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La spazzatura

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di Marino Magliani

E’ il rumore che fanno i camion quando compiono una manovra. Entrano in retro in un cortile, posteggiano, o scaricano. Un bibi come di allarme, assieme alle frecce di emergenza. Ogni martedí mattina e ogni venerdí pomeriggio, sempre alla stessa ora come se fosse un antibiotico, sento quel bibi provenire da dietro il palazzo.
Eccolo, mi dico. Mi alzo, mi accosto alla vetrata e lo vedo. E’ il camion della spazzatura.
Vent’anni fa, quando mi sono fermato a vivere nel palazzo più brutto di questo quartiere olandese, la scena era diversa. Il camion si fermava davanti al portone della spazzatura, perché fino a poco tempo fa la spazzatura aveva un portone, e scendevano due uomini con una tuta arancione, si apriva una bocca nel cassone del camion e gli uomini uscivano dal portone coi cassonetti, li agganciavano, la bocca tritava tutto.
Un’immagine finale, che mi perseguitava. Pensavo a C’era una volta in America, l’ex bandito, poi politico in odore di scandalo, che sceglieva di sparire nel camion della spazzatura.
Svuotata la spazzatura, ai due uomini non restavano che alcuni oggetti che nei cassonetti non avevano trovato posto. Poi il camion ripartiva e il bibi si esauriva.
Un paio di anni fa hanno cambiato sistema. Ora la spazzatura si getta in una specie di grosso fungo di ferro che emerge di mezzo metro dal suolo, i sacchetti entrano nella bocca del fungo e cadono con tanto di tonfo in una cisterna di ferro. Il camion, due volte alla settimana si ferma accanto al fungo, bibi, frecce d’emergenza, l’uomo vestito di arancione – ora lavora da solo – manovra su un pannello che porta appeso al collo, e il braccio di una gru si muove, aggancia il fungo, lo sdradica dal suolo assieme all’intera cisterna come fosse un dente e il cassone del camion raccoglie tutto quanto. Sto lí, a guardare, come vent’anni fa. La tuta arancione dell’uomo assomiglia a quelle dei prigionieri di Guantanamo. Anche la sua pelle é scura come quella dei prigionieri di Guantanamo.
Prima che il bibi del camion si esaurisca, torno a sedermi, al lavoro, davanti a questo monitor. Non faccio un lavoro troppo diverso dall’uomo vestito di arancione, mi occupo anch’io di spazzatura, di storie, le accumulo in casa, le uso, ne uso i prodotti come fossero buste di insalata, cartoni di salse, della roba che trovo nel supermercato che é là fuori, sui marciapiedi, traggo il possibile, a volte non mi piace proprio la storia e allora la getto, assieme ad altre parti, a frasi, a parole, a volte riciclo. A volte mi vergogno di cosa getto, mi dico sei un genio, l’avessero certi scrittori questo materiale. E tu lo getti. A volte invece mi vergogno se certe storie non le getto.
Anche chi ha deciso di piazzare la spazzatura sotto il fungo di ferro e non più nello stanzone, deve averlo fatto perché si vergognava. Già, la spazzatura va nascosta. Ma qui, nel quartiere olandese dove vivo, é impossibile nascondere la spazzatura, le strade ne sono piene, di cartacce, cocci di vetro che finiscono tra il mattonato delle strade, i vetri delle bottiglie che tutti quanti quassù bevono e rompono per rompere il respiro dell’acciaieria di là del canale, e tira vento e il vento alza le cartacce e le plastiche leggere. I sacchetti di plastica restano per qualche tempo impigliati alle fronde degli alberi, e vengono sbattutti come aquiloni.
Da vent’anni io continuo a scrivere le storie di plastica che si agitano nel vento del Noord Zee, e a gettarne via. Ultimamente intere impalcature di romanzi, salvo più poco ormai. Forse dovrei cambiar posto, ammucchiare spazzatura da un’altra parte.
La settimana scorsa ho terminato una storia per un’antologia che sarà tradotta in questa lingua. Una cosa che mi ha emozionato, più di quando in Italia ho visto la copertina del mio primo libro. Qui é dove vivi, mi dico. Un giorno alla settimana o due ti vedono – non ti vede quasi mai nessuno – uscire alle cinque, imbaccucato che vai al porto a elemosinare una giornata, scarichi, impili, raddrizzi, attacchi nastri fin verso sera, se sei furbo riesci a rubarti una decina di chili di pesce che vendi al china snack qua sotto. Gli altri giorni, il mattino verso le nove ti vedono che esci col tuo sacco di spazzatura e lo getti e rientri.
