Le città visibili

Spazi urbani in Italia, culture e trasformazioni dal dopoguerra a oggi
[Le città visibili è una raccolta di saggi di studiosi inglesi (o italiani che hanno studiato e lavorano in Gran Bretagna), che parla dell’Italia da vari punti di vista – architettura, storia, letteratura, cinema, società. Uno sguadro che, data la distanza, pare mettere meglio a fuoco la nostra nazione. Il libro è molto bello, forse troppo sbilanciato sull’asse Milano-Torino, ma con intuizioni lucide di vero interesse per tutti noi.
Ho chiesto a John Foot (uno dei due curatori, insieme a Robert Lumley) il piacere di pubblicare qui su NI l’introduzione del volume da poco edito da Il Saggiatore. G.B.]

le_citta_visibili.jpg di Robert Lumley e John Foot

La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesilea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire: «Qui», oppure: «Più in là», o: «Tutt’in giro», o ancora: «Dalla parte opposta».
– La città – insisti a chiedere.
– Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine – ti rispondono alcuni, e altri: – Noi torniamo qui a dormire.
– Ma la città dove si vive? – chiedi.
(Italo Calvino)

Prima di descrivere Pentesilea a Kublai Khan, Marco Polo prevede quello che il suo ascoltatore si aspetterà di trovare all’ingresso della città: una cinta di mura, una porta, gabellieri; «Fino a che non l’hai raggiunta ne sei fuori; […] il suo spessore compatto ti circonda; intagliato nella sua pietra c’è un disegno che ti si rivelerà se ne segui il tracciato tutto spigoli». Ma, continua, «se credi questo, sbagli». Pentesilea non ha né inizio né fine, non c’è distinzione tra dentro e fuori, e per questo non si sa quando ci si sta arrivando e quando invece la si sta lasciando.
Anche la «gente che s’incontra» (si noti che il testo evita di usare il termine «abitanti») è smarrita o incapace di decidere che cosa definisce il «suo» spazio. Dorme o lavora lì, ma dove vive la gente nel senso più stretto del termine? Le esplorazioni del narratore non conducono da nessuna parte: «ogni tanto ai margini della strada un infittirsi di costruzioni dalle magre facciate, alte alte o basse basse come un pettine sdentato, sembra indicare che di là in poi le maglie della città si restringono». Invece, ci sono «altri terreni vaghi, poi un sobborgo arrugginito d’officine e depositi, un cimitero, una fiera con le giostre».
In questo racconto, uno dei più affascinanti delle Città invisibili, Italo Calvino mette in rilievo, e al tempo stesso in dubbio, la possibilità di classificare e dare un nome alle cose. La situazione sopra descritta può evocare l’esperienza di qualcuno che si perde in una periferia infinita, ma può riferirsi anche alla ricerca di un geografo o di un etnografo che voglia leggere i segni spaziali dell’identità urbana. Gli interrogativi formulati dal personaggio possono valere sia per il viaggiatore che per il ricercatore. Le risposte, però, conducono solo ad altre domande, tra cui: «Che cos’è una città?». Appare chiaro che le vecchie certezze fondate sull’idea che siano le mura e le leggi a definire una città oggi non sono più pertinenti. Ma allora che cosa rimane? È il problema che affligge Marco Polo, Kublai Khan, Italo Calvino e il lettore delle Città invisibili. Un problema che è stato al centro di dibattiti nel campo della sociologia, degli studi urbani, dell’architettura e della geografia, e a cui è legata la pubblicazione di una considerevole mole di testi in Italia e nel resto del mondo.
La semplicità delle domande poste da Calvino ne nasconde la natura radicale. Come scrittore e intellettuale, Calvino era profondamente consapevole dei dibattiti a lui contemporanei, che nell’Italia degli anni sessanta giunsero a conclusioni estreme. Il fatto che Le città invisibili sia diventato un testo di culto per gli architetti e gli urbanisti oltre che per i critici letterari è sintomatico della risonanza di tali dibattiti. In questo volume, Le città visibili, non viene offerta un’unica definizione di città che trovi unanimi tutti gli autori; come suggerisce il titolo, si intende invece proporre una dimensione di apertura a diverse idee di soggetto, costruzione e immaginario. Questo taglio metodologico è particolarmente evidente nei contributi dedicati all’appropriazione letteraria