Gli sciamani elettrici nel giardino della mente

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di Gianluca Veltri

Nel 1965 il rock era rock e il folk era folk.
Il folk americano tradizionale era stato riletto e stravolto da Bob Dylan, che aveva trasformato in manifesto collettivo quanto era sempre stato un fatto di outsider irrimediabilmente individualisti.
Dall’altra parte c’era il rock inglese; qualcosa di così travolgente e spiazzante per l’America che per definire quell’ondata di energia selvaggia si usò una definizione che noi adoperiamo per i Visigoti e i Vandali: invasion.
Poi sono arrivati i Byrds.
Aumentò di un bel po’ il lavoro di chi deve coniare le etichette. La prima fu folk-rock, una formula che metteva insieme la precisione formale e la solarità dei Beatles con il carisma controculturale di Dylan. Era fondamentale, allora come sempre, risultare come “la risposta a qualcuno”, indovinare un referente nel mercato musicale. Terry Melcher, il loro primo manager, annusò la pista giusta. Dylan beatlesizzato o Beatles dylanizzati, i Byrds trovarono subito il loro marchio, risultando – banalmente – i paladini americani contro l’invasione britannica.
In realtà furono molto di più.
Attaccando la spina ai loro strumenti, aprirono una porta fino ad allora chiusa. Il loro stesso mentore, Dylan, rimase di stucco ascoltando che effetto facesse la sua “Mr. Tambourine Man” suonata a quel modo, con le chitarre scampanellanti come diamanti in cascata e le voci che si rincorrevano armoniosamente. Al festival di Newport, Dylan propose davanti ad una folla attonita e poi inferocita quella miscela oltremodo contraddittoria, praticamente un ossimoro: il folk elettrico. I Beatles, dal canto loro, sfornarono un disco come “Rubber Soul”.
Quello era un sound insincero per antonomasia, nemico di qualsiasi purismo. Era un’aurorale operazione di contaminazione, diremmo oggi. Non c’è dubbio che McGuinn (che più tardi, abbracciando la religione sabud, cambierà il suo nome da Jim in Roger) aspirasse a diventare una rock’n’roll star. Forse ciascun “byrd” nutriva un suo personalissimo sogno. Tante anime (spesso in collisione) nello stesso progetto, crocevia di personalità, i Byrds non solo fanno incontrare il rock con il folk (e con la musica indiana, la fantascienza, il jazz, la psichedelia, il country…) ma anche il suono con il significato: nelle loro canzoni c’è anche l’orrore per la guerra del Vietnam e il ricordo del sogno kennedyano spezzato.
Documento sonoro perfetto della loro epoca, seppero esprimere la tremolante lucentezza di quell’età di mezzo, non a caso testimoniata con immediatezza, nel film “Forrest Gump”, dalla loro “Turn! Turn! Turn!”. Non è necessariamente vero (non è neanche importante) che i Byrds siano stati i primi ad avere delle – quelle – intuizioni; è anche importante come le abbiano messe in atto: la stessa, mitologica dodici corde di McGuinn l’avevamo già sentita nel suono dei Searchers, ma che importa? Quella è la Rickenbaker, con il suo scroscio splendente di note, dei Byrds, che riapparirà migliaia di volte, da Johnny Marr a James Honeyman-Scott a Tom Petty a tanti altri.
Attingendo cospicuamente alla tradizione (canti evangelici, ballate dei pionieri) e saccheggiando il repertorio dylaniano, i Byrds – specie quelli della prima ora – si assicurano un fortissimo gancio con i gusti di tutto il pubblico. Al resto pensa Gene Clark, una sorta di cowboy gentiluomo del Missouri, che compose i migliori pezzi originali dei primi album. La sua vena da songwriter di pop malinconico e galante avvicina certi Byrds della primissima fase alla tempra di un Fred Neil o di un Tim Hardin. Più in là, i Byrds saranno capaci addirittura di effettuare una crasi artistica tra il Brill Building e il festival di Monterey (un altro ossimoro), interpretando due pezzi della premiata ditta Goffin/King. Fino a pochissimo tempo prima sarebbe sembrato impensabile; e infatti David Crosby, il più catapultato verso la deriva lisergica, aborrì questa commistione e se ne andò.
Il momento che vide sbocciare i Byrds fu un’epoca cruciale per il rock: si cominciava a pensare che la musica dovesse contenere un messaggio, farsi amplificazione esemplare di processi sociali, riuscire a calamitare energie aggregative. Il nuovo mondo californiano (quello che sfocerà nei festival e nella summer of love) è figlio di questo snodo in cui videro la luce i Byrds e subito dopo i Buffalo Springfield, i Love, i Jefferson Airplane.
Ma loro non furono mai i portavoce ufficiali di niente; loro aprivano porte di nuovi mondi e poi fuggivano via, e quando tutti gli altri arrivavano in quei mondi loro erano già in un altro “mind garden”, alle prese con altre porte da aprire. Così quando i Mamas & Papas, i Turtles e tutti gli altri scoprirono quella miscela seducente del folk+rock, i Byrds volavano miglia in alto, otto per l’esattezza. La terra non bastava più; fascinazioni spaziali, stellari avvolgevano ora i Nostri, alle prese con applicazioni pionieristiche delle nuove tecnologie che si andavano sperimentando: phasing, nastri suonati al contrario, tuoni di jet. Si ricorse a vari neologismi: space-rock, raga-rock, musica fantascientifica, psycho-rock, acid-rock. Alcune composizioni (specie quelle in cui c’è lo zampino di Crosby, ch’era il più avanti) sembrano rifarsi a concezioni modali della musica orientale, senza limitarsi soltanto all’ingenuo utilizzo del sitar. Primi, e, si suppone, ultimi, a dedicare una canzone ad un quasar (“CTA 102”), i Byrds, con il misticismo spaziale e psichedelico di “Space Odyssey” avrebbero ispirato – pare – addirittura Stanley Kubrick per “2001 Odissea nello spazio”.
