Cos’è una città: leggete i “Guerrieri della notte” piuttosto che Calvino

di Francesco Longo

Tutte le volte che si dibatte di città e letteratura i discorsi convergono inesorabilmente verso un libro: Le città invisibili di Italo Calvino. Non c’è saggio sugli spazi metropolitani – romanzeschi – in cui questo non sia citato. La semiotica ha appurato che le città stesse sono testi da leggere, e tutti gli studi critici su luoghi e letteratura mantengono lo sguardo fisso su Calvino.
È appena uscito in Italia un vecchio libro, I guerrieri della notte (Fanucci) che dovrebbe scalzare Calvino dal suo podio. Sol Yurick, nel 1965, scrisse questo romanzo che poi divenne il celebre cult-movie di Walter Hill. Il romanzo racconta la notte in cui tutte le bande di New York si riuniscono per prendere il controllo della città. Il leader che si rivolge alla folla – per una notte le bande sono in tregua tra loro – viene ucciso durante il suo discorso rivoluzionario. La storia segue le vicende della banda dei Dominatori, che deve attraversare la città per rientrare a Coney Island: tra attacchi dei rivali, polizia, fughe, etc.
La forza incredibile di questo libro sta proprio nell’essere riuscito in quell’impresa che tutti credono sia riuscita a Calvino ma che in realtà lì è solo una promessa non mantenuta. Città e letteratura qui hanno raggiunto la fusione. Nelle Città invisibili non c’è una trama, le pagine sono adiacenti una all’altra, le descrizioni, pur iperletterarie, risultano mirabolanti reportage ma non si trasformano mai in storia, in narrazione.
Nei Guerrieri della notte la città non è protagonista, come si usa dire quando un romanzo tematizza bene i luoghi in cui è ambientato, ma sono i protagonisti ad essere emanazioni della metropoli: “erano emersi dal crepuscolo, brutali figure grottesche, sotto le fronde degli alberi”. La metropoli si srotola (e la si descrive) fino a costringerla a mostrare la sua natura di trama, intreccio, sceneggiatura. Attraversare la città vuol dire scrivere un testo, non metaforicamente, ma come qui si dimostra, letteralmente.
I ragazzi di queste pagine sono fatti dello stesso materiale dei lampioni, il loro sguardo è quello dei fari delle automobili, il loro stile è lo stesso dei graffiti sui vagoni della metropolitana. Sentimenti e strade sono mischiati, vanno insieme, tanto da sembrare inseparabili.
Nel libro di Calvino le città sono intrise di memoria, passato e sogni, e nonostante ricorrano molto frequentemente le parola “grondaie” o “zinco” o “tubature”, si ha sempre davanti agli occhi qualcosa di impalpabile. Nel romanzo di Yurick le frasi costruiscono la trama come mattoni; in Calvino le frasi sono rarefatte e non mettono insieme molto altro se non un affresco visionario: “la città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento”. Oppure: “Filide è uno spazio in cui si tracciano percorsi tra punti sospesi nel vuoto”. E ancora: “i tuoi passi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhi ma dentro”.
La metropoli raccontata da Yurick scolpisce gli ideali e il sistema di valori dei protagonisti. Oltrepassare un quartiere, proteggere la propria strada, varcare la zona dei nemici ha a che fare col rispetto, la reputazione, le prove di virilità, il coraggio. Per il proprio territorio si combatte, si vive, si muore.
“Ormai erano nel loro territorio, tutto era tremendamente familiare e rassicurante. Lo conoscevano fino agli estremi confini; sei piccoli isolati per quattro più estesi. Per attraversarlo impiegavano ben poco. Ne conoscevano ogni mattone, ogni macchia, ogni cartello stradale, ogni scalfittura di pallottola nel cemento dei marciapiedi, ogni nascondiglio”.
Città invisibili è un ossimoro: le città sono fatte di presenze, paure e cattivi odori. Città Invisibili vuol dire Città Rimosse.
Yurick, per scrivere questo libro, si è messo in un furgone con dei buchi sui fianchi per sentire i discorsi dei bulli, e alla fine ha intuito che i quartieri non sono fantasie, ma sono grembi che partoriscono personaggi. Non è un caso che nell’ultimissima scena a Coney Island il protagonista si rannicchi in posizione fetale rivolto verso il mare: “con gli occhi fissi, il pollice in bocca”.

