Usus scribendi – Come si nuota

[Quattro nuovi autori che ci spiegano dal di dentro cosa stanno facendo, quale letteratura tentano di produrre. Un pezzo ciascuno. Niente domande, niente sollecitazioni esterne. Il primo contributo è qui. G.B.]

varvello.jpg di Elena Varvello

Perdonatemi se parto da lontano, e se quello che dirò sfiorerà soltanto il cuore del problema – la scrittura, il suo significato, la visione che ne ho. È solo che, col tempo, mi sembra sempre più difficile ragionare intorno a quel che faccio, o che tento di fare, tutti i giorni. Flannery O’Connor diceva che una cosa è scrivere, un’altra è parlarne, e che tanto varrebbe chiedere a un pesce di tenere una conferenza su come si nuota: beh, credo che avesse ragione lei. Per quanto riguarda la scrittura, diceva, “niente produce silenzio quanto l’esperienza”. Per cui, parto da lontano, e cioè dal posto in cui sto scrivendo adesso – la mia casa, la stessa di sempre, e quel che vedo fuori dalla finestra: le case dei vicini, un pino, una magnolia, un uomo che sta tagliando l’erba e che ogni tanto si ferma e dà un’occhiata in giro. Una donna che sta stendendo i panni.
Ciò che intendo dire è che la mia vita ha preso un andamento circolare, anche se sarebbe più giusto dicessi che ha sempre avuto un andamento circolare. Se devo proprio pensarci, la vedo come un boomerang, che, una volta lanciato, non può che ritornare, qualcosa che si muove in avanti, ma che, fin da subito, anche se non sembra, ha già iniziato a ritornare al punto di partenza. Voglio dire: vivo nel paese in cui vivevo da bambina; il maggiore dei miei figli frequenta la scuola elementare che frequentavo io alla sua età, e così farà il secondo. Ho viaggiato pochissimo, con grande fatica. Sono una persona la cui vita si sviluppa non facendo che tornare indietro, verso il proprio compimento, e persino questo movimento, questo ritorno, non mi richiede spostamenti, avviene nel posto in cui mi trovo già. Per dirla in altro modo, è questo il mio senso del destino, questo viaggio da fermi.
Non è che non abbia avuto possibilità d’andarmene, di vedere il mondo. Mi sono passate accanto, a un certo punto, e io, semplicemente, le ho lasciate andare via. Non ho rimpianti, in questo senso. Ho avuto molto di più di quello che speravo: le cose buone accadono lo stesso, anche a chi rimane. Per cui, se adesso guardo fuori dalla finestra – e credetemi, lo sto facendo – vedo gli stessi alberi di sempre. È questo il punto da cui voglio partire. Persino il cielo, mi sembra sempre sia lo stesso, la porzione di cielo inquadrata dalla mia solita finestra. Mi pare che sia giusto stare qui, che siano giuste persino la finestra e la tendina a righe gialle. Qui c’è l’equilibrio che mi serve fra un senso buono di speranza e un senso oscuro e malinconico di tristezza.
Parlo del posto in cui scrivo abitualmente, perché è come se parlassi già della scrittura. Il posto e la scrittura coincidono, per quanto mi riguarda, e ho capito molto presto che il luogo in cui stavo – e in cui sarei rimasta – sarebbe stato il mondo che avrei provato a raccontare.
Credo che tutto nasca dalle storie che sentiamo, un giorno dopo l’altro, e dal fatto che queste storie, in qualche modo, rimangano un mistero. C’è qualcosa, in quelle storie, che non capiamo mai del tutto. Com’è che è andata, già?, chiediamo, dimmelo di nuovo. Mio padre mi ha raccontato le sue storie, mia madre ha fatto lo stesso. Mio marito, i miei suoceri, gli amici: tutti l’hanno fatto. Ce n’è una, per esempio, la storia di come la mia bisnonna uccidesse le galline tagliando loro la lingua e raccogliendo il sangue in una ciotola, e di come mio padre bambino non ci sia mai riuscito; ne parla ancora come di un fatto importante, memorabile. C’è la storia di mio nonno, vedovo, sposato in seconde nozze con una donna di mezza età che aveva messo un annuncio sul giornale – nei primi anni ’60! – e che lo rimise a nuovo, al punto che mio nonno si comprò una giacca bellissima di renna e visse molto di più di quanto avrebbe fatto se fosse rimasto solo. Il padre di mia madre, invece – partigiano, monarchico – morì in un campo di concentramento. Aveva appena trentatré anni. Non vide mai sua figlia crescere. L’unica cosa che lei conservi di lui, oltre a un mucchietto di fotografie in cui è giovane e bellissimo, è una lampada che stava nella sua stanza di ragazzo; se alzo la testa, come avrà di certo fatto lui, la vedo. Invece mia nonna, sua moglie, ha passato gli ultimi anni della sua lunga vita senza sapere dove si trovasse, senza riconoscere nessuno, neppure mia madre, che aveva cresciuto da sola, con fatica.