e cinematografica della città, ma emerge anche in quelli dedicati alla trattazione dell’architettura dei grattacieli e alle proposte di «riimmaginare» la città che hanno un impatto diretto sull’ambiente costruito. Più che l’oggetto dell’analisi, che sia un film o un edificio, conta come un particolare fenomeno viene analizzato. Da questo punto di vista, il libro è sistematicamente interdisciplinare e fa dialogare approcci sviluppati in campi diversi come la storia sociale, la storia dell’arte, l’antropologia, gli studi letterari e cinematografici, l’architettura, l’urbanistica e la sociologia. Allo stesso tempo, è suddiviso in aree tematiche più ampie. Questa introduzione si propone di dare «indicazioni» su come accostarsi alle differenti sezioni e di mostrare come esse costituiscano un insieme organico. Alcuni contributi affrontano più esplicitamente questioni teoriche e metodologiche come la categorizzazione e l’analisi.
Apre il volume «Attraverso lo specchio. Studi e ricerche sulla città italiana contemporanea (1973-2002)» di Sergio Pace, che traccia una rassegna panoramica delle più rilevanti pubblicazioni italiane sul tema degli ultimi anni e fornisce, nel ricchissimo apparato di note, un utile strumento per orientarsi nella bibliografia sull’argomento. Il contributo che chiude il volume, «Adriati-città. Un paesaggio postindustriale» di Pippo Ciorra, apre invece uno squarcio su un futuro urbano in progress.
Pace analizza il particolare rapporto esistente tra le città italiane e una specifica tradizione di studi dedicata a esplorarne e celebrarne la peculiarità, le origini e l’unicità: la «biografia urbana», un genere importante per la storia delle identità civiche (e alimentato dalle pubblicazioni di università e piccole case editrici) che presenta, però, evidenti limiti metodologici. Più interessante, per quanto sotto altri aspetti problematico, è l’affacciarsi, sulla scena degli studi urbani, di un approccio interdisciplinare. Qui Pace distingue tra gli urbanisti per caso, per i quali la città rimane in secondo piano rispetto all’oggetto di indagine (un evento storico o un problema sociologico), e gli urbanisti per natura, per i quali lo spazio urbano costituisce l’oggetto preciso di analisi. Per Pace, alcuni degli studi più stimolanti, come quello di Cesare de Seta su Napoli o quello di Sandro Portelli su Terni, appartengono a quest’ultima categoria e si fondano su una solida base storica. Al contrario, l’autore è scettico riguardo a quelle correnti di pensiero, prevalenti tra sociologi e architetti, che trascurano la storia urbana e l’indagine dell’ambiente costruito a favore di letture soggettive dell’ambiente urbano in cui tutto diventa virtuale. Nuove direzioni di ricerca vengono additate anche dai paesi anglofoni, dove sono saliti alla ribalta degli studi temi come la razza, il genere sessuale, lo spazio pubblico e il significato della cittadinanza. Pace osserva che in Italia si rileva una certa riluttanza ad affrontare questo tipo di problemi. Una riluttanza di cui, nelle pagine di questo libro, non c’è traccia.
«Adriati-città» di Pippo Ciorra chiude Le città visibili presentando una delle più recenti declinazioni della «città»: la «città-rete». Ciorra propone un’analisi che combina la macrocategoria «conurbazione» sovraregionale (in questo caso l’Adriati-città) con la microanalisi dell’unità abitativa chiamata Hotel House, un condominio di lusso la cui breve storia riassume i grandi cambiamenti che hanno portato le seconde case degli italiani a diventare prime case per gli immigrati. Per i nuovi abitanti, che considerano inutili gli spazi pubblici predefiniti del condominio, il vero spazio pubblico è la spiaggia. È il modello del sistema aperto che si contrappone al sistema chiuso della città. Secondo Ciorra, può essere un buon tema di riflessione per chi voglia ragionare sulla questione delle nuove condizioni della vita urbana, sull’intreccio di rapporti fisici e immateriali tra i luoghi e le persone, sulla necessità di far corrispondere alla stratificazione delle identità dei gruppi sociali non un sistema forma identità chiuso e definito, come nella città storica, ma uno spazio aperto e flessibile, preparato ad accogliere e interagire con linguaggi, sistemi espressivi e identità diverse.

