Ice Man

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di Mauro Baldrati

Vecchio.
Sì, un tempo ero reticente a pronunciare questa parola, se riferita a me stesso. E’ difficile accettarsi come vecchi, quei personaggi sfiniti, senza più un futuro, che i ragazzi chiamano vecchi: “davanti a me c’era un vecchio…”
Essere un vecchio è l’anticamera della fine, è il non-essere e il nulla.
Eppure è questo che sono, a 82 anni: uno che si sta avviando con passo veloce e inesorabile verso la fine.
Sono vecchio, ma non mi lascio andare. Almeno finché avrò forza e lucidità. Se le perderò, allora spero che tutto accada in fretta. Non voglio bava alla bocca, mani umidicce che tremano, pelle grigia macchiata sudata e puzzolente. Uno come me non può pregare, nessun dio l’ascolterebbe; eppure prego qualcosa, qualcuno, il cielo, l’aria, il sole, la buonanima di mio nonno, di risparmiarmi questo triste destino.
Soldi, ne ho da parte. Un bel gruzzolo. Potrei quindi incaricare qualcuno di farla finita, se dovesse arrivare la lunga agonia. Un colpo alla nuca e via. Già, ma chi? I miei compari e amici sono tutti andati. Ormai sono fuori dai giri, non conosco nessuno, non vedo nessuno da… da quanto? Anche la nozione del tempo è andata. Direi dieci anni, ma forse sono quindici, o venti.
Ma ho fiducia, ho sempre avuto fiducia. Talvolta penso di essere protetto, che il male mi eviti, che giri al largo da me. D’altro canto non è singolare che uno come il sottoscritto non abbia mai fatto neanche un giorno di galera? Ci deve essere un angelo, del male forse, o della desolazione, che veglia su di me.
Dicevo che ho un bel gruzzolo da parte, che un giorno non avrà eredi: nessun figlio, o moglie, o nipote. Nessuno, sono solo al mondo. L’ho voluto io e ora è inutile pentirsi, o piangere. Inutile e ridicolo.
Eppure il mio gruzzolo, che potrebbe bastare per garantire una vita agiata a una persona giovane, a quella persona, forse avrà un erede, se riuscirò a concatenare gli eventi e a superare i problemi pratici. Sarebbe facile dirle, semplicemente: posso consegnarle il mio gruzzolo? Ma lei direbbe: Che gruzzolo? Perché? Mi prenderebbe per pazzo, si spaventerebbe, probabilmente chiamerebbe la polizia.
La polizia. Sarebbe oltremodo buffo. Dopo sessant’anni di impunità arriverebbe la polizia a indagare. Magari la Guardia di Finanza. Non riuscirei mai a giustificare il mio gruzzolo. Mi torchierebbero, scaverebbero nel mio passato, o meglio, troverebbero il mio passato, visto che gran parte l’ho falsificato, e mi sbatterebbero dentro. Oppure no, questo no, perché ho sentito dire che dopo gli ottant’anni nessuno va più in galera. Quindi sarei in galera per principio, come idea, ma fuori. Nella mia galera privata, quella della vecchiaia.
Questo si dice, che essere vecchi è come vivere in galera e la prigione è il proprio corpo sofferente, stanco, gonfio. Io non la penso così. A parte il braccio sinistro, che coi cambi di stagione mi tormenta, sto abbastanza bene. La frattura mi manda dolori lancinanti, anche perché nella clinica di Nizza, dove andavamo noi genovesi feriti o malandati, forse non hanno fatto un buon lavoro. Avevano sempre fretta con quelli come noi, perché rischiavano grosso, e il mio braccio era stato sbriciolato dalla pallottola calibro nove parabellum. Quindi l’hanno rappezzato alla meno peggio. E dopo un mese mi sono tolto il gesso da solo, in un covo, con un seghetto. Era così a quei tempi, ci si arrangiava.
Ed ora eccomi in fila allo sportello della banca, un po’ curvo, piegato dal peso proprio del mio corpo, dal cappotto di cashmere, dal cappello Stetson, dalla mia storia, dalle mie fughe; vorrei mollare tutto e andare a casa, stendermi sul divano, accendere quella maledetta tv che non ho mai guardato in vita mia ma che ora sembra diventata indispensabile nella scansione della mia esistenza. E lasciarmi andare del tutto, abbandonarmi all’inedia; sarebbe davvero l’anticamera della fine. Invece sto ancora lavorando. Devo portare a termine questa ultima operazione, è l’obbiettivo finale che mi sono dato.
