Cattimatti

di Egle Oddo

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D’estate o d’inverno, la protagonista di Helsinki è la luce. D’estate la sua onnipresenza, d’inverno l’avarizia delle sue apparizioni. Brevi, diagonali, mai dirette, sempre per un gioco di riflessi. La realtà si spezza dentro le persone, perché la natura della luce le sottopone costantemente alla tirannia del troppo o troppo poco.
Helsinki e i suoi abitanti lottano con la luce, c’è una perenne insoddisfazione, come se si fosse in difetto col resto del mondo, un comportamento anomalo che produce spaesamento.
La gente qui non guarda la realtà, vede scappatoie di luce. La luce è ciò che libera la realtà dal suo peso. Non come farebbe un’entità medianica o spirituale, ma piuttosto come un concetto di fisica applicato alla pittura.
La luce di Helsinki è una luce concettuale, quella che si ritroverebbe più comunemente in un quadro astratto o in certo informale. E’ già dentro il colore, la ruvidezza del materiale, non proviene dal sole dipinto nel cielo azzurro – e in che quadro astratto ci sarebbe un vero sole appeso? Infatti viene dagli oggetti, dalle loro linee, dallo spazio che occupano: qui la luce è gli oggetti in senso assoluto. Non è istintivo accorgersene e discernere. Camminando per strada i palazzi, gli alberi, le facce, le strade, la roccia, richiedono un’attenzione programmata, da critico d’arte. E’ facile confondersi e pensare che anche qui come dappertutto la luce appartenga al quotidiano, o che sia crepuscolare, esistenziale, come in altre città. O peggio ancora romantica, stereotipo di altri tipi di luce che Helsinki non è.
Anche le persone passeggiano come oggetti illuminati. Tutto sembra pacificamente partecipe di regole da Flatlandia, mentre all’improvviso un tram taglia la traiettoria del sole, lo riceve in pieno sull’intervallo dei vetri, acceca per un secondo tutta la città e la riscuote. Nessuno fiata. E’ un’estate improvvisa. Quasi come quella che hanno al Sud.
Un istante dopo la luce concettuale di Helsinki si è già mascherata da luce quotidiana, fisica. Riprende gli oggetti che ha a portata di mano e non fa caso se siano di metallo o legno, non distingue. E’ tornata tutta materia pittorica. Per giunta di un quadro astratto.
La riconoscibilità di ogni cosa è indubbia, ma è chiaro che la domanda del palazzo, dell’onda, dell’albero non è “Che cosa sono?” ma piuttosto “Dove sono stato colpito (dalla luce) e quindi rifrango?”.
Helsinki e i suoi abitanti lottano con la luce, c’è una perenne insoddisfazione. Si vive di luce riflessa. A volte per le strade qualcuno mulina una mano come un tic nervoso, come un gatto che afferra l’aria. Magari era solo per schermarsi da uno di quei riverberi improvvisi o per chiamare a sé la luce. A volte qualcuno se la cerca addosso, come se gli avessero sparato. Invece era solo la fibbia dei pantaloni che mandava lampi.
La parte dove il colpo è ricevuto è la stessa che restituisce la luce. E’ la ferita, il passaggio, la soglia. La ferita è la scappatoia.
La ferita, dice Helsinki, è la mia vendetta di luce che rifrange sul mondo.

Davanti a Helsinki c’è un’isola antica e fortificata. Si chiama Suomenlinna. Lungo il perimetro della sua costa c’è una larga muraglia di mattoni rossi, pietre e roccia, camminamenti. Ci sono polveriere col tetto coperto d’erba e cannoni abbandonati che guardano verso il mare con la bocca vuota. C’è sempre vento, su questa isola. Gli alberi crescono piegati verso sud-ovest. D’estate i bambini corrono sulla muraglia e fanno il bagno sotto la sua gigantesca ombra, d’inverno ci abitano poche persone a causa dei collegamenti scomodi con la terra ferma. O forse perché hanno paura che anche i loro pensieri crescano piegati a sud-ovest.
Y. vive a Suomenlinna, proprio a ridosso della muraglia, e ha la vista migliore sul mare. Il mare ghiaccia lungo il corso dell’anno, Y., e tu lo guardi, finché è una crosta biancazzurra e a piedi si può arrivare sulla terra ferma. Sono così anche le tue amicizie? Aspetti lo zenit perfetto, quando il ghiaccio vola e il sole si stende piatto, e poi ci cammini sopra?
A volte non esisti o sei una presenza indifferente. E’ la libertà di non essere compresi. Perché chi dice di comprenderti in qualche modo ti fa schiavo.