Sei uno di quelli di cui ci si chiede che cosa fa durante il giorno, oltre che accampare il suo sacchetto di spazzatura. La sera, stanco di ammucchiare, assotigliare, frenare, torturare parole, vomitarle, esci e vai al mare che sta a un paio di chilometri.
La storia che ho scritto la settimana scorsa conteneva questo, il viaggio quotidiano al mare a respirare una boccata di quel nulla che piano piano ti entra dentro e un giorno scrivi che lo senti come domestico. La storia di tutta quella sabbia, in riva al mare, dura e popolata da carcasse di granchi lasciati sul bagnasciuga dall’alta marea, e sabbia nelle dune e sabbia nel quartiere dove vivo, nella sabbia sono le fondamenta di questo palazzo, nella sabbia si nutrono le radici degli alberi, nella sabbia giocano i bambini.
Allora ho scritto che la sabbia é una cosa che qui penetra e riempie gli scavi del vento, la trovi nell’ascensore, ho scritto, la trovi in casa, nelle calze, nella doccia, persino nelle lenzuola, nelle donne, la sabbia é la memoria ho scritto. Ma non é vero nulla, volevo solo scrivere una bella storia, non volevo gettarla. Cosí avevo terminato finalmente la storia per l’editore olandese, una storia che anche questa gente, questa sabbia, i viventi di questo quartiere, i produttori di spazzatura di questo palazzo, avrebbero potuto leggere nella loro lingua.
Una storia per cui tutti avrebbero potuto dire: oh, ecco cosa fa l’uomo che il mattino esce con la spazzatura. Ecco cosa fa l’uomo che un giorno o due al massimo alla settimana esce in bicicletta e va al porto. Ecco cosa fa in casa l’uomo che la sera torna da quel respiro di nulla domestico che é il mare e si porta la sabbia in casa e una borsa di spesa prelevata dal supermercato. Ora sanno che sono uno di loro, che aspetta.
Cosí leggeranno che tutta questa sabbia é la memoria e non sapranno mai la verità, perché la memoria é nient’altro che la spazzatura ammucchiata, e quella che ci resta da portar via ogni mattino é la memoria del futuro. E allora se scrivo questo penso al paesino dal quale é cominciata la mia spazzatura. Erano anni in cui se ne produceva meno di adesso e il comune non metteva cassonetti, la spazzatura si gettava in due punti, all’ingresso del paese, da un ponte, che scendeva sulle rocce e si ammucchiava sul letto del torrente e la prima piena invernale portava tutto al mare, o a metà paese, la spazzatura si gettava attraverso un buco in una rete e scendeva lungo un burrone e ogni tanto il messo comunale ci gettava un po’ di benzina, un fiammifero e si allontanava.
E’ molto probabile che la prima volta in cui da bambino sono uscito di casa da solo sia stato per gettare della spazzatura. Diventó, tra i lavoretti che mia madre mi faceva fare, quello preferito. Una volta gettato mi fermavo a guardare i colori della spazzatura, a riconoscere la mia, al ritorno lavavo il secchio alla fontana, e per tutto il giorno mi restava nel respiro quell’odore, come mi succede ora quando torno dal mare. Anche in collegio, per un periodo, ottenni < < l’impiego >> della spazzatura, portavo i sacchi al cancello, un uomo li caricava sul motocarro e stavo lí, gli occhi chiusi, a sentire l’odore che si allontanava.
L’odore della memoria si fa forte per qualche minuto prima di sparire. Da sempre, certamente da quando l’uomo del motocarro si portava via un pezzo di me senza liberarmi da quel collegio, mi piace pensare alla figura dell’operatore ecologico come a quella del mio boia. Quante volte hanno rotto i miei sogni. Ricordo quando ancora si chiamavano spazzini e le loro ciarle sonnolente agitavano gli stornelli nella fronda dei pini marittimi e delle palme, e mi svegliavano nelle stazioni di tutto il mondo, nei giardini pubblici, nelle scarpate, sotto i ponti sotto i quali mi ero riparato.
Da sempre, l’odore che sento in bocca quando mi sveglio é l’odore di lei e mi dico che dev’essere cosí perché l’ho sognata. E’ spazzatura. Queste sono le frasi che getterei ecco, la eliminerei subito con un semplice gesto su questa tastiera come fa l’uomo arancione manovrando sul pannello che porta al collo. E dopo averla eliminata, penserei a un’altra frase, o starei qui con la mia memoria fatta di spazzatura a ricordare le volte in cui tornato al paesino, dove il comune ha messo cassonetti colorati dappertutto, mi prende una malinconia finale e scendo sotto il ponte, nel burrone dove un tempo si gettava la spazzatura e sto lí a cercare vecchie tracce ancora salve, pile, barattoli arruginiti, cocci di piatti interrati, vetri. Sto lí e aspetto come aspetto ora.