La banca come al solito è affollata. Sono sempre piene di gente queste banche moderne. E sono tante. Si sono decuplicate, centuplicate, e nonostante tutto sono strapiene. Bisogna sempre mettersi in coda. E’ un segno dei tempi. I soldi girano, una montagna di soldi.
La mia deformazione professionale mi spinge a guardarmi in giro, le telecamere, il poliziotto privato, anche se una rapina al giorno d’oggi mi sembra difficile. Tutto avviene coi bonifici, le carte di credito, e le banconote di un tempo – fasci di banconote da centomila che ficcavi in borsa mentre il tuo compare armato di mitra urlava come un pazzo – sono rinchiuse nei caveau. Le rapine oggi sono per i disperati.
Comunque io mi sono ritirato in tempo. Sono tornato nella mia città, Genova, dove ho ripreso la mia vecchia, vera identità, dopo averne cambiato almeno dieci, in giro per l’Italia e per l’Europa, in attacco, o in fuga, nascosto nell’ombra, o alla luce del sole, mentre mi divertivo e spendevo montagne di soldi in fesserie e smargiassate. Ora sono pulito, perché ho agito bene, con lungimiranza. A differenza dei miei compari, che pensavano solo al presente, io mi preparavo il futuro. Così, mentre facevamo le rapine, le truffe, i furti, e facevamo lavorare le ragazze squillo, io mantenevo attiva la mia azienda di commerciante di spazzole. Era tutto fasullo ovviamente, ma avevo una contabilità e fatturavo all’estero, così potevo riciclare i soldi delle rapine. A quei tempi nessuno controllava le fatture internazionali, erano di aziende francesi e spagnole, alcune esistenti, altre inventate, organizzazioni sotto copertura che servivano unicamente per riciclare il denaro. Eppure i contributi li ho pagati e la mia pensione è regolare. Certo, il mio demiurgo ha piedi d’argilla e una indagine approfondita porterebbe alla luce il nulla, ma chi farebbe una indagine approfondita su un pensionato di 82 anni?
La fila va avanti, sono quasi a tiro. Sono stanco, stare in piedi mi mette in difficoltà. Eccola: com’è bella, raffinata, e dolce. Ha un viso ovale pallido, algido, incorniciato dai capelli ramati. Ormai non penso ad altro: non penso che a lei, e a come comunicarle il mio messaggio: posso consegnarle il mio gruzzolo, signorina? Posso consegnarglielo senza che si spaventi, che si insospettisca? Senza che lo rifiuti?
Non è così semplice consegnare dei soldi a qualcuno. Scattano difese, sospetti. Chi sei tu? Perché vuoi darmi i soldi? E soprattutto cosa vuoi in cambio? La donazione è inquietante, è spiazzante. Io ho già dato soldi alla sua famiglia, per anni, ma erano buste anonime che arrivavano per posta, con dentro le banconote. Non posso usare questo metodo con una somma che sfiora i due milioni di euro. E poi lei… lei senza sapere che soldi sono, e chi li manda, lei li rifiuterebbe. Lo so, lo intuisco dai suoi occhi nocciola, limpidi, sereni.
E’ arrivato il mio turno ora; le sono di fronte e mi appoggio tremebondo al banco della cassa. E’ l’emozione che mi taglia le gambe, che mi fa respirare con affanno. Curioso, io che sono sempre stato famoso per il sangue freddo. Per questo ero il capo della banda. Durante i colpi tutti guardavano me, aspettavano i miei cenni di comando. Se io ero tranquillo, tutti erano tranquilli.
Lei sta scrivendo al computer, mi rivolge un sorriso e dice “scusi un attimo”. Sono contento, perché l’emozione mi impedirebbe di parlare. E’ la prima volta che le sono di fronte, anche se l’ho osservata a lungo, per settimane, per mesi, quando entrava e usciva dalla banca. So tutto di lei: conosco lo scatto del suo corpo, la fiducia che ha nella vita, la voglia di fare le cose bene, di farle giuste, pulite, chiare, come i suoi occhi.
Sto idealizzando? Forse. Io, che ero soprannominato Ice Man perché ero freddo, determinato, calcolatore, anche quando ero pieno di droga, sto facendo di questa ragazza una creatura pura e incontaminata. Deve essere la vecchiaia. Dicono che torniamo bambini, ragazzini; dicono che diventiamo sentimentali.
