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Il luna park di David Lynch

di Giovanni Carta

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All’inizio di Ninna Nanna, uno degli ultimi romanzi di Chuck Palahniuk, c’è una frase che starebbe proprio bene scritta nelle ampie stanze del piano terra della Triennale di Milano, che dal 9 ottobre ospitano The Air is on Fire, la mostra ideata da David Lynch per la Fondation Cartier di Parigi: “La maggior parte delle risate preregistrate che si sentono in tv, risalgono all’inizio degli anni Cinquanta. Oggi buona parte della gente che sentite ridere è morta”, scrive Palahniuk. Queste parole non solo fanno pensare all’iconografia decadente, stile Chateau Marmont, cui si sono votati anche diversi attori che vedevamo in quelle serie (Dana Plato, la Kimberly di Arnold, si è suicidata a trentacinque anni con un’overdose di farmaci dopo una vita che definire piuttosto movimentata è un eufemismo; Brian Keith, il popolare zio Bill di Tre nipoti e un maggiordomo si è tolto la vita nel ‘97; solo per citarne due), ma sono anche l’epigrafe ideale a un’opera senza titolo che chiude la mostra di cui sopra.

Gli otto euro alla cassa permettono infatti di assistere ad alcuni cortometraggi di Lynch difficilmente reperibili altrimenti, di ammirare quadri, fotografie, fotomontaggi e schizzi sui materiali più disparati, ma si acquista anche il diritto di entrare in un un salotto tutto particolare. È più preciso parlare di spazio artificiale piuttosto che di scenografia, visto che questo spazio di legno, moquette e polistirolo non è stato utilizzato in nessun film ma è la realizzazione a grandezza naturale di un modellino costruito dall’artista tempo fa e, soprattutto (almeno l’occasionale visitatore della mostra che qui vi riferisce lo spera), non c’è nessuna telecamera nascosta a registrare l’interazione del pubblico con l’opera per qualche oscuro intento artistico. Vi si riproduce il classico salotto “poltrona più divano” di ogni serie americana che ci ha accompagnato negli anni ‘70, ‘80 e ‘90, solo che l’elemento finzionale è qui esagerato verso il fumettistico, o, più precisamente, il fiabesco: le prospettive sono sbagliate, i colori sono troppo accesi, i due corridoi che si aprono sul muro in fondo non portano da nessuna parte. Tutto ha un aspetto esagerato, fa pensare alla cartapesta, c’è anche un pulsante che se viene pigiato fa partire un altoparlante coi rumori inquietanti provenienti da un inesistente piano di sopra. È bello: a terra c’è anche un fantastico tappeto rosso, ma si ha la sensazione di essere tornati bambini e di essere stati spinti senza volerlo dentro il castello stregato di un luna park: se si ha dimestichezza con il cinema di Lynch, si ha la sicurezza di essere entrati in una delle sue “stanze rosse”, ci si aspetta solo di sentire da un momento all’altro le risate preregistrate ad aggiungere inquietudine all’inquietudine.

David Lynch, nonostante una versatilità produttiva che ha fatto usare a qualcuno espressioni come “Uomo del Rinascimento” – serie televisive, video musicali, pubblicità, fumetti, dischi e spettacoli di musica d’avanguardia sono gli altri media che ha piegato al suo sguardo – è noto soprattutto per i suoi film e per il fatto che i suoi film sono contorti e allo stesso tempo aperti all’interpretazione: per alcuni cioè fraudolentemente senza significato, per altri con così tanti significati che a volte si fa fatica a sceglierne uno solo. È cosa meno nota che Lynch disegna e dipinge da quando era bambino, che ha coltivato la sua passione all’Accademia di Belle Arti presso la Pennsylvania Academy of Fine Arts di Filadelfia, poi pare che un giorno, mentre era solo nel suo studio, vide che il classico “leggero movimento d’aria” – prodotto magari da quel tenere aperte contemporaneamente una porta e una finestra ai poli opposti di una stanza, che le nostre nonne ci hanno sempre fatto temere come fonte di possibili polmoniti fulminanti, sbraitando: “Chiudi che c’è corrente!” – spostava dolcemente gli oggetti incollati sulla tela su cui stava lavorando, e questo gli fece capire che forse i personaggi che aveva dipinto potevano uscire dalla tela, o meglio, che lui poteva entrarci e condurre con sé un bel po’ di gente. La carriera tele-cinematografica che segue quel fortunato incidente annovera successi planetari come la serie I Segreti di Twin Peaks e sonori flop come Dune o Fuoco cammina con me. Ogni fallimento però, anziché relegare l’autore all’inattività, gli ha piuttosto conferito una rara libertà creativa dalle aspettative di critica e pubblico, e soprattutto, essendo ogni flop seguito da un altro successo planetario, dei produttori. Dopo il film del debutto cinematografico, una pellicola d’avanguardia intitolata Eraserhead, ha progressivamente messo a fuoco una poetica personale che vede lo sviluppo narrativo rivolto all’implosione delle storie piuttosto che al loro aristotelico dispiegarsi verso lo scioglimento dell’intreccio. Questo lo ha fregiato del riconoscimento di un aggettivo “personale”, come per Hitchcock e pochi altri prima di lui, fino a rendere necessario in Una Storia Vera (traduzione priva di fantasia per il polisemico The Straight Story), la dimostrazione una volta per tutte a critici e produttori – il pubblico solitamente di queste rassicurazioni non ha bisogno – di conoscere “i fondamentali” del cinema, di saper raccontare una storia “dritto per dritto”, come direbbero a Cinecittà. Possiamo definire più marcatamente “lynchiane” pellicole come Cuore Selvaggio, Velluto Blu, Strade Perdute, Mullholland Drive e INLAND EMPIRE (il titolo scritto tutto maiuscolo per una qualche ragione che il regista non ha mai rivelato), presentato nel 2006 al Festival del Cinema di Venezia, dove Lynch è stato anche insignito del Leone d’Oro alla Carriera a soli sessant’anni, come nessuno prima.