Ci sono le storie che ti racconta la gente, quelle che ti accadono e che vedi accadere intorno a te. Figli, matrimoni, separazioni, lavori che non si amano, persone che cercano soltanto di tirare avanti. Uno si ammala, un altro guarisce. C’è sempre qualcosa che succede, anche in vite che, viste da lontano, sembrano non avere poi un gran significato. Sono queste le voci che sento quando scrivo. Per me, queste storie, il loro significato misterioso, sono il compito della scrittura, il punto di partenza, il punto d’arrivo. Il mio timone, la mia bussola. È una specie di bacino inesauribile, un lago sulle cui sponde sto da sempre, formatosi in ere geologiche lontane, antichissimo. Ci sono paure, ambizioni frustrate, speranze irrealizzabili, lì intorno. Nascite e morti. E molte persone che, come me, guardano in silenzio l’acqua, e che aspettano qualcosa che probabilmente non arriverà. Di queste persone vorrei parlare. Qualcuno la chiama “poetica del quotidiano”: non so, può essere così.
Quel che per me è sicuro è che la scrittura è solo in parte un esercizio solitario – certo, quando si scrive si ha bisogno di solitudine e silenzio. In realtà, non c’è nient’altro al mondo che significhi così tanto stare in mezzo agli altri quanto la scrittura.
Non vi sto parlando di tributi, di omaggi e neppure di testimonianze: l’esperienza, la vita, valgono in quanto tali. Le cose contano innanzi tutto perché sono successe a qualcuno, uomini e donne in carne e ossa. Parlo solo delle storie che voglio raccontare, delle voci che sento quando scrivo.
Parlo di qualcosa che chiamo verità, e che non c’entra con la logica e neppure con la Storia. La verità sta nel dire l’essenziale, e l’essenziale, ciò che conta, è il mistero del nostro essere qui. Potrebbe sembrare un paradosso, ma meno lo scrittore riesce a decriptarlo, a svelarlo completamente, più continua a scrivere. La verità dei racconti – quest’accezione di verità – accade nel linguaggio, nella traduzione in parole, ed è un limite che si sposta di continuo. Com’è che è andata?, continuiamo a chiederci, cosa significa? Non c’è bisogno di pareggiare i conti, quando scriviamo, né di dare risposte. Ci sono solo persone a cui capitano fatti non del tutto comprensibili. Esperienze. C’è l’apprendimento della vita, e questa è un’arte che ciascuno di noi deve imparare ogni volta dal principio.
Come tutto questo prenda forma nelle pagine che scrivo, come si mescoli ad altro, come si trasformi diventando finzione, non lo so, davvero, o meglio, lo so soltanto nel momento in cui lo faccio o provo a farlo. Ognuno di noi ha il compito di trovare il modo giusto per dare notizie della sua gente, tutto qui, così che queste notizie trovino respiro. Per me, è una questione di lavoro, di fatica. Niente mi arriva facilmente.
Nei miei racconti, c’è sempre qualcosa di inquietante, un pericolo, una paura più o meno sottile. Questo non ha nulla a che vedere col tentativo di truccare le carte in modo che un ipotetico lettore resti incollato alla pagina: è solo che il mio sguardo funziona in questo modo; io vado verso i punti di domanda, le zone di penombra, le cose inaspettate, perché sono queste cose a tormentarci, questi i momenti in cui impariamo a vivere, o almeno a sopravvivere. Le domande senza una risposta.
Insomma, non bisognerebbe mai abbandonare il proprio posto nel mondo, qualunque esso sia, e le persone che ci stanno intorno, le loro storie. È il punto della terra in cui siamo capitati, in cui, come è successo a me – in questa casa, in questa stanza – abbiamo deciso di restare. Possiamo solo imparare a raccontare bene le storie che vogliamo raccontare, non capendole del tutto. E si deve lavorare sulla lingua: è una parte fondamentale del lavoro. La scrittura chiede un prezzo: chiede che chi scrive rinunci a fare sconti per se stesso.
La cosa più importante è pensare d’aver fatto quel che si poteva, e sapere che, comunque, per fortuna, non è ancora e mai abbastanza. E poi c’è il cuore del problema, e questo sfugge sempre.
Il fatto è che, in fondo, ciascuno di noi sta cercando di nuotare a modo suo.