Seconda parte: L’immigrazione: città vecchie, identità nuove

Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche – e soprattutto – a coloro che sono reciprocamente estranei e tali vogliono rimanere.
(Jürgen Habermas)

Tra il 1958 e il 1962 nella sola Milano arrivano da altre parti d’Italia circa 350mila persone, l’equivalente della popolazione di una città come Bari. Nei due decenni precedenti il 1971, la popolazione della provincia di Milano aumenta di 600mila persone, un incremento del 25 per cento; si potrebbero fornire cifre ugualmente impressionanti per Torino e altri centri industriali. Il censimento del 1992, però, registra un nuovo tipo di emigrazione: lo stanziamento in Italia di persone provenienti da altri paesi. Pur costituendo, secondo le stime, solo il 2 per cento della popolazione (una percentuale bassa in confronto a quella di paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna), questi immigrati rappresentano un cambiamento demografico epocale: non solo l’Italia ha cessato di «esportare» persone dall’altra parte dell’Atlantico e nel Nord Europa, ma è diventata un paese «importatore». Il «miracolo economico», con la sua massiccia ondata migratoria interna, ha rappresentato un grande cambiamento per città come Milano e Torino, ma l’arrivo, pur numericamente meno significativo, di stranieri viene percepito come fonte di difficoltà maggiori. Sono questi cambiamenti demografici e la loro realtà vissuta a costituire il tema centrale della seconda parte di Le città visibili.
Gli operai dello stabilimento Om di Milano chiamavano gli immigrati «la legione straniera», un soprannome allo stesso tempo affettuoso e sprezzante. Assunti giorno per giorno come manovali generici davanti ai cancelli della fabbrica con una modalità che ricordava il reclutamento dei braccianti del Sud, gli immigrati subivano discriminazioni razziali e abusi. Tuttavia, la descrizione che fa Gianfranco Petrillo degli anni cinquanta e sessanta è sostanzialmente una storia di integrazione riuscita, nonostante le differenze linguistiche e culturali esistenti tra milanesi e migranti. In particolare, Petrillo dimostra come Milano, per la complessa e multiforme struttura socioeconomica e la mobilitazione delle organizzazioni della società civile (sindacati, partiti di massa, la Chiesa), sia stata in grado di rispondere in maniera positiva all’immigrazione. Attraverso la creazione di una rete di interessi e appartenenze comuni con i nuovi arrivati, infatti, è stato possibile dare vita, sia dall’alto (le opere di carità) sia dal basso (le lotte operaie), a un senso di solidarietà e un’identità collettiva tra milanesi e migranti. La storia della reazione all’arrivo dei «nuovi immigrati» degli anni novanta è piuttosto diversa: Petrillo arriva a suggerire che sia stata proprio l’esperienza degli immigrati della prima ondata ad alimentare la conflittualità anziché suscitare in loro un senso di empatia nei confronti dei loro successori stranieri. In un contesto postfordista e di frammentazione sociale, tendono a prevalere atteggiamenti e politiche dichiaratamente opposti all’integrazione. La storia e la memoria spesso diventano solo fardelli da accantonare o di cui bisogna disfarsi.
Se Petrillo si concentra su come la società ospite abbia reagito all’immigrazione e ne traccia un panorama a vasto raggio, il saggio di John Foot sulle coree adotta un approccio microstorico centrato sulla strategia e le scelte degli immigrati. Infatti, esistevano diversi tipi di coree (un fenomeno che riguardava decine di migliaia di persone nell’area milanese), con un unico elemento in comune: si trattava di agglomerati urbani di case costruite dagli immigrati stessi. Come indica il titolo del saggio, «Dentro la città irregolare. Una rivisitazione delle coree milanesi, 1950-2000», l’analisi ha confini spazio temporali ben definiti.
La posizione di Cerchiarello (di cui si propone uno studio approfondito), che sorge su un terreno a metà tra città e campagna, di fianco a un’autostrada e a una raffineria, e la morfologia stessa del «villaggio» e delle sue abitazioni sono legate alla marginalità degli immigrati e alla loro aspirazione a ricreare una comunità, a sentirsi a casa. La misura del passare del tempo è data dalla costruzione delle case, che è graduale, e dai cambiamenti d’uso, che riflettono l’alternanza generazionale e l’invecchiamento degli abitanti originari. La chiusura della raffineria negli anni ottanta e l’arrivo di nuovi immigrati riecheggiano i cambiamenti descritti da Petrillo. L’uso di album fotografici e di interviste registrate evidenzia le qualità specifiche di «luogo» di un fenomeno spesso archiviato come un segno di arretratezza e povertà.
Nel suo contributo su San Salvario, un quartiere centrale di Torino, Laura Maritano analizza il discorso dei membri del Comitato Spontaneo locale per mostrare come gli immigrati stranieri vengano dipinti come elementi pericolosi all’interno della città, forze estranee che devono essere respinte. Il riferimento del Comitato al territorio è letto come il riemergere di un certo essenzialismo culturale legato alla rinascita del nazionalismo storico. Inoltre, è netta la contrapposizione tra una Torino ideale – una città d’arte, di decoro e di vita familiare – e l’immagine di una città contaminata dallo sporco, dal disordine e dal crimine. L’impegno nel Comitato Spontaneo di un ex membro del Partito comunista e il riferimento alla sua esperienza personale di immigrato negli anni sessanta, adotto a giustificarne l’atteggiamento discriminatorio anziché ispirato alla volontà di accogliere i nuovi arrivati, sono un utile corollario delle osservazioni di Petrillo su Milano.

