narrazione del meccanismo del desiderio. quando abbiamo qualcosa ci spostiamo più in là cercando la stessa cosa (lo stesso nome). questo da una parte dall’altra, volevo cercare di dare al personaggio narrante un desiderio che si svela a strati. lui è sposato felicemente, lo dice ma è può essere anche vero. ma: ha qualcosa che gli manca, un’affinità di interessi diciamo. lo trova, e sembra placarsi in questa giustapposizione, famiglia-amante, adulto-ragazzo alla scoperta della vita. quando però ha tutto questo, si scopre un’altra vertigine di desiderio, quella profonda e senza aggettivi, per il male, per la perversità, per il lontano, per l’ignoto, per l’incomprensibile. e rispetto a questa dice qualcosa che non dice del resto: sono innamorato. l’ho scritta sulla scorta di riflessioni che facevo su lacan, zizek, e girard. ma poi – dopo – mi veniva in mente come potesse essere un calco del triplo legame di lolita di nabokov visto dalla parte di lei: sposata e con figlio, amica benevola di humbert humbert, innamorata perdutamente solo di quilty.

  14. “lui è sposato felicemente, lo dice ma è può essere anche vero. ma: ha qualcosa che gli manca”. Indovinate cosa?

  15. Solmi, fu la “beatitudine del perdono” che mi aprì un mondo. Come ho fatto a non capire? E’ tutta lì la cosa. E solo un maschio poteva spiegarmelo. Di nuovo, grazie.

  16. @christian raimo
    Sì, è vero, Danilo si “innamora” solo della Daniela televisiva, quella assassina e lesbica, sicuramente irraggiungibile.
    Ma poi è il finale che mi sorprende. Tutto torna a posto. Ne sono successe di cose da una Daniela all’altra e anche quella televisiva poi si perde nel gossip.
    Danilo (il nome molto simile a Daniela: forse è segno di narcisimo?) risolve tutto nella successione degli eventi e tutto si dissolve nella considerazione finale “Le cose – pensavo proprio oggi –, alla fine, vanno come vanno.”: è lì christian che ti chiederei di intervenire. Non hai finito il racconto con la Daniela televisiva, hai costruito un epilogo inquietante.
    Che fine fa il desiderio?

  17. Ottima narrazione davvero. Le cose vanno come vanno, è vero, ma chissà come.
    Un saggio diceva, osservando gli eventi: “Chissà se è bene, chissà se è male”, per indicare che un fatto si presta sempre a una duplice interpretazione.

    Cosa hai provato quando hai saputo dell’aborto?

  18. così, per dire cosa vuol dire scrivere di fiction, il protagonista non si chiama danilo, e IO non ho saputo dell’aborto.

  19. Scusa Cristian, in effetti rileggendo bene, di Danilo non se ne parla mai nel tuo racconto (lì per lì avevo letto l’intervento di francesca e pensavo fosse un nome di moda in letteratura di questi tempi, lo ha usato Ammaniti), tutta colpa di…francesca, la burlona.
    un saluto a entrambi :-)

  20. Gasp. Ammaniti, che tutte le volte devo controllare le consonanti per non sbagliare le doppie (una sola n, è vero?). Devo ancora leggerlo, quindi non ‘so de moda! Poteva anche chiamarsi Daniele, però… ma il desiderio non ha nome, soprattutto quando è fine a se stesso.

    un saluto anche a te Beppe!

    fem

  21. C’è qualcosa dentro di me, che è sbagliato e non ha limiti
    E anche tu hai qualcosa per me, è sbagliato e non ha limiti.
    Manuel Agnelli

  22. non so. di solito quello che scrive raimo mi piace moltissimo,non ne perdo uno dei suoi interventi, di fiction e non. ma questo racconto lo trovo un po’ piatto, senza trasporto. poco dentro la storia.
    forse un racconto non può essere la dimostrazione di un teorema, l’applicazione di una idea.
    ma forse pure no, forse semplicemente a me questo non è piaciuto.

  23. immagino che se è vero che le cose vanno come vanno, questo racconto lo avrai scritto come lo hai scritto.
    così.
    vado.
    ciao.