IJmuiden, 16 febbraio, 2007

(Racconto incluso nell’antologia Attenzione, uscita operai! edita da No Reply. Si ringrazia l’editore per la concessione. Immagine: Gene Davis – Red Dog, 1961)

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10 Commenti

  1. C’è chi sa fare poesia con la spazzatura, come il regista del film “American beauty” col sacchetto di plastica svolazzante per il vento, e come Marino Magliani in questo splendido racconto.

  2. triste lo sguardo che si posa sulle cose, che scivole tra la spazzatura. In quella spazzatura, nel suo odore acre e a tratti nauseante, tra i colori e le mille storie…ho ritrovato un pezzo di me…è il piccolo dono che sa regalare un buon racconto!

  3. […] E’ il rumore che fanno i camion quando compiono una manovra. Entrano in retro in un cortile, posteggiano, o scaricano. Un bibi come di allarme, assieme alle frecce di emergenza. Ogni martedí mattina e ogni venerdí pomeriggio, sempre alla stessa ora come se fosse un antibiotico, sento quel bibi provenire da dietro il palazzo. Eccolo, mi dico. Mi alzo, mi accosto alla vetrata e lo vedo. E’ il camion della spazzatura. Vent’anni fa, quando mi sono fermato a vivere nel palazzo più brutto di questo quartiere olandese, la scena era diversa. Il camion si fermava davanti al portone della spazzatura, perché fino a poco tempo fa la spazzatura aveva un portone, e scendevano due uomini con una tuta arancione, si apriva una bocca nel cassone del camion e gli uomini uscivano dal portone coi cassonetti, li agganciavano, la bocca tritava tutto. Un’immagine finale, che mi perseguitava. Pensavo a C’era una volta in America, l’ex bandito, poi politico in odore di scandalo, che sceglieva di sparire nel camion della spazzatura. Svuotata la spazzatura, ai due uomini non restavano che alcuni oggetti che nei cassonetti non avevano trovato posto. Poi il camion ripartiva e il bibi si esauriva. Un paio di anni fa hanno cambiato sistema. … continua a leggere su Nazione Indiana […]

  4. “Eccolo, mi dico. Mi alzo, mi accosto alla vetrata e lo vedo. E’ il camion della spazzatura.”
    Anch’io mi alzo sempre a guardarlo. E ogni volta penso qualcosa, anche se non saprei dire esattamente cosa.
    Mi è piaciuto molto.

  5. La spazzatura.
    A Bari tutti la chiamano “immondizia”. Evoca un organismo denso, un mucoso, canceroso essere immondo. La sostanza di cui era pieno il vaso di pandora. Immondizia. Il nostro passato, il nostro futuro. Suona incredibilmente questa parola. Immondizia. Più crudele di spazzatura, più concettuale.
    Cammino – sono le otto meno un quarto – ho freddo. Mi aspetta un lavoro meno faticoso del porto …un’immondizia di lavoro a tempo indeterminato in un negozio… che non è porto e non c’è sabbia. Polvere – al limite – che mi riempe le narici …immondizia.
    Anche qui è cambiata l’immondizia. Adesso è dovunque. Passano a prenderla due volte ogni notte. Fanno rumore. Lo fanno per svegliarci. Perchè stanno lavorando e noi… stiamo dormendo. Urlano. Di notte. Perché i cassonetti non si svuotano da soli.

  6. caro marino, grazie di avermelo segnalato. è un bellissimo racconto, che mi ha emozionato. è qualcosa di più di un racconto, e di diverso, come piace a me. grazie ancora.
    P.S. ma che mestiere fai, esattamente, là dove vivi? un sorriso e un abbraccio, beppe

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