Tutto puramente immaginario!

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di Walter Kempowski

traduzione di Diana Politano e Francesco Vitellini

Al mattino eravamo ancora seduti su casse da imballaggio grigie nella vecchia casa, a bere caffè (è nostro quello che c’è dentro?). Aloni chiari sulla carta da parati scurita. E la grande stufa, che esplosione quella volta.
A mezzogiorno si sarebbe già dovuto pranzare nella casa nuova.

La palma da vaso fu regalata al giardiniere, non era più possibile tenerla. Meraviglioso come si era sviluppata in tutti quegli anni. Il nerbo ce lo portammo dietro, ogni tanto «ahi ahi!» c’era da prenderle. Sarebbe stato bello nella casa nuova, incantevole. Avremmo visto: stupendo. Un panorama dal balcone – delizioso. E nessuna stufa da scaldare, anche questo meritava conto.

Già da lontano, mentre tornavo da scuola, vidi il carro dei traslochi, imbottito, i cavalli con le coperte rosso ruggine sulla groppa e placche d’ottone alle briglie.
Noi, s’intende, stavamo vicino a Bohrmann. Il pianoforte a coda era ancora dentro, quindi non avevo perso nulla. I facchini con le cinture intorno ai fianchi, dei ganci attaccati sotto.
Svitarono i piedi; l’issarono in una slitta su per le scale. Sette quintali di peso. Gli uscivano fuori le vene.
«Ragazzi», fece mia madre, «ma è mai possibile…». Proprio non si rimediavano un paio di uomini forti nel vicinato? Un signore grasso sgusciò tra i facchini, guardò trasognato verso l’alto delle scale. Lassù entrava luce da una finestra a vetri cattedrale. L’uomo si chiamava Quade, lui aveva costruito l’edificio.

Era una casa spaziosa, anche se: 2° piano, come aveva notato zia Silbi fin dall’inizio. Il guardaroba tutto rosso. Sopra la cassapanca in quercia già i bersagli e la sciabola di mio padre. («Poi quella verrà affilata, giovanotto»).

A destra la libreria con le relazioni telegrafi che dei Wolff e – «Pesci velenosi e veleni di pesce» – innumerevoli volumetti Kosmos.

Mio fratello si stiracchiò davanti allo specchio.
L’appartamento era da Bonomicoli. Non pensavo anch’io?
«Sì».
«E quindi sii felice».

Per tutte le stanze erano state comprate lampade nuove.
In soggiorno artigli d’aquila reggevano le plafoniere. Nelle camere da letto la luce fluiva attraverso l’alabastro.
Allo smisurato paralume di carta nella sala da pranzo c’era appesa una campanella, con cui poi avremmo chiamato la domestica.
Per la cucina non erano state comprate lampade, ce n’era già una.

Kröhl, un impiegato della Finanza in pensione, montò le lampade. Suonava la viola nel quartetto (violinisti ce n’erano a iosa), si rendeva utile volentieri.
«Potresti accendere per favore? L’interruttore di sotto. Grazie». Quando ancora era in servizio, una volta aveva detto a mio padre: «Qua è di nuovo tutto sbagliato». «Perché “qua”?», aveva ribattuto mio padre. «E perché: “di nuovo” e “tutto”?».

Questo le garbava, disse mia, che la cucina non era piastrellata. Le piastrelle dabbasso erano così fredde.

Nei lavandini l’acqua sgorgava da un buco come una sorgente. La chiusura si doveva azionare mediante un pulsante. «Fantastico».

Le finestre dell’appartamento, purtroppo, si aprivano tutte verso l’interno.
«Ce la caveremo», disse mia madre. Ma i vasi dei fiori doveva spostarli ogni volta.
Giusto dirimpetto il macellaio, nella vetrina un’aquila fatta di sego e rose di pancetta. A fianco, il droghiere. Tutto nelle vicinanze, ottimo.
Dietro l’angolo «Mode Viennesi».