Terza parte: Rinnovamento urbano e modernità problematica

Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri.
(Tommaso Marinetti)

Perché le città sono tanto importanti? Per prima cosa, ci forniscono lo spazio pubblico senza il quale, in questa epoca di telecomunicazioni, la vita pubblica sparirebbe. Il paradigma dello spazio pubblico è la piazza: senza di essa, la città non esisterebbe.
(Richard Rogers)

Nell’Introduzione all’edizione del 1980 del suo celebre Architettura della prima età della macchina, Reyner Banham rivolge lo sguardo al passato, agli anni sessanta:

Venti anni fa [….] molte delle convinzioni sulle quali si era basato il Movimento moderno erano ancora valide e in buona condizione, e quella che sembrava essere una seconda età della macchina, gloriosa quanto la prima, ci seduceva nei Favolosi Anni Sessanta – la miniaturizzazione, la transistorizzazione, i viaggi in jet e razzi, droghe e una nuova chimica domestica, la televisione e il computer sembravano offrire più del solito, soltanto meglio. Tutto ciò che era stato promesso dalla Prima Età della Macchina, ma non era mai stato propriamente mantenuto, sembrava ora alla portata di ognuno.

In queste circostanze Banham poteva ancora sostenere l’importanza e la rilevanza della «rivoluzione delle sensibilità» dei futuristi. Retrospettivamente, però, «l’esaurirsi di quell’entusiasmo lasciò l’International Style capriccioso e inservibile proprio come una vecchia automobile con un serbatoio che si svuota velocemente e nessuna stazione di servizio in vista».
La crisi del modernismo e l’emergere del postmodernismo costituiscono una delle chiavi di volta della periodizzazione di Le città visibili.
Il miracolo economico (solitamente collocato tra il 1958 e il 1963) rappresenta il momento di massimo entusiasmo per l’automobile (simbolo di modernità per eccellenza secondo Marinetti), la costruzione di grattacieli e infrastrutture stradali, la celebrazione del «neocapitalismo». Il grattacielo Pirelli di Gio Ponti del 1960 è considerato l’incarnazione del nuovo spirito per le sue linee geometriche nette, la sua trasparenza e l’uso di nuove tecnologie e materiali. Michelangelo Antonioni ne inserisce alcune immagini nei titoli di testa del film La notte (1960) e Reyner Banham lo elogia su Architectural Review. Torino, nel frattempo, progetta di superare la città rivale con un nuovo Centro Direzionale.
Come dimostrano i contributi «Utopie architettoniche e la “nuova dimensione”» di Mary Louise Lobsinger e «Architettura e modernità nella Milano del dopoguerra» di Arnardóttir, il decennio si aprì con una decisa affermazione del modernismo come ethos e bagaglio teorico.
Il concetto della «nuova dimensione», scrive Lobsinger, fu sviluppato da architetti e teorici in risposta a «una nuova realtà, che sembra rovesciare tutti i modelli prestabiliti nella sua “corsa sfrenata”». All’interno della «nuova dimensione», l’attenzione per le forme architettoniche e la polarizzazione tra la città nel suo intero e le varie parti che la compongono vengono messi da parte a favore di una concezione dell’architettura come «opera aperta» e della città come ambiente in divenire. Il problema, per gli architetti di idee politiche più radicali, era quello di scoprire all’interno di questo impeto di movimento e mobilità il potenziale latente in grado di dare vita a una società più giusta ed equilibrata invece di fermarlo o imprigionarlo in un progetto. Gli architetti del periodo erano affascinati dal modello dell’autostrada del Sole, che nel 1962 collegò Napoli e Milano, e da forme nuove come gli Autogrill Pavesi, che punteggiavano la nuova rete autostradale. Nella sua analisi del concorso per la costruzione di un nuovo Centro Direzionale a Torino, Lobsinger esamina le proposte presentate in rapporto a questa nuova svolta teorica prima di fornire la sua valutazione dell’importanza della «nuova dimensione» alla luce delle critiche contemporanee.
