Oltre il passato

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di Giovanni Agnoloni

Alla fermata non passavano autobus. Per questo Seamus si era messo in marcia. Si trovava a poco meno di un chilometro da Greve in Chianti, e camminare nel freddo di gennaio non era così terribile. Si sentiva l’eroe solitario dei romanzi fantasy che leggeva da ragazzo, seduto davanti al caminetto, a Kildare, e questa sensazione lo aiutò a macinare passi con buona lena. Quando entrò in paese, i lampioni della strada provinciale proiettavano un’ombra di calore sulle case. Sembra un villaggio del West Cork, gli venne da pensare.
Giunto a un incrocio svoltò a destra, dove affluivano gruppetti di persone. C’era un venditore ambulante di croccanti e poco oltre una piazza, che lo attirava in modo strano. Aveva una forma triangolare, con delle arcate lungo i lati, e il pavimento in pietra era azzurro come un lago silenzioso. Nel mezzo campeggiava una statua.
Seamus si diresse verso un tratto del porticato dove la gente si raccoglieva più fitta. C’era un locale, lì sotto: una tavernetta rustica dal soffitto a volta, con le pietre a vista. Persone rilassate sedute ai tavoli in legno, odore di dolci, radio accesa.
Entrando, lo avvolse una vampata di calore. Il proprietario lo salutò con l’accento tipico della zona e lo invitò ad accomodarsi nella saletta adiacente. Seamus lo seguì fino a un piccolo tavolo.
Nel togliersi la giacca, gli balenò nella mente un ricordo: Sheila. Era stato in un’osteria simile a questa, a Lisbona, che l’agosto precedente avevano litigato. Fino ad allora le vacanze erano andate bene, ma poi era bastato un pretesto futile – un fiore non comprato da un Indiano venuto al loro tavolo – ed era iniziata la discussione. Lei si era alzata, accusandolo come al solito di essere egoista e superficiale. Quel viaggio lo avrebbe finito da sola, aveva detto, e se n’era andata. Per sempre.
Finalmente la cameriera arrivò, ridestandolo dai ricordi. Aveva la faccia spenta, e gli chiese svogliatamente cosa voleva. Lui ordinò un panino al salame e un bicchiere di vino rosso. Intorno, brusio. La gente sembrava allegra e soddisfatta della propria digestione. Seamus si sentì solo, ma in fondo la solitudine era ciò che cercava, nel suo soggiorno in Toscana. Sperava in un nuovo inizio, in una svolta. Dopo la rottura con Sheila, era stato anche licenziato dalla ditta di Blanchurdstown, e l’unico lavoro che aveva trovato era a Limerick, città che detestava. Sentiva di aver toccato il fondo, e si chiese se adesso non stesse per caso fluttuando nel vuoto sottostante. La Toscana, per lui, era come una terra di nessuno, dove ogni passo era una conquista, un metro oltre il passato.
Dalla cucina arrivava un odore speziato di carne misto a vernacolo smozzicato, mentre fuori cominciava a nevicare. Arrivò il panino. Seamus lo addentò con avidità, scoprendone il sapore crudo e aggressivo come se stesse alzando la gonna a un’amante. Si sciacquò la bocca col Chianti, e la mente gli si svuotò. Poteva udire con nitidezza ciascuna delle voci nella stanza: dopo due mesi passati a Firenze, riusciva a capire l’italiano piuttosto bene.
Si guardò pigramente intorno e notò una ragazza, seduta lì vicino con due amiche, che gli sorrise fugacemente. Seamus la osservò un paio di secondi, pensando che guardasse un altro. Ma c’era solo lui. Era il genere di situazioni che lo faceva sentire un idiota. Alla fine prevalse il bisogno di compagnia, e ricambiò un sorriso. La ragazza si schermì, abbassando il capo verso l’amica che aveva accanto, più disinvolta. Fu lei a invitarlo al tavolo.
“Ciao,” fece lui, avvicinandosi. Poi, per evitare silenzi imbarazzanti, aggiunse: “Non siete italiane, vero?”
“No, in effetti,” rispose la tipa più socievole. “Ma anche tu sembri straniero.”
“Scommessa vinta: sono irlandese. Ma lasciatemi indovinare: siete qui per studiare l’italiano, ma venite…”