Può essere interessante constatare quanto fosse cambiato, a pochi anni di distanza, l’approccio “galattico” rispetto ai Ventures, un altro gruppo “lost in space”: per i Ventures – straordinari pionieri del “suono come immagine” – lo spazio era una faccenda di propaganda, un mito del progresso americano da sbattere in faccia ai nemici “rossi”; per i Byrds lo spazio è un’avventura mistica, una possibilità che dilata la mente, un ingrediente psichedelico e spirituale. Un po’ più in là troveremo un solitario navigatore interstellare – Tim Buckley – che porterà questa concezione a conseguenze molto più estreme. Per certi aspetti è un discendente immediato della genealogia byrdiana.
Nel triennio 1965/1968 la vicenda-Byrds è molto esemplificativa di alcuni processi dell’epoca: nati già col marchio del progressivo, sebbene di un progressivo coi piedi piantati nella tradizione, i Byrds sono il nocciolo di un’epoca che imparava a mischiare gli stili, a giocare con le influenze. Ma ben presto chiedono al loro pubblico di più, le loro canzoni si fanno sempre più fitte di segni da decodificare. Se prima la loro musica si limitava a descrivere l’esistente, adesso va molto più in là: aspira a descrivere quello che non si vede (per esempio, il crosbyano “giardino della mente”, “Mind Garden”, o le “otto miglia in alto”).
La musica dei Byrds dà vibrazioni forti, inebria, provoca scosse all’immaginazione: siamo in una fase in cui viene chiesto al pubblico un livello di partecipazione meno immediato, più mentale, un’adesione quasi filosofica. Ad un certo punto nella loro musica entrano il jazz di Coltrane e i raga di Ravi Shankar. Non tutto il pubblico segue questa complicazione del loro tragitto: molti fan trovano più idonei alla propria formazione i Creedence, Paul Simon o Sonny & Cher. Gli ascoltatori dei Byrds diventano, in questa fase, gli “intellettuali” del rock, i docenti universitari o i giovani che studiano per diventarlo, gli espansori delle facoltà mentali, i curiosi, gli sperimentatori, i pionieri da campus e da festival. Chi è disposto a farsi mischiare le carte sotto il muso senza rimanerci male, anzi, rilanciando. Un pubblico mediano di spinta, proteso in avanti: non troppo proletario (per quello c’era il garage) né troppo sofisticato (per quello c’erano il jazz, l’avanguardia, la classica).
Ma quando i Byrds si trovano in mezzo al sound più progressivo che c’è, quando siamo nel momento d’oro di San Francisco (un campo che proprio loro hanno in qualche modo seminato), che succede? Arriva “Sweetheart of the Rodeo”, in formazione è entrato Gram Parsons. I Byrds staccano la spina agli strumenti e si danno a un suono country che sa di “retroguardia”. Perché?
Nel personale elogio dell’irrequietezza che il gruppo californiano sta scrivendo, è previsto un ritorno alle origini. In quel momento questa scelta doveva sembrare loro la più inattesa di tutte. Dalla rosa delle possibilità il gruppo estrae il petalo della frontiera western, caro sia a McGuinn che a Chris Hillman, gli ultimi due membri fondatori rimasti. Il mito nostalgico dei padri fondatori d’America e della prateria e la rilettura di Nashville portano i Byrds ad aprire la porta di un altro mondo, da lì in poi fittamente popolato: quello del country-rock. Se ci fosse, dietro, una caduta di entusiasmo rispetto al progresso, non si sa. McGuinn spiegò disinvoltamente la nuova svolta con la predisposizione a non prendere nulla troppo sul serio, del tipo: “Cosa c’è rimasto da triturare? Il country? Sotto col country!”. Ma è una lettura un po’ troppo debole.
Certo intorno al ’68 non mancano esempi illustri di luddismo e rifiuto della tecnologia, per esempio la Band (l’unica band capace di infiammare le folle parlando d’Abramo Lincoln) e i Creedence, che ri-meditano e ri-proiettano tracce dell’antico paesaggio del Sud. Questi gruppi rifuggivano da ogni forma di progresso, sia con l’uso di una strumentazione rigorosamente acustica e tradizionale, sia, soprattutto, con il recupero di valori americani adulti, seri, stabili, non contaminati, non giovanilistici.
Nell’eterno gioco di innovazione/restaurazione, tensione/riflusso, ribellismo/ritorno a casa, il rock rivive (e subisce?) quell’esigenza di affermare la tradizione, di difendersi da un’infedeltà che deraglia dai binari consueti. Strano, no? Però vero.
Certo non mancò ai Byrds una connaturata scintilla di controcultura nemmeno nel momento del cosiddetto riflusso, se è vero che firmarono parte delle musiche di “Easy Rider”, il road movie del ’69 in cui il protagonista Capitan America, impersonato da Peter Fonda, ha stelle & strisce su casco, moto e giacca.
I personaggi di “Easy Rider” non hanno più soluzioni o modelli da proporre; non sono più tanto mitici, i fricchettoni del nuovo corso. Si limitano ad andare su e giù per le immense strade degli States, e a starsene per fatti propri. Ideale cerniera tra Sessanta e Settanta: il sogno è già finito.