Durante l’autunno è più facile fermarsi a ricordare. Ricapitolare tutte le esperienze che non si è ancora finito di comprendere mentre si aspetta la neve. La memoria è fatta di tutte le persone che abitano dentro la testa e i loro nomi sono come la declinazione di una parola in tutti i suoi casi. E’ un fenomeno simile alla prima nevicata in novembre quando, a forza di ricordare, l’ultima apparizione sentimentale scende a coprire tutte le precedenti e i loro nomi. E’ l’inizio della trasformazione del presente in memoria, nell’attimo stesso in cui accade.
Tutte le persone che ho amato e che non ho compreso esistono dentro di me nella forma di un nome.
La neve si stratifica e crea superfici solide, ed è fatta solo di puntini bianchi. L’ultimo nome imparato sta in alto a sinistra e priva tutti gli altri dei loro privilegi, li riscrive minuscoli, come Nomi di Cosa e non di Persona; fa la crosta e impedisce che i nomi precedenti si impadroniscano di aree intere della memoria e del sentimento. Ma in qualche modo anche li protegge.
L’ultima apparizione sentimentale in ordine cronologico, la prima in ordine di vicinanza, si può toccare con mano, come la neve più superficiale. E’ quella che certamente si sporcherà presto e che ripara sotto di sé una coltre bianca di spessore misterioso finché non ci si affonda il piede o tutta la gamba.
Dove sono tutti quei nomi che pure anni avevano coperto di firme? Le persone che sono state il mio presente, quegli anni appartenevano ai loro nomi e ne custodivano l’importanza.
Y. quando è presente, è il nome di una giornata al mare. Il suo nome e quello dell’isola dove abita fanno a gara a chi è più saldamente fortificato. Di lui già rimane solo l’iniziale: Y., come l’impronta di due sci che frenano in discesa.
E quando finalmente nevica si capisce che Helsinki è una città invernale.

Guardo dalla finestra mentre Renè e Arttu fanno il caffè. Continuiamo a parlare gridando da una stanza all’altra.
Tutto bianco, dico. La verità è un mondo incompleto. Un monocromo pieno di geometria solida. Guarda! Anche il saluto dal treno è bianco, il fiato del cane, il moto del vento. Il tuo sguardo è bianco, largo e stretto, formato panorama. Guardi tutto e pensi: “E se fosse cocaina?!”. Arttu e René ridono, pensano sarebbe un tonico utile d’inverno, ma prendono solo caffè.
Le giornate a fisarmonica, non sono ore ma elastici di gomma che con l’uso si fanno laschi. Così la proporzione tra luce e buio, dico. D’inverno non si parla d’altro. Una canzone d’amore senza amore.
In casa i lunghi caffè, Arttu e René mi ascoltano parlare sulle tazze sospese, dietro le spalle una stanza disfatta. Il gatto circola ironico sullo schienale della mia poltrona. A un tratto, mentre cerco di spiegare queste cose serie, Arttu spara una risata dal naso come chi cerca di trattenersi. Mi dice che proprio mentre io ero lì tutta sussiegosa, il gatto acchiappava l’aria sulla mia testa con la postura di uno schiacciatore di pallavolo. Anche a descrivere l’inverno poi si fa primavera.
Ascoltiamo musica. Renè mi chiede di ripetere le parole della cantante in italiano, l’unico idioma che ancora non conosce. La voce di un’arpista irradia sui vetri delle doppie finestre mentre io la traduco simultaneamente:

Dall’alto del volo
Sulle larghe scale bianche
Per il resto della mia vita
Mi aspetti lassù?

Salva la campana dall’incendio
Lasciala cadere dal molo
Cancellala nel mare
Sprofonda muta come roccia.

– Chi è la cantante? – Mi chiede Arttu. Renè sorride, è un esperto di musica oltre che di idiomi e conosce praticamente qualsiasi vagito musicale metta la testa fuori. Cominciamo a prendere in giro Arttu perché non sa il nome della cantante, tra l’altro già piuttosto famosa. Il gatto partecipa anche lui, tanto che gli viene il trippo e comincia a scattare a molla tra una poltrona e l’altra. Vogliono che traduca un altro pezzetto, così intanto Arttu ci pensa:

Avevi una colombella bianca
Fatta con amore, fatta con amore,
Fabbricata con la colla, i guanti e le pinze.