La costruzione della Torre Velasca e del grattacielo Pirelli a Milano e il dibattito che ne derivò precedono questi sviluppi. I due grattacieli appartengono a un momento in cui al centro dell’attenzione c’era ancora il singolo edificio, per quanto valutato nel suo rapporto con il contesto urbano. Tuttavia, le arene su cui si svolgeva il dibattito erano sempre le stesse: le riviste Domus, Casabella continuità e Stile Industria. Nel suo testo, Arnardóttir esamina il milieu culturale, nazionale e internazionale, che univa intellettuali, come Reyner Banham e il filosofo Enzo Paci, e architetti, in particolare Ernesto N. Rogers e Gio Ponti. È interessante notare che Rogers dirigeva Casabella e Ponti Domus.
Le argomentazioni pro e contro i due grattacieli, di conseguenza, diedero vita a un dibattito che andò ben oltre l’ambito locale. Allo stesso tempo, però, si discuteva anche su quale dei due fosse il simbolo della città e delle sue aspirazioni. Il risultato oggi è chiaro: è stato il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, e non la Torre Velasca, a diventare sinonimo della Milano degli anni del miracolo economico. L’analisi di Arnardóttir, comunque, si sofferma soprattutto sul linguaggio e le espressioni usate nel corso del dibattito, che vede contrapporsi interpretazioni diverse della modernità e del Movimento moderno.
Il fatto che la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli siano stati costruiti è, di per sé, estremamente significativo. Il Centro Direzionale di Torino non venne mai costruito. I grandi progetti di rinnovamento urbanistico furono accantonati a causa della congiuntura economica, ma anche di una crisi di fiducia. Negli anni ottanta si assistette al trionfo di idee di rigenerazione, restaurazione e conservazione: gli anni del boom venivano associati alla speculazione edilizia e alla distruzione dell’ambiente storico e naturale, come aveva denunciato Francesco Rosi nel 1963 nel film Le mani sulla città, ambientato a Napoli. La storia di Napoli e quella di Torino sono diverse sotto molti punti di vista, ma alla fine del XX secolo tra le due città sono emersi interessanti parallelismi, come illustrano i contributi di Robert Lumley e Nicholas Dines. In entrambi i casi si è cercato di inventare una nuova identità per la città, un’identità in cui risultano fondamentali alcuni luoghi della loro storia di capitali di un regno (Napoli ex capitale del regno delle Due Sicilie, Torino ex capitale del regno dei Savoia e prima capitale dell’Italia unita). Entrambe le città, inoltre, hanno proposto un nuovo rapporto tra arte contemporanea e spazi pubblici tradizionali, secondo politiche culturali influenzate da idee postmoderne.
Tuttavia, i due contributi si focalizzano su aspetti molto diversi. Per Dines, il punto privilegiato di osservazione è una piazza, piazza Plebiscito, di cui l’autore analizza la storia, la trasformazione in uno spazio pubblico contemporaneo, i diversi usi e fruitori ai quali è stata aperta e soprattutto i conflitti che hanno attraversato e definito lo spazio e il suo posto a Napoli. Lo studio dello spazio come microcosmo e l’analisi del divario tra uno sguardo «dall’alto» e uno «dal basso» sono basati su metodi etnografici. Per Lumley, il punto di osservazione è un movimento artistico, l’Arte Povera, inteso sia come momento di intensità creativa della vita culturale torinese sia come mezzo privilegiato per trasformare Torino in città d’arte. I protagonisti di questa ondata creativa furono gli artisti, mentre critici influenti, direttori di museo e autorità locali, con il loro sostegno a diverso titolo, contribuirono a istituzionalizzare il movimento con un preciso piano di ingenti stanziamenti pubblici a sostegno dell’arte. Nel caso di Torino, l’arte contemporanea è servita sia per affermare la modernità sia per recuperare un’eredità storica in un momento di crisi per l’identità e l’economia della città.