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12 Commenti

  1. Sempre felice di leggere e commentare post come questi

    Tu scrivi: “Ma quando i Byrds si trovano in mezzo al sound più progressivo che c’è, quando siamo nel momento d’oro di San Francisco (un campo che proprio loro hanno in qualche modo seminato), che succede? Arriva “Sweetheart of the Rodeo”, in formazione è entrato Gram Parsons. I Byrds staccano la spina agli strumenti e si danno a un suono country che sa di “retroguardia”. Perché?”

    Forse una risposta a questo spostamento radicale è fornita anche da altre cause: sul percorso psichedelico-sperimentale si stagliavano gruppi del calibro dei Grateful Dead e facevano la propria comparsa i Jefferson-figli di papà-Airplane: entrambi, per ragioni diverse, costituivano uno sbarramento formidabile sulla strada dei Byrds. In realtà il gruppo faceva tecnicamente fatica a fare concorrenza a personaggi come Andy Garcia che, oltre a essere un asso della chitarra, aveva fatto dell’acido lisergico la propria palestra. Lui e il suo gruppo facevano davvero sul serio e lavoravano “sul terreno”, per così dire, dando luogo a continui raduni di massa con tanto di psychedelic visual art e mandrie di volenterosi sballati in preda alle suggestioni dell’acido. Nel frattempo la tendenza si era diffusa abbastanza da permettere a gruppi pop come i Jefferson di esplodere sul mercato, vendere una montagna di dischi presso le leve più giovani – incantate dai testi ammiccanti e sessual-sballati di Grace Slick – e arrogarsi il diritto di incarnare il gruppo-guida nel movimento musicale californiano. I Byrds erano essenzialmente dei musicisti, Roger McGuinn probabilmente troppo disincantato e fattivo per tuffarsi nelle “trance” neo mistiche di Timoty Leary, con buona pace della sperimentazione della coscienza, diventata nel frattempo gioco per bambini. Il risultato: un repentino cambio di registro e l’addio all’arena delle contingenze per perseguire una vocazione più musicale.

    a presto

  2. bah, come dire. se fossi stato uno dei byrds nel 1967 anche io avrei staccato la spina con la psichedelia, dopo aver ascoltato ‘The pyper at the gates of the dawn’ dei pink floyd. perchè stare in quel ramo, come competere con barrett?

  3. Certo, l’arrivo dei lisergici estremi, di qui e di là dell’oceano, mise in difficoltà i Byrds, d’accordo sia con robilant che con beccalossi. Tra l’altro i nuovi erano più fighi, maneggiavano musica e immagine in modo più cool, più moderno, più ecumenico, più tenebroso o solare (a seconda). Ma, a parte che quella porta lisergica l’avevano aperta magistralmente loro – riascoltatevi “John Riley”, “Why” e tutto “YOUNGER THAN YESTERDAY” – io credo che la svolta sia stata quando Crosby è uscito dal gruppo. Era lui che teneva il piede sull’acceleratore, che chiedeva agli altri sempre di più. Rimasti Hillmann e McGuiinn, è emerso il nocciolo più conservatore, pacificatore e “qualunquista”. Senza troppo togliere a “SWEETHEARTH OF THE RODEO”, un altro capitolo cruciale, che è praticamente il disco che dà inizio al folk-rock.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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