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Donne immigrate e processi di inclusione: il caso delle donne albanesi

di Claudia Cominelli

Fenomeni come i flussi migranti trasnazionali contribuiscono ampiamente al dibattito intorno a questioni come la cittadinanza, la legalità, la sicurezza, la giustizia, l’integrazione sociale ed economica, la tutela della vita familiare. Si tratta di temi che riguardano in primo luogo gli immigrati, ma che, di fatto, interpellano tutta la comunità civile in ordine a questioni inerenti l’intreccio tra particolarismo e universalismo dei diritti. Appare particolarmente evidente, quindi, la necessità di discutere intorno alle differenze culturali, alle loro trasformazioni, all’impatto sulle culture autoctone.
A tal proposito, nell’ambito del fenomeno migratorio, risulta interessante volgere l’attenzione al mondo femminile, non sempre oggetto di accurata riflessione: si tende, infatti, a ragionare in termini maschili, anche se la radicalizzazione della presenza immigrata sul territorio italiano, non più prevalentemente appannaggio di uomini soli ma ormai di taglio familiare, ha da tempo posto la questione di prendere in considerazione la valenza euristica della variabile di genere.
Guardare al mondo immigrato attraverso tale punto di vista significa, infatti, tener presente, in primo luogo, che il marker dell’appartenenza sessuale ha valenza fortemente simbolica in tutte le culture (pur con significati diversi) e che rappresenta una delle principali categorie a partire da cui le società stabiliscono norme di vita, regolano l’agire sociale, governano i destini individuali (di conseguenza anche l’agire migratorio) e in secondo luogo che si tratta di uno dei principali mezzi attraverso cui le società strutturano e manifestano i rapporti di potere, senza dimenticare quanto sia interessante osservare ciò che emerge dall’intreccio tra le disuguaglianze di genere e le disuguaglianze etniche.
Basti considerare, per esempio, come le donne straniere nel nostro paese siano discriminate almeno sotto tre aspetti: in quanto donne (soprattutto sul piano del riconoscimento di competenze professionali), in quanto immigrate (quindi sottoposte a tutti i processi di esclusione sociale che tipicamente colpiscono gli immigrati) e anche in quanto madri (se gli autoctoni risolvono il problema di un welfare debole con la rete parentale, le donne immigrate anche in questo senso sono penalizzate) [Ambrosini, 2005: 134].
La questione appare complicarsi se vi è un’appartenenza a una comunità particolarmente stigmatizzata come quella, per esempio, albanese: le donne albanesi rischiano di essere prese in considerazione solo attraverso stereotipi negativi, relativi al mondo della prostituzione o della microdelinquenza. La nazionalità albanese appare, infatti, una tra le più etichettate da pregiudizi sociali, generalmente seconda solo alle comunità nomadi, pur essendo una delle nazionalità da più tempo presente nel nostro paese, con cui abbiamo condiviso anche una serie di vicende storiche (1). L’immigrato albanese incarna molto bene, infatti, la raffigurazione simmeliana dello straniero come soggetto che è contemporaneamente vicino e lontano, voluto ed escluso, ricercato e rifiutato (2). Nell’immaginario comune della società italiana, in particolare grazie alla diffusione di una rappresentazione spesso distorta da parte dei mass-media (3), la donna albanese, qualora non sia coinvolta in attività di prostituzione (4), resta invece madre, moglie, sorella, figlia di uomini che sono dediti alla microcriminalità nelle aree ricche del Nord e, pertanto, non affidabile, pericolosa, dai costumi corrotti.
Certamente, il fenomeno della prostituzione, così come quello della criminalità, che vedono il coinvolgimento della comunità albanese, sono una realtà, tuttavia una recente ricerca condotta a Brescia negli anni 2005-2006, rispetto al mondo femminile albanese di prima e seconda generazione mette in luce anche aspetti spesso non immediatamente visibili ai nostri occhi, ma che ci permettono di scoprire elementi che vanno al di là dei pregiudizi.
La ricerca nello specifico ha raccolto informazioni sui percorsi di vita dei membri appartenenti a 8 famiglie albanesi (5), di cui facesse parte almeno una adolescente, al fine di rispondere al seguente “interrogativo di fondo”: in quali termini la dimensione di genere rappresenta un’opportunità e in quali un vincolo nell’esperienza di integrazione di ragazze straniere ai fini della costruzione del loro percorso di vita?