Quarta parte: Narrazioni urbane «alte» e «basse»

Al giorno d’oggi, le semplici distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, buon gusto e cattivo gusto, profondità e superficialità, avanguardia e cultura di massa, sono sempre più sommerse sotto un’ondata di connessioni, suggerimenti e significati urbani […] la conoscenza non è più monumentale e monolitica ma differenziata e nomade.
(Iain Chambers)

Gli attributi «alta» e «bassa», quando rapportati alla letteratura o alla cultura, sono quasi del tutto scomparsi dall’uso comune. I cambiamenti culturali ma anche il modo di studiare la cultura, a quanto pare, hanno avuto effetto. Al tempo stesso, però, alcune categorie di giudizio con riferimento ai valori continuano a esistere, pur essendo oggi usate tra virgolette. I tre contributi presentati nella quarta parte alludono a queste distinzioni, o comunque mettono in rilievo la consapevolezza della loro coesistenza. Italo Calvino è chiaramente associato alla Letteratura con la L maiuscola ed è riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori scrittori europei oltre che italiani.
Giorgio Scerbanenco è considerato essenzialmente un autore di romanzi polizieschi (quelli che in Francia si chiamano noir e in Italia gialli) ed è conosciuto da un ampio pubblico di lettori. La «letteratura italiana dell’immigrazione», invece, non è (ancora) associata a nomi di rilievo e non è un genere consolidato, ma un genere emergente. Tra questi tipi di narrazione, probabilmente quella di Scerbanenco fa più esplicitamente riferimento all’ambiente urbano. Esse, però, offrono un punto di vista diverso non solo perché impiegano strategie narrative diverse, ma anche perché appartengono a momenti diversi: gli anni sessanta nel caso di Calvino e Scerbanenco, gli anni novanta nel caso degli scrittori immigrati.
Il Calvino del saggio di Claudia Nocentini deve ancora scrivere Le città invisibili. È un Calvino osservato durante il periodo formativo della sua carriera, a partire dall’arrivo a Torino nel 1941. Nocentini ripercorre i mutamenti del suo rapporto con la città da quel momento fino ai racconti dei primi anni sessanta ambientati a Torino, analizzando, oltre alla sua produzione letteraria, anche il suo lavoro di editor per la Einaudi. Il contributo rivela il divario tra il fascino esercitato su Calvino dagli operai e dalla cultura industriale di Torino e i suoi tentativi di rappresentarli letterariamente, dimostrando come lo scrittore riesca a trovare la propria voce solo rinunciando al realismo sociale. Con gli ultimi racconti del ciclo di Marcovaldo, la «città-prigione» è sostituita dalla città come «luogo di incontri casuali con oggetti inattesi» e come «aggregato eterogeneo di persone». Inoltre, per Calvino, cosmopolita culturale incapace di restare troppo a lungo nello stesso posto, Torino conduce ad altre città e altri mondi.
Giuliana Pieri scrive che nei romanzi di Scerbanenco Milano è «la città noir per eccellenza: una città di dolore, sofferenza, solitudine, isolamento e violenza estrema». Tuttavia, questa Milano dovette essere creata dall’autore, visto che negli anni sessanta si parlava ancora di Milano «come se finisse a Porta Venezia» e come se la gente «non facesse altro che mangiare panettoni o pan meino». Scerbanenco disegna una nuova geografia del crimine, collocata in periferia anziché nel centro storico, una geografia che segue la nuova mappa dell’industria e dell’urbanizzazione. Il suo modo di raccontare il crimine, afferma Pieri, servì a smascherare il falso ottimismo e l’ipocrisia dell’Italia del boom.
Scerbanenco, che non a caso aveva ambientato i suoi primi gialli a Boston, voleva trasformare Milano in qualcosa di simile a Marsiglia, Chicago o Parigi.
Un senso di nostalgia per la metropoli e la cultura metropolitana in Italia era ampiamente presente in forma di evocazione di modelli stranieri, soprattutto americani. Scerbanenco fu probabilmente molto influenzato dalla narrativa americana hard boiled, come le utopie architettoniche dovevano molto alla teoria e alla pratica degli Stati Uniti.
Tuttavia, si può affermare che solo negli anni novanta le città italiane hanno cominciato ad acquisire alcune caratteristiche della metropoli moderna. È soprattutto l’immigrazione da ogni parte del mondo, dal Marocco e dalla Tunisia allo Sri Lanka, dalle Filippine alla Russia, per non parlare dell’Europa orientale, a segnalare che è in atto un mutamento storico. In «Città immaginarie», Sandra Ponzanesi mostra che i nuovi immigrati non sono più solamente oggetto del discorso della stampa, della televisione e degli altri media (come si è visto nella seconda parte), ma sono ormai soggetti, «io» a pieno titolo delle loro stesse narrazioni. E queste narrazioni forniscono un punto di vista alternativo non solo di «come le cose sono realmente», compresa l’esperienza del razzismo, ma di «come dovrebbero essere».
Per Ponzanesi, la letteratura dell’immigrazione (all’interno della quale sceglie tre romanzi di fine anni novanta) rivela una particolare sensibilità spaziale nei confronti della città. Flâneur più per circostanza che per scelta, il protagonista di Io venditore di elefanti di Pap Khouma è in costante movimento; «spesso, più che concentrarsi sulla città, la descrizione si sofferma sullo spostamento tra due città, sulla strada tra una festa popolare e l’altra, tra una spiaggia e l’altra, sul trasferimento da una pensione all’altra». Sette gocce di sangue racconta l’esperienza della città attraverso lo sguardo di donne lacerate tra culture diverse e consapevoli della loro visibilità. Qui, anche l’integrazione e l’emarginazione sono viste come un difficile problema di scelta e compromesso a livello individuale. La città funziona come «la rifrazione di processi globali di sincretismo oltre che della moltiplicazione delle differenze».

