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La vita degli altri

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di Franz Krauspenhaar

Jose Ovejero è nato a Madrid e vive a Bruxelles. Uno scrittore ormai esperto (è nato nel 1958) che ha molto viaggiato, che ha preferito nutrirsi di culture diverse. Di professione giornalista e interprete, Ovejero ha vissuto a lungo in Germania, un paese che fa della tradizione il basamento indispensabile proprio di quei cambiamenti che sono diventati suo marchio di fabbrica onnicomprensivo. Mente aperta alle differenze, lo scrittore spagnolo ha viaggiato in tutto il mondo; quello del viaggio è carburante importantissimo per chi ha deciso di muovere i suoi passi nel mondo della letteratura narrando storie. La poesia può nutrirsi di una “stanza tutta per sé”, come quella situata nella Amherst di Emily Dickinson. La poesia si nutre di se stessa proprio perché fatta, spesso, di quella sostanza immateriale che sono i sogni e le fantasie più sfrenate.
Ma per un narratore è diverso. E allora viaggiare, sostare in posti alieni o soltanto altri, mischiarsi se possibile al popolo assumendone gli umori buoni e anche cattivi, diventa necessario. Lo scrittore vive da tempo in Belgio, un paese di crinale, tra nord e sud d’Europa. Una specie di Europa miniaturizzata. Tranquillo in apparenza, ma pieno di fermenti, frutto di robusti compromessi storici, culla di secondogenitura di due etnie ben differenti che – a volte con cocente difficoltà – convivono. Il Belgio è il pays plat cantato da Jacques Brel, è la terra dei ciclisti dai nomi impronunciabili, è il paese di Simenon e del suo “Pedigree”, è il paese della Venezia del nord, Bruges, sorta di città cattedrale sull’acqua, è il paese delle miniere e delle case dei minatori affastellate una dietro l’altra, come in un romanzo di DH Lawrence, è il paese della CEE, e dunque è in qualche modo la culla dell’Europa che tenta ancora di diventare adulta.
In questo calderone d’esperienze lo scrittore ha ambientato questo suo ambizioso romanzo, La vita degli altri , Voland pagg. 374 euro 16.00. Complesso e allo stesso tempo di facile lettura, un romanzo sugli uomini, sulle loro passioni. Attorno a un industriale belga, Lebeaux, che si fa ricordare per le accensioni del suo temperamento, per il disegno di complessità caratteriale che ci rende l’autore, si muovono altri personaggi provenienti da varie classi sociali, che in un modo o nell’altro ne vengono a contatto. Quello che Ovejero vuole mostrare è una storia inserita nella propria complessità, perché –sembra dirci – la storia è sempre un annodarsi di fili che poi si slacciano e si riallacciano. La storia delle persone, questa “vita degli altri”, è un insieme senza fine di cause ed effetti, è bene e male che si mischiano in un cocktail ad alta gradazione. Spiare la vita degli altri, tentare di manipolarla, entrarvi a viva forza, o in punta di piedi con le armi felpate del ladro di occasioni; ecco cosa fanno spesso le persone. Per acquistarne vantaggi materiali e morali, per difendersi, per entrare in comunicazione, per migliorare. Le relazioni, sembra dirci Ovejero, sono imprevedibili: davanti alla nostra vita che entra in relazione con quella degli altri, le convenzioni più granitiche possono cadere, l’imprevedibilità è aleggiante sempre e comunque, la sorpresa sosta ad ogni angolo di strada. Lo sgambetto, l’abbraccio, il colpo di mano a tradimento, il bacio riconciliatore; non è epopea della normalità, questa, ma osservazione entomologica, quasi, del vivere umano. E allora, le vicende di Lebeaux, del suo fido avvocato Degand, personaggio che inquieta, del robivecchi Claude e della moglie parrucchiera Marlene, e di vari altri, installati in una Bruxelles nemmeno triste, quasi sfavillante, anzi, diventano, pur nella loro eccezionalità e nelle loro sorprese e colpi di scena, vicende a loro modo esemplari. Ovejero è abile nel tessere la sua tela di realismo, e leggendolo non si può non pensare a una sorta di naturalismo attualizzato, come se Emile Zola si fosse svegliato oggi e avesse ripreso a scrivere, con la sua penna raffinata e tesa al racconto più che al disegno.
A Zola lo scrittore spagnolo può essere apparentato anche per la costruzione a intrecci vorticosi, che sarà poi portata alle estreme conseguenze da Dos Passos nel suo Manhattan Transfer, capolavoro del Modernismo: da un nucleo si dipanano le storie di tanti personaggi che entrano, escono, rientrano nel palcoscenico costruito dall’autore, per poi a volte uscire definitivamente. Ovejero racconta l’oggi, questo nostro mondo capitalistico del secondo millennio, che ha assorbito – dai tempi di Dos Passos – molti colpi, soprattutto quelli dati da una guerra mondiale. E oggi, che si è aperta con grande fatica una nuova era di estrema confusione, lo scrittore deve maneggiare una materia sempre più scivolosa, perché le persone non sono più quelle di una volta, i ruoli cambiano, le convenzioni subiscono tremende scosse di terremoto, e tutto si mischia sempre più velocemente. Ecco, un romanzo come questo, oltre a rappresentare una lettura piacevole, perché l’autore si serve di uno stile scabro ma anche ricco di rifrazioni, e sa usare i dialoghi come un provetto sceneggiatore (e l’andamento delle scene molto ci ricorda l’avvicendarsi delle sequenze di un film) è anche un oggetto di conoscenza, insomma può servire al lettore per ispezionare la realtà, per trovare conferma di certe intuizioni, per trovare, perché no, delle risposte.

(Pubblicato su “Queer” – supplemento domenicale di Liberazione, il 23.12.2007)

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11 Commenti

  1. Trovo l’idea dello scrittore viaggiatore interessante. Per il Belgio, è un paese deprimente, triste, senza carattere: un orizzonte marrone, lungo.
    Forse il mare tiene il suo incanto marino grigio.
    La brutezza del paesaggio inciampa l’ispirazione.
    Ammiro molto Simenon che ha riuscito a creare un universo di nebbia, di del fermento glauco del crimine.

  2. Fran un bella recensione. Il Belgio, come dice Veronique , non mi pare un posto allegro, ma non conta. Lo scrittore è uno interressante. Ci vorrebbe una vita di scorta solo per leggere.

  3. Dimenticavo di dire, nella recensione, che i belgi sono gli automobilisti più imbranati e indisciplinati d’Europa, che in Belgio fanno una quantità smodata di birre e di cioccolata dei tipi più vari, che le cialde (gauffres) sono favolose, che le patate fritte che ho mangiato in Belgio non le ho mangiate da nessun altra parte. Il Belgio a mio parere ha uno strano fascino, il fascino dell’indistinto, dell’immutabile, del piatto e sempre uguale, dello squallore gentile e moderato.

    Buona notte e grazie a voi.

  4. Per cioccolata è vero, come sono golosa, quando ero stata in Belgio, ho comprato cioccolata. La birra è famosa e nel mio bar preferito a Amiens la gusto ma… L’universo che circonde il viaggiatore in Belgio è deprimente o forse il mio corpo non va con questo paesaggio. E le patate fritte, non posso le vedere, perché vedo troppo i camion pieni di patate nella campagna, quando va alla scuola e mi fanno perdere pazienza.
    Qualcuno vuole condividire una birra con me?

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