Il materiale narrativo ottenuto attraverso lo strumento dei “racconti di vita” [Bertaux, 1999] è stato analizzato dal punto di vista dei contenuti (cosa), della struttura (come), e del contesto (perchè) [Poggio, 2004: 117] (6), sia compiendo un’operazione di frantumazione del testo narrativo, in modo tale da isolare quelle porzioni di racconto più significative rispetto al tema della formazione dell’identità, sia considerando alcune interviste come delle narrazioni in sé, al fine di renderle, attraverso un processo di ri-narrazione, sintesi e interpretazione, delle storie, che mettano in luce le strategie globali utilizzate da alcune adolescenti nell’affrontare la complessità del proprio processo di costruzione dell’identità.
Ne è emerso un quadro composito dove la comunità albanese, mostra, attraverso le speranze delle sue seconde generazioni femminili e la capacità di tenuta delle loro famiglie, creative costruzioni di identità ibride, nonché originali possibilità di integrazione.
Ripercorrendo alcuni dei risultati emersi, va richiamato, in primo luogo, per esempio, come diversamente tra prima e seconda generazione venga vissuto l’evento migratorio. Anche se nell’ambito di un nucleo familiare l’esperienza migratoria rappresenta sempre una frattura esistenziale non ricomponibile tra un prima e dopo, chiaramente i soggetti giunti, quando gli elementi base della propria identità si sono già affermati vivranno un impatto e un senso di sradicamento più intensi, e tendenzialmente svilupperanno un senso di appartenenza “doppia”, con un legame sia rispetto al contesto di origine che al nuovo ambito di vita, a differenza di coloro che nascono nel nostro paese da genitori stranieri o vi giungono in tenerissima età, i quali con maggior probabilità daranno origine a un senso di appartenenza connesso prevalentemente al contesto di approdo.
Diverso anche il modo con cui le due generazioni reagiscono all’impatto con una società stigmatizzante: mentre nelle seconde generazioni, fra le adolescenti, pare ravvisabile una maggior tendenza al mimetismo e un’enfasi sui tratti stereotipati associabili al genere femminile (essere buone, disponibili, tranquille, generose), nelle prime non è raro il caso di donne che si adoperano per il riscatto del lato buono dell’identità albanese, specie se coinvolte in attività di mediazione culturale o se in contatto con realtà pubbliche istituzionali. Anche tra le adolescenti, tuttavia, in alcuni casi, soprattutto se in ambito familiare vi è un’attenzione specifica dedicata alle proprie origini, vi è un particolare attaccamento verso la propria realtà culturale, sebbene vi sia anche il desiderio di essere riconosciute come degne di appartenenza anche dalla comunità italiana.
Per quanto riguarda un altro aspetto, ossia l’atteggiamento riguardo alle chance di vita (7) delle seconde generazioni, rilevante si è mostrato il condizionamento subito rispetto dal progetto migratorio familiare. In particolare, il comportamento riscontrato nelle adolescenti, pare distanziarsi da una logica individualistica (le ragazze non sono incoraggiate a scegliere esclusivamente sulla base di ciò che a loro piace) e abbracciare una predisposizione a una scelta del proprio futuro di tipo familiare, sulla scorta delle aspettative che hanno alimentato la partenza dal proprio paese. Inoltre, pare venga assunta un’ottica, tendenzialmente, a valenza strumentale, anziché espressiva, ossia le adolescenti scelgono il loro futuro soprattutto al fine di realizzare precisi obiettivi economici e di mobilità sociale e non per dare spazio alle proprie aspirazioni personali. Il condizionamento familiare rispetto alle chance di vita è evidentemente un aspetto che va a influire anche sui percorsi della componente autoctona, tuttavia, le aspettative familiari, in seguito a un investimento migratorio, possano premere ben più pesantemente sui destini delle seconde generazioni straniere. I processi di scelta appaiono, peraltro, anche in parte condizionati dalla variabile di genere, per cui la propensione nel caso della comunità albanese è quella di orientare le proprie figlie verso percorsi tipicamente femminili, che generalmente implicano flessibilità d’orario, coinvolgimento relazionale intenso, ma anche mansioni di scarso prestigio e maggior instabilità occupazionale.
Dal punto di vista del capitale sociale, sia le prime che le seconde generazioni femminili soffrono di una debolezza nella possibilità di costruire reti relazionali ricche, sia all’interno della propria comunità presente in Italia, sia rispetto alla componente autoctona, il che incide in particolare sulle seconde generazioni in termini di integrazione e rispetto alle proprie scelte di vita future (reti povere significa spesso poche informazioni che aiutino nei processi di scelta).