In tanti hanno cercato la parola giusta per definire questi film, scomodando gli aggettivi “onirico”, “espressionista”, ”inconscio”. David Foster Wallace – che peraltro affida al fantomatico regista d’avanguardia James O. Incandenza uno dei ruoli principali di Infinite Jest – si è avvicinato più di altri alla meta definendo semplicemente i film di Lynch “malati”, e chiosando poi, nel saggio “David Lynch non perde la testa”: “L’impressione «ad personam» che tendono a lasciarti film come Velluto Blu e Fuoco cammina con me è che hai a che fare con film veramente straordinari ma che David Lynch sia il tipo di persona che speri davvero che non ti capiti accanto su un volo molto lungo, o in fila alla Motorizzazione, o simili. In altre parole un individuo «inquietante»”. Tale impressione è certo alimentata dal fatto che Velluto Blu si apre con un tizio che trova un orecchio mozzato in un prato, che in Mullholland Drive è messa in scena la più triste masturbazione del cinema (ad opera, peraltro, della candida Naomi Watts), e che in generale i cattivi dei film di Lynch sono REALMENTE cattivi, e hanno un luogo eletto da cui dirigono i loro scagnozzi, una stanza che in INLAND EMPIRE è proprio un salotto televisivo con tanto di risate preregistrate e i cui attori sono però dei conigli di peluche: un luogo ricorrente nel suo cinema e non appartenente alla realtà, che lo stesso artista, riferendosi a I Segreti di Twin Peaks – dove per la prima volta l’ha ritratto – chiama: “la stanza rossa”. Insomma, lo spettatore dei suoi film è portato a immaginare l’artista come un vecchio gobbo dallo sguardo torvo, con un dito mozzato che spunta dal taschino.

David Lynch è invece – com’è possibile appurare nelle tante interviste presenti su YouTube.com oltre che sul suo sito personale, e come hanno visto gli steward della triennale e gli operai che hanno allestito la mostra sotto la sua costante supervisione – un allegro sessantenne, piuttosto alto e con un troneggiante ciuffo bianco sulla fronte. Dai modi compiti più che semplicemente educati, a uno sguardo europeo e italiano in particolare, non può non venire in mente che gli americani hanno spesso sul viso un’espressione non tanto “innocente”, ma pulita e inossidabile, come Judy Garland quando torna dal mondo di Oz, nel film di Victor Fleming. Ma, come nei “suoi” film, anche sulle tele esposte alla Triennale vediamo personaggi ritratti in una particolare condizione di esplosione emotiva da tempo trattenuta e infine manifesta. I titoli sono eloquenti, traducendo dall’inglese: “L’ombra di una mano contorta sulla mia casa”, “Non prendeva in giro nessuno, era ferita, e pure seriamente”, “Quest’uomo è stato sparato 0,9502 secondi fa”, oltre a un gran numero di tele che hanno come personaggio principale Bob che, se non si tratta di uno strano caso di omonimia finzionale, è il cattivo di I Segreti di Twin Peaks. Come per lo strano salotto che chiude la mostra, anche sulle tele le prospettive non sono rispettate, le persone e le case sono coaguli di materia informe, ritratti plastici inquieti per i quali ogni descrizione sarebbe un furto alla fantasia contorta dell’autore. Più di un critico cinematografico ha chiesto a Lynch di esemplificare alcuni concetti “astratti” dei suoi film e della sua opera in generale, ricevendo però sempre risposte riluttanti come la seguente: “…Con i critici, non appena apri bocca fanno: «Oh sì, lo sapevo». Però c’era bisogno che qualcuno lo dicesse perché divenisse “reale”. E anche affermare la natura di qualcosa è molto limitante. Quel qualcosa non diventa niente di più di ciò che si è detto, e a me piace quello che è in grado di andare oltre”. Se tuttavia vogliamo forzare con la parola le tele presenti alla Triennale, potremmo dire che in esse è presente soprattutto la materia, maltrattata, bruciata, graffiata sulle tele per assecondare le idee dell’artista sul folclore americano: quelle case a schiera col prato davanti, quell’atmosfera apparentemente felice e tanto anni ‘50 che così spesso ha ritratto nei film. È evidente il piacere nel trattare la pasta del colore, la parte più artigianale della pittura, aggiornata con l’utilizzo dei prodotti e delle tecniche più disparate, come il lettering, le parole sminuzzate dei titoli che entrano con la loro significanza sulla tela, o le combustioni di plastica e altre sostanze. Le combustioni, se in Burri indagano e provocano lo spettatore dal punto di vista del senso e del tatto, lo sollecitano fisicamente senza interessarsi di significanza o volontà di rappresentazione, nei dipinti di Lynch denunciano invece un preciso intento narrativo: si tratta di personaggi immortalati un attimo prima di entrare in una storia, che saltano ancora sul trampolino e l’artista brucia proprio nel momento dello slancio, regalandoli alla tela.