  24. A proposito della “predilezione” del protagonista per le donne di nome Daniela, credo si possa applicare il concetto freudiano di coazione a ripetere…

  25. Che fine ha fatto quel racconto intitolato Knokkelaut, comparso qualche giorno fa e poi subito sparito dal sito?

  26. @ Mauro Baldrati.

    Dici che ti sei studiato bene la scena dell’apparizione di Daniela.
    La riporto qui.

    “Era talmente fradicia, lei, questa ragazza, colante acqua, che la proprietaria del bar le offrì subito un asciugamano e quindi un phon. Ma appena lei lo attaccò alla presa, come per un incantesimo al contrario, il sovraccarico elettrico fece saltare la luce”

    e ok, fin qui va bene: c’è la luce e il protagonista – io narrante – vede. ma da ora e per un pezzo non dovrebbe vedere più. perché è calato il buio. giusto?

    “e lei cacciò un urlo, si fece prendere da un panico inatteso per il buio, cominciò a strillare e a agitarsi come in preda alle convulsioni, cercando a tentoni qualcuno che le stesse vicino”

    mi chiedo come il protagonista, al buio, abbia fatto a vedere in quel momento, se è buio, che lei “stesse cercando a tentoni qualcuno”.
    a me pare detto molto, molto male.

    “aggrappandosi con le unghie alla mia giacca”

    questo passaggio può andare. è un’azione credibile. perché lui non la vede (è sempre buio, no?) ma la “sente” perché lei si aggrappa a lui. anche se è detto “alla mia giaccia”. ma lasciamo perdere.

    “finché le iniziò a uscire il sangue dal naso”

    come fa lui a vedere che le sta uscendo sangue dal naso?

    “e mi parve sul punto di svenire”

    ????
    come fa a parergli? da cosa lo intuisce? dalla presa di lei sulla sua giacca che si fa più debole?

    “così per mezz’ora”

    così cosa?

    “Quando poi si calmò, quando la burrasca anche si placò, quando la proprietaria riuscì a ripristinare la corrente”

    questo passaggio ci conferma che tutto quanto scritto in questo brano era al buio.

    A me pare che qui la scrittura sia molto, molto approssimativa.
    non rende affatto bene la scena. non ci sono dubbi in proposito.
    perché qui si deve sempre accettare una scrittura scialba e così poco immaginativa. nel senso: non in grado di raccontare. ma solo di far vedere. e qui è ancora paradossale: il protagonista si fa portatore di un “vedere” che gli dovrebbe essere oggettivamente precluso dal buio.

  27. Ah, l’importanza dell’editor.

    Lasciatemi premettere che Raimo mi ha sempre colpito per la maturità del suo stile e la chiarezza del suo pensiero (su N.I. è l’unico di cui leggo sempre tutti i suoi scritti). Naturalmente la sua scrittura non può essere sempre perfetta, e Scerbanenko coglie nel segno con le sue osservazioni.

    Eppure ogni tanto mi capita di vedere gente che le qualità di Raimo se le sognano, lasciare commenti carichi di insofferenza, se non aperta ostilità, verso la figura dell’editor. Mah.

  28. allora, visto che non penso neanche di meritarmi tanta applicazione: rispondo che è vero forse c’è qualche imprecisione, ma non nelle mie intenzioni. nel bar nella mia immaginazione va via la luce, ma è illuminato dalle luci esterne, la tizia si fa prendere dal panico dal buio – non totale – all’interno. il tutto poi sintetizza un movimento di mezz’ora, paradossale ai miei occhi, una scena di panico di mezz’ora per cui credibile all’inizio poi comica in definitiva. il che vuol dire che questa mezz’ora comprende: “aiuto, mi esce il sangue dal naso”, come girarsi nel bar agitati, etc…
    però davvero grazie.

  29. Il racconto è carino, solo che secondo me i personaggi mancano di profondità e certe descrizioni sono approssimative. Per quanto riguarda il brano in questione (quella mezz’ora al bar) avrei preferito leggervi quello che Raimo ha scritto nel commento.

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