Tuttavia, dalla ricerca condotta, le donne incontrate hanno mostrato anche uno sforzo rilevante, intrapreso sia dalle adolescenti che, in alcuni casi, dalle loro madri, per accreditarsi rispetto alla comunità di approdo: in tal senso è apparso emblematica la scelta da parte di alcune famiglie, per esempio, di abbracciare la religione cattolica non solo sulla scorta di un bisogno di fede interiore, ma anche al fine di dare risposta a un bisogno di appartenenza sociale.
Per le seconde generazioni femminili, è emerso, inoltre, come incisivo il ruolo giocato dalla madre: figure materne dall’atteggiamento intraprendente, solerte, operoso, dotate di strumenti adeguati di interpretazione della realtà, hanno mostrato efficacia nel costruire opportunità più ricche per la crescita delle proprie figlie, al contrario di madri con un comportamento passivo, chiuso, rigido e stereotipato. Tuttavia, a controbilanciare l’apporto materno si è evidenziata, come altrettanto determinante, la presenza di una figura paterna in grado di equilibrare l’intenso rapporto fra madre e figlia, così come a proiettare una visione corretta e propositiva dell’investimento all’esterno del nucleo familiare. Padri notevolmente provati e penalizzati dal contatto diretto con la società di accoglienza, con scarsa fiducia nelle proprie capacità di riuscita, così come padri che abdicano o vivono in modo inadeguato il proprio ruolo in ambito familiare, penalizzano, evidentemente, il destino delle proprie figlie.
Dalla ricerca si è rilevata anche una istituzione scolastica che, nonostante il molto impegno, fatica ancora a promuovere, specie nei gradi di istruzione superiori, la diversità come ricchezza, essendo spinta nel proprio agire prevalentemente da un ottica universalistica che tende a negare le differenze culturali di cui i soggetti stranieri sono portatori.
Il punto di forza resta la famiglia che nei casi incontrati ha mostrato, seppur sovraccaricata da problemi economici e sociali, una buona tenuta e una significativa capacità di fronteggiare le difficoltà in cui si è imbattuta. Gli interventi di politica locale per l’inclusione a sostegno di queste famiglie, in particolare nelle zone non cittadine, sono apparse, di contro, piuttosto deboli e le famiglie si reggono, quindi, quasi esclusivamente sulle proprie risorse.
Rispetto al nostro stile di vita, invece, gli adulti, in particolare, hanno mostrato disorientamento e atteggiamento critico, disapprovazione verso modelli del femminile eccessivamente emancipati, preoccupazioni educative rispetto alle seconde generazioni riguardo al rispetto delle regole e dell’autorità genitoriale, riguardo a come conciliare uno stile esterno alla famiglia giudicato un po’ troppo disinvolto e stile di vita interno condizionato da valori diversi ma anche da ristrettezze economiche. Le prime generazioni, invece, sono parse più impegnate nella ricerca di un equilibrio tra quanto appreso in famiglia e quanto incontrato all’esterno. Colpisce, in particolare, il valore formativo che per alcune ragazze ha avuto l’esperienza migratoria sul piano della maturazione personale. Specialmente nel confronto con le generazioni autoctone, infatti, è degno di nota osservare come le adolescenti intervistate abbiano mostrato di possedere un tendenziale orientamento verso quella che da Anolli [2006] viene definita mente multicuturale, ossia la capacità di governare gli indizi culturali forniti dal contesto, che di volta in volta si presenta come cornice dell’esperienza, dimostrando di adattarvisi attivamente, rispondendo, cioè, in modo appropriato alle aspettative relazionali e sociali in atto.
La conduzione di una ricerca di questo taglio, che certo non persegue obiettivi di rappresentatività del campione di soggetti analizzati, ma intende raggiungere in profondità i contenuti della loro esperienza e dare voce ai singoli percorsi di vita porta con sé, in termini di valori aggiunti, l’opportunità di conoscere meglio una comunità fortemente stigmatizzata, di approfondire il tema dell’evolversi dell’identità femminile nella componente immigrata e in generale, nella nostra nuova società multiculturale, di riflettere sul destino delle seconde generazioni immigrate, di pensare a un loro futuro di convivenza con le nostre generazioni, in cui tutti abbiano riconosciuta una cittadinanza sostanziale e un accesso ai diritti reale.