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Questo articolo è stato pubblicato su “il Riformista” del 17 novembre 2007

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22 Commenti

  1. D’accordissimo, CI è un libro troppo citato e apprezzato; d’accordissimo, dalle nostre parti manca la capacità di far vivere personaggi metropolitani in presa (o in prosa) diretta; d’accordissimo, IGDN marca il territorio in un modo iconicamente inarrivabile.
    Tuttavia, quando si parla di letteratura e architettura, sono felice che si ricorra ancora a Calvino. Con I guerrieri della notte in testa, chissà cosa sognebbero di realizzare gli architetti e gli urbanisti…

  2. Non mi sembra molto calzante il paragone con Calvino.
    “Le città invisibili” è un libro dove le città sono solo dei pretesti, delle proiezioni della fantasia e dei ricordi del narratore Calvino-Marco Polo. In questo periodo, Calvino abbandona gli ultimi scampoli di speranza nel mondo reale e si rinchiude in un’utopia sempre più rarefatta (c’è un saggio bello e tragico che si intitola “Mondo scritto e mondo non scritto”), nella speranza che la letteratura possa salvare qualche brandello di mondo, ordinandolo e dandogli una forma. Impresa, purtroppo, destinata al fallimento, come dimostra quella cronaca del fallimento che è Palomar. Insomma, Calvino parte dalla letteratura e torna alla letteratura, sfiorando la realtà per frammenti, lacerti di memoria, accensioni fantastiche, insomma intellettualizzandola. Crea un’opera di poesia, che ha poco o niente a che fare con la realtà.
    Il libro di cui si parla qui è l’esatto opposto (se interpreto bene l’intenzione del recensore): vuol essere il ritratto di una città reale, New York, tradotta in parole. Il libro nasce dalla realtà e aderisce alla realtà. Il punto di partenza è antitetico, il percorso pure.

  3. L’uno e l’altro, già, e moltissimi ancora. A memoria, vado a memoria: tutto H Selby jr (Ultima fermata Brooklyn, canto della neve silenziosa, requiem for a dream), l’insieme delle cose di E. Tadini, il ponte della ghislfa di Testori.

    E poi, leggetevi la riqualificazione urbana – nuove poesie: se non ce l’avete ve lo regalo io

    g

  4. Suonerò terribilmente démodé, ma per me l’ultima parola in materia di metropoli e romanzo è “L’Emploi du Temps” (1956) di Michel Butor. Però a questo punto sono incuriosito e leggerò volentieri Sol Yurick. Grazie!

  5. chissà perché francesco longo pensa che tutti pensino che le città invisibili di calvino sia IL libro sulla città.
    secondo me non lo pensa nessuno o quasi.
    c’è chi pensa che sia un libro brutto, per dire.

  6. E se Calvino e Yurick fossero entrambi nel giusto? Una città è mattoni, fognature, grondaie, asfalto, palazzi. Ma anche suggestione, riflessioni disordinate di chi ne percorre le vie, elucubrazioni suggerite dalla vista di palazzi squadrati e lunghe file di automobili. Non ci sono solo bulli e bande. Non ci sono solo intellettuali. Ci sono gli uni e gli altri, e tutti quelli che stanno attorno a loro. Tutti vivono la città: chi come habitat da difendere e preservare, chi come sfondo sbiadito e intercambiabile, chi come spazio insieme fisico e metafisico…
    Non c’è un modo giusto o sbagliato di pensare la città, né di raccontarla. E non sempre lo scopo perseguito è quello di essere “realistici”.

  7. chi è affezionato ai classici non può rinnegare il valore di una lettura come :
    Le città invisibili di Calvino.
    de gustibus…

  8. secondo me è molto bella la fisicità delle città. io sono fissata con le città. milano in bici per esempio.
    io delle città di calvino ho letto solo l’ottovolante, per amore credo, ma il resto non ci sono riuscita perché secondo me la vera leggerezza delle città parte dal loro fisico, dalla parte più grezza, la struttura, da come sono fatte e forse anche da come sono nate nel senso della geometria delle fondamenta.
    mi è molto piaciuto questo discorso della letteratura che continua la città con le parole che la trascinano pesante su un foglio.

  9. “a me interessano le città visibili.
    sono già metafora di molte cose, a saperle leggere.”

    In realtà Calvino aveva cominciato proprio così: pensa a Marcovaldo, alla Giornata di uno scrutatore, alla Speculazione edilizia.
    Poi ha gradualmente perso quella fiducia nel reale (“il midollo del leone”, come lo chiamava in un saggio giovanile) e il suo sforzo conoscitivo si è rivolto ad altro, in una progressiva astrazione, in labirinti sempre più intricati (Cosmicomiche, Ti con zero, Castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore e via dicendo). Fino ad approdare, come ho già detto, a Palomar, l’uomo-telescopio, che osserva il mondo come un astronomo farebbe con una nebulosa.
    Tanti, suggestionati dalle Lezioni Americane, continuano a vedere in Calvino un autore leggero e ironico. E in parte lo è. Ma secondo me, in profondità, è un autore tragico.