“…anche noi dall’Irlanda,” la seconda ragazza completò la sua frase. “Comunque qui siamo solo di passaggio. Soggiorniamo a Firenze.”
Seamus era sorpreso. Tutto si sarebbe aspettato, tranne che incontrare delle connazionali in una tavernetta di Greve in Chianti. La terza amica notò la sua sorpresa:
“Stupito?”
“Beh, sì,” rispose Seamus, “visto che avete tutte capelli scuri e occhi castani.”
“Questo non significa nulla,” la prima ragazza replicò. “Dovresti sapere che tante irlandesi sono così. E poi noi abbiamo origini spagnole: i nostri nonni materni erano di Cadice.”
“Siete parenti?”
“Cugine,” rispose la prima.
Seamus per un momento non seppe che dire. Si sentiva improvvisamente fuori posto. Notò che sul tavolo c’era una torta di mele – o erano arance? -, e che tutte e tre avevano appena finito di bere del caffè. “Possiamo offrirti qualcosa?” la terza ragazza offrì in tono cortese.
“Oh, no, grazie,” rispose lui. “Ma è curioso…”
“Che cosa?”
“Che siamo tutti irlandesi e parliamo in italiano.”
“Oh, ma è meglio così, o non lo impareremo mai…” disse la prima ragazza.
Seamus rise senza convinzione. “Di dove sei?” si sentì poi chiedere.
“Di Kildare, vicino Dublino,” rispose senza girarsi.
“Ah, bene, noi siamo di Cork,” due di loro dissero, quasi in coro.
“E come mai sei in Toscana?” la terza domandò.
Non c’era motivo di fingere. In fondo, se le sue origini lo stavano inseguendo anche lontano da casa, era meglio affrontarle in campo aperto.
“Per dimenticare,” rispose.
Le tre amiche risero divertite. “Problemi di cuore?” chiese quella più spigliata.
“Beh, sì,” spiegò lui, un po’ imbarazzato. “Devo superare la rottura con la mia ex fidanzata.”
Le due ragazze più riservate mormorarono un Ah di comprensione, ma l’altra non si accontentò: “Come si chiamava?” chiese.
“Beh, non è mica morta… Comunque si chiama Sheila.”
“Io a Cork conosco una Sheila,” replicò lei.
Seamus ebbe un sussulto. Nonostante quel nome fosse comunissimo in Irlanda, sapeva che la sua Sheila aveva lavorato a Cork, per un periodo. Era solo una coincidenza? “Che strano,” disse, con l’aria più indifferente che riuscì ad assumere. “E qual è il suo cognome?”
“O’Flanagan,” la ragazza rispose.
Non era possibile: anche quello corrispondeva. Poteva essere un’omonimia, certo, ma se non fosse stato così? Doveva assolutamente tirarsi fuori da quella situazione, che cominciava già a diventare pesante.
“No, no, non è lei,” rispose velocemente, guardando l’orologio. Alle ragazze quel gesto non sfuggì. “Devi andare?” gli chiese una di loro.
“Sì… Mi spiace, ma ho un autobus per Arezzo tra dieci minuti. Io vivo là,” mentì.
“Che peccato,” osservò la ragazza più sicura di sé. “Stavamo cominciando a fare amicizia. Possiamo sentirci? Se ci dai il tuo numero ti chiamiamo.”
“Come no?” Seamus fece finta di accettare. E diede loro un numero di telefono che si era appena inventato. “Beh, allora ciao,” le salutò, e si diresse verso l’uscita per pagare.
Poi tornò a immergersi nel freddo invernale. Non nevicava più, ma aveva sensazione di essere avvolto in un mantello congelato. Solcò le pietre della piazza con la coscienza a disagio, perché sapeva di avere ingannato delle brave persone. Ma credeva di aver preso l’unica decisione possibile: durante quella conversazione aveva sentito l’ombra del passato alitargli addosso come uno spettro.
Guardò avanti e notò con dispiacere che il camioncino dei croccanti se n’era andato. Ma adesso l’unica cosa da fare era cercare un pullman per Firenze. Girò nella strada principale e camminò per un centinaio di metri, finché non raggiunse una fermata.
Dopo dieci minuti apparve la sagoma di una Sita, bluastra nelle luci artificiali del crepuscolo.
Tirò un sospiro di sollievo.

(Immagine: Eberhard Havekost – Click and Fly, 2000)

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