Volteggiava bassa sulla fiamma,
Posati Desiderio.
Nel posto dove si fermò
C’era un cerchio di tronchi.

E’ così bello
Portare l’acqua e tagliare la legna
Striati di fuliggine, con gli stivali pesanti e gli occhi selvaggi.

Ma un ciglio del fuoco
Si muove preciso per il bosco,
Mentre tu da qualche parte
Fai la tua prima incisione con le pinze e la colla.
E in un momento di visione quasi intollerabile
Si piegò in due con una fame da leone.
“Tienimi stretta”, tubò la colomba
Ora imbottita di segatura e diamanti.

Arttu ha questo vantaggio su Renè, lui conosce l’italiano. Quando traduco mi ascolta. Invece Renè ascolta il suono delle parole, le confronta con la sua conoscenza dell’inglese. Poi si scambiano due battute veloci in finlandese. – Come? Come? – chiedo. Il gatto sta massacrando il mio calzino di lana già sbudellato. Dicono che lei, la cantante, è venuta recentemente a dare un concerto in Flatlandia, cioè in Finlandia. Ci domandiamo se nel suo caso la luce abbia fatto un’eccezione, se l’abbia trattata diversamente dato che lei è un genio. E si sa, i geni sono illuminati per definizione, anche in Flatlandia riescono a farla franca. Tra l’altro lei viene veramente da un altro mondo: California. Magari ha già incominciato una piccola rivoluzione sotterranea contro le regole da Flatlandia. Magari ci porta l’estate solida invece di quella dipinta. Il gatto rumoreggia contro il suo riflesso alla finestra. Giocando a Fuochino-Acqua-Focherello, diamo qualche altro dettaglio ad Arttu perché indovini, le iniziali: J. N. Perché in realtà lui sa chi è lei, si è solo scordato il nome.

Volevo dire, perché questa faccia lunga?
Il passero si posa e canta con la faccia lunga
L’asino s’impunta e raglia con la faccia lunga
Canta: “Inghiottirò la tua tristezza e mangerò la tua fredda argilla
Giusto per risollevarti da questa faccia lunga.
Anche se è follia mi porterò nella tomba
La tua preziosa faccia lunga.
E anche se le nostre ossa si spezzano e le anime si staccano
Perché quelle facce lunghe?
E se anche i nostri corpi si ritirano dalla presa del suolo
Perché quelle facce lunghe?”

Non sono nata da un sibilo
O allattata da un cardo al crepuscolo
No, ero tutta corna e spine
Crebbi perfettamente plasmata, le ginocchia storte io eretta.
Ne abbiamo abbastanza di questo terrore, meritiamo la luce
E di splendere ancora e sempre risplendere.
Sapevo che mi avresti visto attraverso
Ma non potevo disfare il mio Desiderio.

Dall’alto del volo
Sulle larghe scale bianche
Per il resto della mia vita
Mi aspetti lassù?

Il gatto fruga con gli unghioli dentro il bracciolo del divano, ne tira fuori un truciolo di lana, lo soffia via, gli fa la posta, lo riacchiappa, lo perde in aria. Ha un aria tremendamente seria. Ora gli gioco un tiro macino. E mentre rincula e sta determinando la distanza per il balzo perfetto, con tutte le vibrisse che misurano le superfici visibili e invisibili, gli faccio pac secco sulla schiena. Buca la quarta dimensione con un salto da olimpionico e si nasconde nella notte perpetua sotto il divano.

[estratto da Le Superfici Piane, non pubblicato]

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5 Commenti

  1. non vorrei mai!
    anche il ghiaccio è necessario..
    :-)

    ho ascoltato la canzone,
    divina!
    aspettami lassù…

  2. E’ un brano fanciullo della notte nordica, una margina di luce assillante, pallida luce che resiste alla notte, al momento dove la candela fa tremblare il mondo magico dell’inverno.
    E’ un chiarore d’elfo, un chiarore inventata per avvicinare l’amore, una danza di silenzio, fragila.
    Questo testo dà una grazia a una terra lunare.

    Grazie par la sua bellezza.

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