“Mi scusi” dice nuovamente distogliendo gli occhi dal monitor, “cosa desidera?”. Mi fissa incuriosita, perché le sono di fronte immobile, inclinato, con un’aria persa. Ma sorride paziente. Sta interagendo con un vecchio che forse è un po’ svanito, ci vuole disponibilità, tolleranza.
Da dove viene la luce che vedo nei suoi occhi nocciola? E la fiducia nella vita? Eppure non deve essere stata facile la sua vita. Una vita senza padre, piena di difficoltà e di affetti spezzati. E vorrei dirglielo, vorrei gridarglielo, gettarmi ai suoi piedi e dirle chi sono.
“Signore?” dice, dissimulando un lieve imbarazzo. “Tutto bene? Vuole sedersi un attimo?” e indica un divano posto a lato della cassa. “Si riposa un po’, intanto io sbrigo la pratica del prossimo cliente e lei non perde il posto nella fila”. Sento un certo nervosismo alle mie spalle, la gente preme, si irrita per questo rimbambito che fa perdere tempo.
“Oh, no signorina, grazie” dico, e sento la mia voce tremante, adeguata al mio status di vecchio esausto, schiacciato dal peso della vita che corre e non l’aspetta. “Io vorrei… aprire un conto corrente”.
“Certo” dice. “Ci sono vari tipi di conto. Abbiamo quello per la terza età, una promozione. Lo conosce?”
“No” dico, “ma va benissimo. Apro quello”. Va bene qualunque tipo di conto, purché sia lei a propormelo. E mentre inizia a spiegarmi le condizioni, e noto la cura che mette nell’esposizione, la precisione, e la fiducia, sì, la fiducia che ripone nella materia del suo lavoro, arriva: uno sbocco violento di emozioni che fanno sgorgare le lacrime dai miei occhi. Piango, in caduta libera verso il vuoto. Lei si alza in piedi, dice con voce dolce “la prego signore, si sieda qualche minuto. Si riposi. E’ stato a lungo in fila. Tengo la sua pratica aperta”.
Così mi siedo sul divano, dopo avere captato qualche occhiata di commiserazione, ma anche di irritazione delle persone in fila dietro di me.
Lei mi sorride di nuovo, annuisce col capo per rassicurarmi intanto che mi asciugo gli occhi col fazzoletto. Non smetto di guardarla mentre si sta occupando del cliente che era dopo di me.
Ed ora vorrei dirglielo forte e chiaro. Vorrei alzarmi in piedi e gridarlo a tutti, come gridavo quel giorno, strafatto di anfetamina: “mi vede, signorina? Sa chi sono? Io sono quel rapinatore che ha ucciso suo padre. Sì, sono io. Lei aveva cinque anni. Scrissero i giornali: cassiere di banca assassinato dai banditi durante una rapina. Io sono quel bandito. Un vecchio, malinconico, ricco bandito solo al mondo. Ed ora lei ha preso il suo posto. L’hanno scritto le pagine locali dei giornali, un anno fa: la figlia del cassiere assassinato prende il posto del padre. Sì, non avrebbe fatto notizia la sua assunzione in banca, non fosse per il fatto che l’ha assunta la banca dove lavorava suo padre e lei occupa la sua stessa postazione. Un spunto per scrivere il solito articolo curioso, un po’ scandalistico. C’era anche la sua foto. L’ho guardata a lungo, con emozioni contrastanti, come guardai quella di suo padre, nel 1987. A quei tempi non ero né addolorato né sentivo rimorso. Non mi rendevo conto. Forse ero solo stordito. Troppo cruenti erano i fatti, e convulsi gli eventi. L’avevo ucciso. Era nello stato delle cose. Lasciava, scrivevano i giornali, moglie e una figlia di cinque anni. Lei.
Mi lancia di nuovo un’occhiata, mi rivolge un lieve sorriso. Ed io vorrei dirtelo, vorrei pregarti di ascoltarmi. Ero io quel giorno. Doveva essere la nostra ultima rapina. Io avevo già sessant’anni ed ero strafatto di anfetamina. Prendevo sempre l’anfe prima di un colpo importante. E’ una droga che non ha i cali improvvisi della coca, non ti lascia a terra. L’anfe regge per ore e ore ed io avevo bisogno di quella tensione, di quella lucidità. Però il pericolo dell’anfetamina è che, se intervengono fattori destabilizzanti, o di confusione, può fare andare fuori di testa. Io non ricordo cosa sia accaduto esattamente, però ero molto