Quinta parte: Zone grigie: la città e il cinema

Spesso la nostra percezione della città non è distinta, ma piuttosto parziale, frammentaria, mista ad altre sensazioni.
Praticamente ogni nostro senso è in gioco e l’immagine è l’aggregato di tutti gli stimoli.
(Kevin Lynch)

I contributi di Enrica Capussotti e Abele Longo si occupano rispettivamente di Milano nei primi anni sessanta e Palermo nella seconda metà degli anni novanta: Milano, «lo spazio visivo della modernità», Palermo, «una terra desolata» in stile postmoderno. Il cinema è forse il mezzo di comunicazione che ha contribuito, più di ogni altro, a modellare il paesaggio urbano, immaginario o documentato, che nel corso del tempo ha alimentato la nostra idea dell’aspetto caratteristico della città italiana. Ma in questi studi viene adottata una prospettiva insolita: l’immaginario dominante associato a città come Roma, Firenze e Venezia è del tutto assente e, al suo posto, c’è un «viaggio nel tempo» lungo l’autostrada del Sole, da Nord a Sud, che evita i centri storici e le immagini da cartolina.
Capussotti si concentra sulla neonata cultura giovanile ed esamina, utilizzando un’ampia gamma di testi (film, riviste, stampa), quelle reazioni alla modernità e alla modernizzazione che Umberto Eco avrebbe definito «apocalittiche» e «integrate», termini che l’autrice sta ben attenta a contestualizzare. La sceneggiatura di un film, Milano nera, scritta da Pier Paolo Pasolini durante un soggiorno di «venti atroci giorni» in città, costituisce il punto di partenza della descrizione che Capussotti fa dell’appropriazione italiana del rock’n’roll e del panico morale dei commentatori politici e culturali. La reazione viscerale di Pasolini alla «nevrosi collettiva» dilagante a Milano (da lui paragonata alla situazione di New York, Londra e del Nord Europa) è collegata alla critica del «neocapitalismo» incarnata dalla sua visione della realtà urbana con le sue «rovine di vecchie case sventrate» lungo canali abbandonati messi in risalto da «giganteschi diamanti», i grattacieli di uffici che si vedono in lontananza.
Significativamente, sono proprio le rovine, i terreni desolati e gli spazi indeterminati dei film di Pasolini di fine anni cinquanta e inizio anni sessanta a entrare nel linguaggio del cinema e a venire usati per descrivere la condizione urbana contemporanea. Longo vede Uccellacci e uccellini come il «modello principale della città-testo» dell’opera di Ciprì e Maresco, che portano «all’estrema conclusione naturale» l’idea del «genocidio della cultura contadina» e rendono «la campagna urbanizzata» o la «città che si espande senza regole» la caratteristica specifica dei loro film. Longo mette in relazione due film, Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, con la storia del cinema (specialmente con film di autori meridionali e sul meridione), ma anche con la mutevole topografia della «vera» Palermo. Ma i corpi hanno la stessa importanza dei luoghi. È il loro rapporto a costituire il panorama urbano: «luoghi e corpi divengono parte dello stesso paesaggio apocalittico. La loro è una città vuota, abbandonata, persa nel tempo, priva di donne e bambini e abitata da surreali relitti umani che vivono ai margini».
Queste indicazioni sono, ovviamente, semplici istruzioni per l’uso che possono essere seguite oppure no. Avremmo potuto decidere di organizzare il libro in modo diverso, per esempio suddividendo i testi in base al periodo trattato o ad altri temi. Consigliamo di accostarsi alla lettura come se si trattasse di una camminata per la città, liberi di fare collegamenti e associazioni a seconda del saggio o dell’ordine in cui si affronta la lettura. Senza trascurare, ovviamente, le immagini e il loro rapporto con il testo scritto. Insomma, Le città visibili è pensato per aggiungere ulteriori quesiti a quelli formulati dall’instancabile Marco Polo di Calvino.