All’incrocio stavano sistemando un nuovo segnale stradale, c’era scritto «STOP».

Un balcone spazioso con un tetto di vetro e sporgenze nel muro per sistemarci sassifraghe e cactus a barba d’ebreo.
Ancora gli alberi erano spogli, ma la vista sarebbe stata bella, oltre i giardini in fiore fino alla torre verde di St. Jakobi.
«Ragazzi, che bello», disse mia madre, «eh, che bello», e rinsaldava i gerani.

Sulla sinistra, vicino a una casa a più piani dipinta di giallo, alla cui facciata posteriore, frastagliata, era appesa una quantità di balconi di ferro con cassette di margarina piene d’erba cipollina, si poteva addirittura indovinare il piccolo campanile della chiesa cattolica, con quel suo forte scampanio.

Mio padre tornò dal lavoro per sera. Indossava calzoni alla zuava sale e pepe.
Cantando, attaccò il cappello da pesca a uno dei ganci rossi del guardaroba.
Come ogni estinto
riposa quieto…
Questa era la canzone della loggia, come la chiamava mia madre.
«La compenserò in miglior vita», disse a Kröhl e gli diede la mano, «per il momento mille grazie». Osservò i lampadari: «Qua è di nuovo tutto sbagliato…».
Poi si sedette al pianoforte a coda, si appoggiò all’indietro e suonò:
al gran Pascià inni cantate…
Plink-plink! – sì, andava.
Sopra lo strumento era appeso il quadro del porto dalla grossa cornice dorata, un regalo di nozze del console Discher.
Si diceva non fosse stato a buon mercato.

Mia sorella Ulla («Che belle trecce che hai, bambina mia»), sette anni più grande di me, ebbe la mansarda.
«Badate!», gridava, e portava su dei vasi.
Indossava un abito di lana color ruggine, con ghirlande di fiori ricamate per traverso.

Io dividevo la camera con mio fratello Robert. Sei anni più grande di me. I capelli biondi molto ondulati, come le onde del Mar di Galilea, nella Bibbia illustrata, sulle quali cammina Gesù. Sosteneva che da me emanava «una puzza pestilenziale».

Tirava su col naso continuamente, come se di tanto in tanto ricaricasse gli ingranaggi. Allora mia madre diceva: «Salute! Vuoi un tocco di pane?». Gli piacevaindossare cravatte. Le annodava con pazienza. Dopodiché si stiracchiava ancora un poco, quasi volesse dire: «Sono proprio un bel tomo».
«Allora, volpone?», faceva, quando ci incontravamo nel corridoio.

Mia madre discendeva, come lei asseriva, da un’antica famiglia ugonotta, i de Bonsac. Nobilitati nel XVI secolo. L’antenato, da coppiere, avrebbe saputo distinguere subito il vino buono da quello cattivo. Era pervenuto alla famiglia anche uno stemma, che adesso stava appeso a Wandsbek, dove era inciso
Bonum bono, al buono il bene
E sullo stemma, coppa e uva.

Dandomi la buonanotte mi metteva la mano sulla fronte. («Non sembra una contessa?»).
Poi pronunciava lunghe preghiere, durante le quali i suoi occhi a poco a poco si riempivano di lacrime.
«Oh, buon Dio, guarda quanto siamo inermi davanti a te, sii misericordioso, aiutaci in tutte le necessità del corpo e della vita, che tutto il bene in noi venga fuori, e fa’ di noi i tuoi figli. Aiuta tutti gli uomini con la tua bontà onnipotente, che tutto dis-, dis-, dis- dispone e ordina…», e così via.
Durava spesso parecchio, ed io, allungandomi e stirandomi, cercavo di far capire che poteva bastare.
Allora cantava
Sono stanca, vo a posar…
Tutt’e quattro le strofe. Aveva una bella voce.
Alla fine si chinava verso di me, e io avevo il permesso di baciarla. «Ma non sulla bocca».