teso, sapevamo che c’erano montagne di soldi in questa banca, ed eravamo nervosi, anche perché qualche passante si fermava e guardava dentro, come se avesse visto qualcosa di strano. Sotto la calza di nylon io respiravo male, volevo strapparmela via, farla a pezzi. Urlavamo minacciosi, come sempre, per spaventare le teste calde, quelle che, sempre, cercano di ribellarsi, di fare gli eroi. Non so cosa ho visto. Quel cassiere ha fatto un gesto brusco, forse si è alzato in piedi o ha cercato di parlarmi; per un attimo tutto si è confuso, offuscato, ho vacillato, mi è mancata l’aria. Ho sparato, il mio dito si è contratto sul grilletto in un momento di paranoia assoluta. L’ho colpito in pieno petto, si è accasciato in un lago di sangue. Non ci credevo, non riuscivo a rendermi conto fino in fondo di ciò che era accaduto. Eppure sono riuscito a non perdere il controllo. Non avevo mai ucciso nessuno, mi consideravo un ladro e un rapinatore e un magnaccia gentiluomo, uno che rispettava il codice d’onore, uno che non rubava ai poveri. Uno che non commerciava in droga, che non si accordava coi boia mafiosi. Era giusto rubare alle banche, perché erano organizzazioni dedite al furto legalizzato. Forse erano tutte giustificazioni, però una parte di me ci credeva e in quegli anni era ancora possibile questo tipo di mentalità. Ma ora avevo ucciso, e l’avevo fatto senza un motivo reale.
Ed ora eccomi qui. E tu sei cresciuta. Sei una ragazza bellissima e voglio che tutto ciò che mi resta sia tuo. Ho notato che al dito hai un anello con un brillante. E’ un anello di fidanzamento. Voglio che tu e il tuo fidanzato, che forse sarà il tuo futuro marito, il padre dei tuoi figli, abbiate una vita serena, che non dobbiate lottare contro il mondo come forse ha lottato tua madre, anche se ogni mese le spedivo la busta coi soldi. Voglio che ti butti alle spalle la solitudine che ti ha perseguitata, da bambina. Perché io l’ho visto, nei tuoi occhi nocciola, il riverbero di quella solitudine.
Ora il cliente ha finito, mi sorridi, dici “signore, vuole provare…” Mi alzo, torno allo sportello. Firmo dei documenti. Trasferisco tremila euro da uno dei tre conti svizzeri che custodiscono il gruzzolo. Tutto questo un giorno, un giorno vicino, deve essere tuo. Ora so come farmi accettare. Farò il pazzo. Sì, sarò un pazzo solo al mondo che si è innamorato di te. Mi farò trovare all’uscita della banca, mi getterò ai tuoi piedi, ti dichiarerò il mio amore eterno e incondizionato. Sarò un vecchio delirante, un ex commerciante di spazzole fuso e scoppiato che ha perso la testa per una ragazza di venticinque anni. Scoppierò in lacrime. Ti molesterò. Ma sarò garbato, cercherò di non spaventarti, ma solo di intenerirti, di farti provare pietà. La gente riderà e tu avrai pietà di me, così mi conoscerai, e mi accetterai.
Potrò intestare a te i conti svizzeri, sarà il regalo d’amore di quel tipo strambo che ti aspettava all’uscita, timido e tremante, che sospirava e si struggeva di amore senile per te.
Sarà il suo testamento, l’ultima stramberia di quel vecchio elegantone che ti fissava con gli occhi liquidi, sempre pieni di lacrime.

(Tratto dall’antologia: “Attenzione! Uscita operai”, No Reply, 2007. Immagine: Gene Hackman in “Il braccio violento della legge”, di William Friedkin, 1974)

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8 Commenti

  1. che duro Gene Hackman
    per fare quelle parti ci vuole una “faccia”così, e gli anni giusti…
    è triste però, pensarci.
    la durezza di solito nasconde il più tenero gheriglio

  2. Bel racconto,Baldrati,e bello anche,pur nella sua malinconia,il tema della vecchiaia. Un tema che da giovani quasi non ci tocca ma che poi,con gli anni che avanzano,si fa sentire e ci invita a molte riflessioni.
    Volendo,con codardia,tralasciare i problemi di salute,forse la vecchiaia è totale rinuncia a un ultimo,possibile,sogno.

    Grazie anche a te,Franz,come sempre.
    jolanda

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