Nella Triennale troviamo poi anche un originale paesaggio, disegnato o, per essere più precisi, applicato – visto l’utilizzo anche in questo caso di materiali eterogenei come legno, cotone e filo di ferro – direttamente su una parete della sala. Vi è ritratta la silhouette di un estintore (peraltro presente anche nella sua forma reale, giusto un metro più in basso, sul pavimento) da cui partono delle linee di filo di ferro, intervallate da rami dipinti con la vernice spray nera. Campeggia su tutta l’opera una grande e chiara scritta: “EVOLU/TION OF AN ESTINTORE”.

I responsabili alle casse sono piuttosto riluttanti a parlare ma, a insistente richiesta, uno steward racconta come sono andate le cose. Che sia una leggenda o che sia successo davvero, pare che durante l’allestimento della mostra Lynch fumasse continuamente, e che questo abbia causato l’arrivo dei vigili del fuoco e il conseguente litigio tra i vigili e l’artista, davanti a poche persone tra cui lo steward chiacchierone. Quanto successo dopo ha invece molti testimoni: Lynch che lascia la mostra e torna solo molto tempo dopo con una tuta da imbianchino, pennelli e altri materiali acquistati evidentemente nel negozio più vicino che ha trovato, oltre ad alcuni rami presi davanti al palazzo della Triennale, in cui proprio in quei primi giorni d’ottobre veniva effettuata la potatura degli alberi prima dell’inverno. A parte i problemi deontologici ai quali si troverà di fronte il Direttore Generale della Triennale, Andrea – si noti la strana ironia del cognome – Cancellato (se rimuovere o meno dopo il 13 gennaio, data di chiusura della mostra, l’opera per restituire alle pareti immacolate della “Galleria”, lo spazio progettato da Gae Aulenti per le mostre temporanee ospitate dal palazzotto anni trenta di Viale Alemagna, la loro funzione di spazio neutro), è curioso chiedersi cosa potrebbe succedere se i solerti vigili del fuoco dovessero tornare per un controllo, e cosa penserebbero di un estintore che in caso di incendio, vista ormai la sua acquisita natura di opera d’arte, potrebbe essere inibito all’utilizzo; è curioso immaginare un inserviente che sposti il suddetto estintore per spazzare più agevolmente, visto che il nastro adesivo che qualche tempo fa è stato applicato sul pavimento davanti a “EVOLU/TION OF AN ESTINTORE” come davanti altre opere, esclude lo stesso mezzo di soccorso, mentre poco distante, davanti a un’altra opera il nastro ne include un altro in modo piuttosto paradossale, visto che non c’entra niente con la tela. Ma l’artista di Missoula, Montana, non è nuovo a queste aperture di significanza e manifestazioni della propria originale ironia, basti pensare alla pubblicità che qualche anno fa gli venne commissionata dalla celebre marca di pasta che ci accompagna da decenni con il refrain che la sua sola presenza nella pentola deve farci “sentire a casa”. Anche in quel caso, il solo fatto che l’idea di “casa” è sia sulle tele che nei film di Lynch quanto di più lontano c’è da un posto dove possiamo sentirci al sicuro, porta lo spettatore, e in particolare il visitatore di The Air is on Fire che qui vi riferisce, a tutta una serie di aperture di senso, oltre a suonare come una gigantesca – se non planetaria, vista la portata universale che la televisione e internet hanno conferito all’obsoleto “hic et nunc” – presa per il culo, che però, in qualche modo, fa accapponare la pelle.

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