Quando mio padre aveva finito di scorrere la «Abendpost» – «Tadellöser & Wolff!» – di solito suonava il pianoforte ancora a lungo. Con la porta aperta potevo sentirlo bene.
Il «Mormorio di primavera» di Sinding o le Danze della lega di Davide. «Con brio un po’ spudorato».

Nella porta della nostra camera erano inserite lastre di vetro rigate. Imboccato il corridoio di fronte vedevano subito se, nonostante il divieto, stessi ancora leggendo. («Kai fuori dal letto»). Tenevo il dito, con l’attenzione al massimo, sempre sull’interruttore. Mia madre non è mai riuscita a scoprirmi. «Sul tuo onore?».
Però mio fratello Robert, che talora partecipava all’avvicinamento di soppiatto, era più furbo, lui toccava la lampadina. «Di’ un po’, non ti vergogni?».
Lui stesso leggeva fino all’alba. Lok Myler: «L’uomo che cadde dal cielo».

Al mattino si tirava su con difficoltà. («Levataque!»).
E già che era di guardia alla finestra! Per mio padre, uno superstizioso, doveva fare da vedetta in cerca di ragazze giovani.
«Dai papà, muoviti!».
Quindi arrivava di corsa, incurvito, come se non si potesse raddrizzare, rasato a metà, trascinando le pantofole e con le braghe penzoloni.
«Buono all’uovo», adesso nessuna vecchiaccia poteva più rovinargli la giornata.

La colazione era sempre molto armoniosa.
«Che dice la mia pelle?», domandava mio padre e allungava il collo. Ad Ypres s’era beccato il gas.
«Meraviglioso», bisognava dire, «niente gonfiori o abrasioni», altrimenti tutta la giornata sarebbe andata in malora.

All’ultimo arrivato si gridava: «Ah, s’alza il sole!». Poi doveva cercare a lungo i suoi panini – «fuoco! acqua!» – nascosti da qualche parte (il più delle volte sul grembo di mia madre).
«Chi non viene all’ora giusta
il suo pasto non si gusta».

Di fianco al piatto di mio padre c’era il foglio del calendario. «Calendario storico-geografico di Meyer», con i giorni commemorativi nazionali.
1916 – Presa di Fort Douaumont.
Per me, seduto alla fine del tavolo, aveva in serbo innocui scherzi.
Che cosa significasse «Muccorretrovacche», «Sputa all’istante!».
«La mucca corre dietro alle vacche», dovevo poi rispondere.
Dunque seguiva il «buono all’uovo».

Mio padre comprò per sé una bici nuova. Quella vecchia, coi pedalini per chi sedeva dietro, era arrugginita. Inoltre un impermeabile con le falde che si potevano abbottonare fino a sopra. «Così sembro proprio un francesino», diceva.

Mia madre fece rifoderare tutte le poltrone, i vecchi rivestimenti di velluto non li poteva più vedere.
Per il balcone – «no, che vista!» – comprò sedie di canna.
Da Tillich, le «Mode Viennesi», si fece confezionare un vestito, uno azzurro chiaro. La parte superiore era tagliata come una pellegrina, con tre bottoni sul petto.
Di lì si diramavano pieghe piatte in tutte le direzioni.

Io ebbi un cosiddetto abito amburghese, col sopra che si abbottonava ai pantaloni.

I miei due fratelli ricevettero il permesso di entrare allo yacht club, ma i vestiti bianchi non furono accordati.
Al circolo di canottaggio non c’erano voluti andare. Non erano mica schiavi di galea.
Se Ulla avesse avuto una fisarmonica, sosteneva Robert, ci avrebbe sicuramente torturato con le canzonette. Sull’armonica a bocca suonava
Della Saal sui chiari liti
son castelli alteri e arditi.

Lei istigava mio fratello alle malefatte. Quando la cosa veniva alla luce c’erano arresti in camera.
Non era un vero ragazzo, sosteneva lei. I veri ragazzi tornavano a casa con ginocchia sbucciate e buchi nei pantaloni. Quelli scavalcavano tutti i recinti.
«Mi riveleresti, per favore, quale recinto dovrei scavalcare?», domandava Robert.