LE CITTÀ VISIBILI
Spazi urbani in Italia, culture e trasformazioni dal dopoguerra a oggi

Traduzione di Francesca Maioli

A cura di Robert Lumley e John Foot

Introduzione. Indicazioni, di Robert Lumley e John Foot

Uno sguardo generale

1. Attraverso lo specchio. Studi e ricerche sulla città italiana contemporanea (1973-2002), di Sergio Pace

L’immigrazione: città vecchie, identità nuove

2. La Piccola Mela: Milano città d’immigrazione, di Gianfranco Petrillo
3. Dentro la città irregolare. Una rivisitazione delle coree milanesi, 1950-2000, di John Foot
4. Immigrazione, nazionalismo e concezioni discriminatorie di luogo a Torino, di Laura Maritano

Rinnovamento urbano e modernità problematica

5. Utopie architettoniche e la «nuova dimensione». Torino negli anni sessanta, di Mary Louise Lobsinger
6. Architettura e modernità nella Milano del dopoguerra, di Halldóra Arnardóttir
7. Torino dopo l’Arte Povera. Una nuova città d’arte, di Robert Lumley
8. Spazi pubblici contesi. La creazione di una nuova immagine per Napoli e il caso di piazza del Plebiscito, di Nicholas Dines

Narrazioni urbane «alte» e «basse»

9. Calvino a Torino. La scrittura e l’attività editoriale, di Claudia Nocentini
10. La città e il crimine nei gialli di Giorgio Scerbanenco, di Giuliana Pieri
11. Città immaginarie. Spazio e identità nella letteratura italiana dell’immigrazione, di Sandra Ponzanesi

Zone grigie: la città e il cinema

12. Soggetti e luoghi della modernità: giovani e Milano negli anni cinquanta, di Enrica Capussotti
13. Palermo nei film di Ciprì e Maresco, di Abele Longo

PAESAGGIPOSTINDUSTRIALI

14. Adriati-città. Un paesaggio postindustriale, di Pippo Ciorra

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3 Commenti

  1. Sempre letture al postutto. Qualcuno dovrebbe entrare nel merito dei meccanismi di decisione tecnico politica che vengono prima della città reale e la determinano: in questo modo la città viene analizzata quasi fosse un fenomeno naturale (in parte, ma solo in parte, è così) e non il prodotto di della cultura e delle convenienze della rete dei potenti.

  2. de chirico diceva che torino è la città più metafisica tra tutte le altre.
    sul testo: il sistema aperto mi fa pensare sempre più che le città siano esseri malleabili, e gli spazi aperti sono la realtà già più forte di tutto il resto, qualcosa che garantirà la sopravvivenza delle città ormai libere dalla sacralità delle mura.
    poi volevo dire che sulla città uno dei libri che ho amato di più resta ”l’idea di città” di ryckwert. ryckwert riesce a fare un’analisi scientifica, attenta, millimetrica dell’urbe romana per sostenere alla fine che ciò a cui più assomiglia la città è il sogno.
    anche manganelli ne parla nella favola pitagorica. manganelli le città le vede, le prende con calma, poi sceglie un oggetto, anche il più insignificante, e lì ci mette il mondo.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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