  10. Silvia (Molesini) sono d’accordo con te. Ho letto questo post con fastidio, ma è un problema mio.

    Consiglio (a chi interessa) “Italo Calvino e la scienza” uscito da poco, a proposito del suo sofferto e meditato e per nulla disimpegnato “progetto cosmico” dell’ultimo periodo della sua vita, che culmina con Palomar. Tra l’altro si criticano (a pag. 53-55) le osservazioni di Moresco e Carla Benedetti su Italo Calvino come “intellettuale terminale” “domatore di cavallucci a dondolo concettuali” che si chiude in un “labirinto tutto letterario” ecc. ecc.

    Leggo a pag. 160 “L’utopia infinitesimale delle Città, ovvero la ricerca dei suoi nascosti e discontinui spazi di libertà, è l’unica difesa concreta che Calvino riesce a immaginare di fronte allo sfacelo e al caos del mondo contemporaneo: l’unico spiraglio di ottimismo che riesce a opporre al trionfo dell’entropia.” ecc.

    Senza nulla togliere a “I guerrieri della notte” che avrebbe meritato una recensione tutta per sé senza inutili confronti (fastidiosi e inutili per me, s’intende, parlo sempre in soggettiva)

    fem

  11. cara francesca, capisco che tu possa ritenere il confronto “fastidioso e inutile”. per quel che mi riguarda, frequentando dibattiti, convegni, epigrafi di libri, tavole rotonde, laureandi, posso dirti che ogni volta che si discute di urbanistica si cita Le città invisibili di calvino. spesso sembra l’unico libro che abbia affrontato il tema della città. è chiaro che forse la mia è anche un po’ una provocazione, ma io trovo l’associazione città uguale calvino molto “fastidiosa e inutile”. così, per una volta, mi sono permesso di dire che è questa coppia che andrebbe un po’ rivista, e che ci sono molti libri “veri” su quel tema. le città di calvino sono davvero un pretesto,no? avrebbe potuto scrivere di qualsiasi altra cosa. certo qui poi entra in gioco un mio giudizio personale, il fatto che ritengo le città invisibili un libretto stanco e smorfioso. e anche un pessimo esempio, un libro che ha contribuito ad indebolire la forma romanzo in italia.grazie comunque per il tuo commento.

  12. Francesco, posso capire la tua saturazione da ambienti intellettuali, quelli che io non frequento essendo una “scientifica” che di alta cultura non capisce un’acca.

    Forse sono diventata una riduzionista di ritorno (odio i riduzionisti!) perché dopo ogni discussione critica sulla letteratura, la musica, l’arte ecc ecc, mi convinco sempre di più che alla fine si tratti di una mera questione di gusti. Scusate la banalità.

    Continuo a leggere però critiche recensioni et similia perché mi spingono a leggere quello che consigliano e che valuterò di persona, da me stessa e per me stessa.
    Il fastidio era dovuto solo al paragone con un autore che spesso è citato a sproposito e che amo molto.

    fem

  13. Credo che l’ultimo commento di Francesca colga nel segno. Calvino sta diventando davvero troppo citato, e soprattutto citato a sproposito.
    Ricordo, quando ci fu il delitto di Marta Russo alla Sapienza, che in un dibattito un professore se ne uscì con un’incongrua citazione del finale (“capire che cosa è inferno e che cosa no…” eccetera) semplicemente per dire che “la Sapienza è l’inferno”. Che c’entrava Calvino? Niente, però fa tanto figo.
    Un po’ come la stracitata “leggerezza” delle Lezioni Americane, che in realtà nasconde dietro di sé una enorme serie di problemi (secondo me, lo ribadisco, l’ultimo Calvino è un autore tragico).
    Forse sarà perché è uno dei pochi, se non l’unico, tra gli scrittori italiani del secondo Novecento, ad aver assurto la statura di classico, citato in tutte le antologie, tradotto e conosciuto all’estero eccetera. E questo può provocare anche crisi di rigetto (e lo dice uno che l’ha letto tutto, dalla prima all’ultima riga, compresi i 5-6 volumi dei Meridiani, e ci ha fatto anche su la tesi di laurea).
    Non concordo con l’autore del pezzo per quanto riguarda il giudizio sulle Città invisibili, però anche a me pare che citarlo sull’urbanistica significa aver capito poco o niente del libro. Che parla di città come luoghi mentali, astrazioni, simboli, ma sicuramente non di città reali.

  14. e malignamente mi chiedevo se tali urbanisti che tanto citano abbiano poi letto qualcosa di Italo Calvino (oltre al titolo del libro…)

    fem

    se penso allo sfascio di grattacieli che si abbatterà su Milano, la parola urbanista mi riporta a quell’Urbano VIII papa che di danni ne fece, oh se ne fece…

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