Dacché andavano a vela, mio padre era spesso costretto a rimanere sulla scala con l’orologio in mano.
«Da dove state tornando?».
Da adesso in poi si cambiava musica.

In più Ulla ottenne un abbonamento per l’equitazione. Nel maneggio poteva trottare intorno all’arena a 5 marchi l’ora. In tuta, per sua disperazione. Però, si lagnava, Kati Rupp aveva una tenuta da cavallerizza. «E allora ti devi trovare un altro padre, che io le palanche non le trovo mica sugli alberi».
La osservavamo dall’ombra della tribuna. Quando il cavallo scorreggiava, mio padre rideva.
In uno spettacolo era inginocchiata sopra la sella. Dopo disse che in quel giro s’era presa una fifa blu, aveva avuto le vertigini.
Una volta le era arrivata una staffa contro la fronte.
«Quanta segatura c’è là dentro?», chiese Robert quando comparve col bernoccolo.

Ulla scattava foto ai cavalli con la sua Agfa-Box.
Finivano nell’album.
Sotto si scriveva «il buon compagno».

Tutta la famiglia venne fotografata.
Mamma nel completo con la pellegrina, Robert mentre va a vela ed io nell’abito amburghese.
Papà addirittura come milite delle SA ai piedi di una betulla.

tratto da Walter Kempowski, Tadellöser & Wollf. Un romanzo borghese, S. Angelo in Formis (CE), Lavieri Editore, 2007, € 14,40.

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2 Commenti

  1. Mi sembra entrare in un tempo altro, un tempo antiquo, scomparso. Si sente nella lentezza delle cose, la musica che tesse il ricordo affrontando l’ora esplosa, il nucleo della famiglia.
    Walter Kempowsky è un autore che non conoscevo.
    E’ bello scoprire altro orrizonte.

  2. Caspita! Anche per me Kempowski è stata una (felicissima!) scoperta che devo a questo libro ed al lavoro (benemerito!) dei traduttori e del curatore. Segnalo velocemente i due/tre aspetti che mi affascinano di più.
    Per prima cosa, la narrazione ridotta ai termini modulari di appunti, microscene, scorci, che introduce una specie di ritmo di fruizione uniforme e/ma inarrestabile. E questo basandosi, per così dire, su un’idea di passato come momenti contemporaneamente legati e slegati, in una catena ricostruita a posteriori ma che tessono cmq, gli uni con gli altri, dei temi e delle figure.
    La seconda cosa è strettamente collegata alla prima e, cioè, la figura generale dell’elenco usata come struttura portante di tutto il testo. L’elenco e allo stesso modo l’accumulo, di frasi, periodi, scene. Tra l’altro, sull’accumulo, può essere interessante notare come l’inizio si collochi su queste casse piene, si suppone di oggetti, e ricordi anche, e subito si passi ad un elenco di acquisti (d’altra parte è un romanzo borghese!).
    La terza cosa, infine, è la capacità di K. di mantenere le sue sequenze in costante equilibrio tra il tessuto generale della narrazione, ovvero la storia che cmq questo romanzo, appunto, racconta, e la loro autonomia semantica, sintattica, affettiva. Ogni singolo passaggio, visto da solo, mantiene un suo fascino specifico, lasciando al di là dell’attenzione la vicenda in cui si inscrive, dando luogo ad una specie di continuo effetto ottico, in cui o lo sguardo si sprofonda nel singolo punto individuato, oppure si allontana nella ricostruzione dell’ordine del testo.
    Ecco, probabilmente uno dei termini chiave per questo testo è proprio ‘ordine’. Il fascino di T. & W. è proprio nella proposta di un ordine tra elementi irrelati nella loro radice ma legati, dato l’ordine per opera dell’autore, gli uni agli altri.

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