Notizie sull’autrice

Claudia Cominelli, che si occupa dello studio dei fenomeni migratori dal 1998, è Dottore di ricerca presso l’Università Cattolica di Milano e assegnista di ricerca presso il Centro Interuniversitario di Ricerca sulle Migrazioni – Brescia (CIRMiB), con sede presso l’Università Cattolica di Brescia.

Note al testo
1 Per un approfondimento vedi per es.: Biagini A. (2005), Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, Milano; Jade R. (1998), Albania. Storia economica e risorse. Società e tradizioni. Arte cultura. Religione, Pendragon, Bologna; Micunco G. (1997), Albania nella storia, Besa, Lecce.

2 Si veda: Simmel G. (1989), Excursus sullo straniero, in Simmel G., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano, pp.580-584; Tabboni S. (a cura di) (1990), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Franco Angeli, Milano.

3 Per un approfondimento rispetto all’immagine veicolata dai mass-media dell’immigrato albanese si veda per esempio : Vehbiu A., Devole R. (1996), La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass-media, Ed. Paoline.

4 Per un approfondimento rispetto al tema delle donne albanesi coinvolte nel traffico di prostituzione e tratta si vedano per esempio: Carchedi F et al. (2000), I colori della notte, Franco Angeli, Milano; Carchedi F., Mottura G., Pugliese E. (2003), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, in particolare cap. 5; Monzini P. (2002), Il mercato delle donne. Prostituzione, tratta e sfruttamento, ed. Donzelli, Roma; Mascellini F. (2004), Donne: vittime di tratta e possibilità di recupero, in Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2004, Caritas/Migrantes, Roma, pp. 177-185; Carchedi F. (2004), Prostituzione migrante e donne trafficate. Il caso delle donne albanesi, moldave e rumene, Milano, Franco Angeli; Abbatecola E. (2006), L’altra donna. Immigrazione e prostituzione in contesti metropolitani, Franco Angeli, Milano.

5 Consapevoli della ristrettezza del campione di intervistati, si sottolinea che quanto è espresso va considerato nell’ottica di proporre delle “considerazioni situate”, ossia ricavate dal particolare incontro di un determinato ricercatore, con un preciso e specifico gruppo di soggetti, in un circostanziato contesto spaziale e temporale. Nulla, quindi, di quanto è affermato ha la pretesa di rappresentare “la verità”, né riguardo la comunità albanese, né tanto meno rispetto a dinamiche sociali ben più ampie. Del resto la ricerca condotta, trattandosi di una rilevazione qualitativa, è ben lontana dal desiderare di rispondere a canoni di rappresentatività, oggettività e standardizzazione, tuttavia, non si esimerà dal riportare alcune “verità”, innanzitutto quella del ricercatore stesso che inevitabilmente lascerà trasparire il suo particolare modo di vedere i fenomeni e gli attori sociali, oltre a quella degli intervistati, a cui il ricercatore, proprio privilegiando una metodologia a bassa direttività, ha cercato di dare spazio, rappresentandoli e permettendo di autorappresentarsi. E’ evidente che gli elementi riscontrati nel corso della ricerca per trovare conferma dovranno essere sottoposti a ulteriori approfondimenti e comparazioni.

6 Si precisa che il modello di analisi illustrato da Poggio nel testo “Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali” [2004, cit. in bib.] fa riferimento specifico alla ricerca narrativa, tuttavia, considerando lo strumento di raccolta dati utilizzato, si è ritenuto non illegittimo mutuarlo per questa rilevazione.

7 Qui si fa riferimento al concetto di “chance di vita” elaborato da Dahrendof nell’opera La libertà che cambia [1980, Laterza, Roma-Bari] e in altri lavori successivi.

Bibliografia

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(Il precedente articolo del ciclo Migrazioni Possibili sulla realtà della Chinatown londinese è qui.)

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8 Commenti

  1. Complimenti a Maria Luisa per avere postato il testo che mette sotto la luce la situazione delle donne albanese. Ho imparato molto. Mi sembra importante di parlare dell’impegno della donna, del sentimento che ha del futuro: la donna è il futuro dell’uomo, no?
    Conosco solo un ‘autrice albanese che mi piace molto, perché simbolisa la libertà: Ornella Vorpsi.

  2. Ornela Vorpsi è un’autrice che mi affascina, perché il suo primo libro è stato scritto in italiano. Nel romanzo “Le pays où l’on ne meurt jamais”, evoca la manera di trattare le ragazze che amano la libertà: sono considerate come puttane.
    In Francia sono usciti “Tessons roses”: è un libro magnifico che parla del paese dell’infanzia con sensualità e della sessualità delle bambine. E’ un omaggio alla bellezza femminile, con foto in nero e bianco, strano: la modella femminile gioca con oggetti, ombre.
    La scrittura è ricca, carnale.

  3. Fis, la struttura clanico-patriarcale dei villaggi albanesi. Quelli dove le donne rimaste senza marito devono accettare di vivere come uomini. Specie di “Lupa”.

  4. “E’ un omaggio alla bellezza femminile, con foto in nero e bianco, strano: la modella femminile gioca con oggetti, ombre.”

    In questa frase c’è molta inquietudine e si legge, da come sono contrapposte la parola bianco e la parola nero, di solito ordinate secondo un’altra sequenza. Questo modus apre ad una più precisa percezione del climax finale che svela e nasconde i propri significati, arrotondati in un senso che sfugge ad una sempre attenta e a volte necessaria catalogazione. Effetto voluto, ricercato oppure casuale?

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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