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18 Commenti

  1. Gran bel post.
    Soltanto i grandi autori hanno il pregio di rendere veramente partecipi i lettori delle storie che raccontano. Credo che tu ci riesca benissimo.

  2. Ho molto apprezzato l’articolo perché si tratta di scrittura da un posto, un posto fisso a tradurre. Una musica del quotidiano. Penso che ci sono due manere di vivere la scrittura del luogo: il luogo reale e il luogo sezionato. Penso al mare che si porta in noi, il rifletto del paese abandonnato. Si puo evocare il luogo perché è assente: è l’orrizonte della mancanza o meglio il fruscio dietro le spalle, il paese che murmura.

  3. cara Elena,
    ho letto il tuo pezzo, mi è piaciuto, e ho provato una sensazione che credo possa essere chiamata “sollievo”.
    Vivo nello stesso paese dove sono nata, i miei figli vanno nella mia stessa scuola elemantare, credo prenderanno, un giorno, gli stessi treni che ho preso io. Mi sono spostata molte volte da qui, ma sono sempre tornata. E’ successo, e basta. Se guardo il viale in cui abito da anni, ne riconosco i colori in ogni ora del giorno, in ogni stagione.
    Il fatto è che non ho bisogno di andare altrove per sentirmi libera. Lo sono, non mi serve adare “altrove” nè per cercare cosa raccontare nè per trovare la forza di farlo.
    Questa cosa sa di onesta calma, e mi pare preziosa.

  4. Gran bel pezzo, ho capito molte cose. (E ho ricordato una cena di qualche anno fa, davanti a quella finestra e le tendine a righe gialle).

    Un caro saluto,

    Raffaello

  5. cara elena
    penso che ci dovremmo scambiare un pò di pensieri.
    io di mestiere faccio il paesologo….
    e ovviamente lo faccio vivendo da sempre in un paese, ovviamente.
    in ogni caso l’ho già inserita nella mia piccola biblioteca paesologica…
    farminio@libero.it

  6. il giorno in cui ho letto l’economia delle cose il tempo s’è avvitato, un minuto indistinguibile da un’altro e le ore acquattate in fondo al salone buio. ho pensato che c’era una penna dietro le storie e che quella penna e non un’altra stesse confitta sul nastro del tempo a lasciarlo ristagnare.
    leggere l’economia delle cose è stato sommamente estraniante.
    non tutte le penne che raccontano di anziani bambini pistole e amanti più giovani suscitano estraniamento. qualcuna solo condivisione. che è già abbastanza. condividere il tema, gli argomenti e le situazioni e estraniare con una lingua livida indistinguibile e monotona è faccenda da prestigiatori. da prestigiatori con la penna.
    per questo leggere la varvello adesso come allora è un memento. attenzione lettore. attenzione. non stai leggendo le storie. non stai guardando oltre la finestra col pioppo e l’uomo che falcia l’erba. e non sono nemmeno gli infissi di sempre e il paese è altrove. e la penna, lo scrittore-prestige è dietro, anni prima, giorni addietro, minuti trascorsi a raccontare un ritmo.
    una ipnosi. una ipnosi. una ipnosi.

  7. Beh, ci sei tutta tu qui dentro, il tuo mondo, le tue parole e quello straordinario modo che hanno le due cose di incontrarsi.
    Perché la magia del tuo raccontare sta proprio nel modo in cui trasformi uno sguardo in visione. Un paesaggio in un dettaglio che spalanca.
    Ho proprio riletto i racconti in questi giorni e ho sentito fortissima, e addosso, la sensazione di una casa, una casa che poi conosco, ma che comunque avrei immaginato non troppo dissimile dalla realtà. Seppur tu non l’abbia mai raccontata nelle sue forme, nei suoi colori e negli spazi. Come è possibile ciò?
    Secondo me perché dalla tua scrittura filtra qualcosa che ha profondamente a che fare con quel luogo, quella finestra, quel paesaggio. Non lo racconti direttamente, sarebbe noiosissimo, ma lui c’è, in filigrana e rimane, si conserva. I tuoi racconti sono una casa. Una casa vera.

    ciao

    st. montagne

  8. Volevo farti i complimenti per il libro. Ho riletto alcuni passi, e mi è piaciuto pensare a quella casa, a quella finestra da cui entra sempre la stessa luce ad illuminare l’inquietudine che narri così bene…
    In bocca al lupo di cuore.

  9. … quanto è vero ciò che scrivi a proposito di ciò che accade alle persone, ad ogni singola persona; diversa, unica, irripetibile realtà e come è bello scoprirne le sfumature, il suo sentire. Che emozione stare ad ascoltare, ma davvero, ciò che l’ altro ha di sè da raccontarti se percepisce che … davvero tu lo ascolti. E probabilmente è vero e dovremmo tenerlo sempre ben presente che “… è l’essenziale, ciò che conta…”

  10. Cara Elena,
    ecco che gli anni lunghi e segreti dello studio e dell’apprendimento rompono le acque e scelgono la loro forma e la loro strada.
    Vorrei dire a tutti gli amanti della lettura che qui c’è l’ingresso all’Opera di un’autrice importante per la letteratura italiana.
    Un abbraccio, L

    ps
    Quando dietro quella tendina cadrà la prima neve, invitami per un the!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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