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Il presidente Kibaki, Raila e tutti i keniani sono imputati

kenya riotsUna lettera anonima da Nairobi

Scrivere questa lettera sarà la mia ultima azione mortale su questa terra. Ho deciso, per due ragioni, di raccogliere gli indirizzi mail delle persone preminenti che conosco e dei miei amici e mandarla da un indirizzo anonimo.
La prima è risparmiar loro lo sconforto di sapere anticipatamente quel che mi accingo a fare e quindi sottrarli ad ogni colpevolezza. E in secondo luogo perché la mia identità ora come in futuro è irrilevante- potrei essere qualsiasi persona sparsa per il paese che prova ciò che provo io.
Come potrete intuire dalla mia scrittura, sono un uomo colto. Sono laureato alle università di Nairobi e di Strathmore. Ho avuto il privilegio di ricevere un’istruzione in varie parti del mondo.
Ho lavorato a Berlino, Stoccolma, Londra, New York e in vari altri posti. Parlo correntemente sei lingue.
Ma pur con tutto quel che ho raggiunto, non ho più una ragione per vivere. Se leggendo queste parole vorrete cercarmi, andate al obitorio cittadino dove ho deciso di marcire in mezzo alla gente anonima che finisce lì.
Vi spiegherò il perché con questa lettera e, come Pavlov, mi ritirerò. Questa sarà la mia unica protesta.
Mr Kibaki, io la incrimino.
Lei ha rubato le elezioni alle quali partecipare mi è costato sei ore di fila. Grazie alle sue azioni, la mia vita è cambiata irrevocabilmente. La storia non dimenticherà i grandi obiettivi e l’eredità che lei sarebbe stato chiamato ad onorare, e ricorderà che a causa della sua arroganza di credersi nel giusto, molte persone hanno perso la vita, la proprietà, e più di ogni altra cosa, la speranza.
In nome del sangue del mio popolo, io la incrimino.
Mr Odinga, presidente da me prescelto, in nome del sangue e delle lacrime del mio popolo, io la incrimino.
A causa della sua amarezza, per quanto giustificata, la mia vita cambia irrevocabilmente. La cosa maggiore che ho acquisito, la mia famiglia, è morta in nome suo. Mio figlio, il mio erede, colui che porta il nome dei miei antenati, è andato in fumo prima che potesse pronunciare il mio nome o il suo: Koitalet.
Le mie gemelle, Wanjiru e Sanaipei, furono trovate presso la mia casa bruciata ad Eldoret ferite e dissanguate. Mia moglie è morta con dentro di lei il seme di sei uomini, in uno stato finale di demenza e catatonia. Questo è successo in nome suo, signore. Perché lei deve ottenere la sua giustizia. Perché mia moglie apparteneva alla comunità sbagliata. Perché lei deve ottenere ciò che le spetta.
Lei questo lo leggerà e non proverà nulla. Lo razionalizzerà come accettabili danni collaterali. A qualcuno tocca pur di morire per il conseguimento della giustizia, non è cosi?
Keniani, in nome del sangue dei miei figli, vi incrimino tutti. Avete perso il controllo.
Avete dimenticato che la nostra appartenenza etnica è qualcosa di cui abbiamo sempre scherzato mentre sbrigavamo le nostre faccende.
Avete dimenticato che non era nostra abitudine combattere, ma mediare. Avete dimenticato che siamo un grande popolo costruito sulla schiena di grandi persone. Avete dimenticato che si tratta soltanto di elezioni. In nome del sangue dei miei figli, delle lacrime di mia moglie morta, delle lacrime delle vostre madri, delle lacrime che intridono le lenzuola di coloro che dormono nella pioggia, io vi incrimino.
PATRIOTA
Nairobi

Questa lettera è stata pubblicata venerdì sul giornale keniota “The Nation”. A me è arrivata tramite un’amica che ha fatto le scuole a Nairobi e ora vive a Gallarate. Nella mailing list dei suoi ex compagni che se la sono girata, si trovano nomi tedeschi, italiani, anglosassoni, greci, indiani, persino serbi e ovviamente africani. Nelle poche frasi che l’accompagnano, in inglese, si esprime un senso di perdita profonda e di preoccupazione per quelli rimasti laggiù.
Di questa lettera mi ha colpito la sua capacità di arrivare con mezza pagina a dare i contorni di una catastrofe irreversibile. E mi ha colpito che questo avvenga attraverso un uso della retorica che sembra avere qualcosa di disperato: come se quest’arte della parola fosse l’arma estrema che colui che scrive cerca di opporre allo sfacelo che gli ha distrutto, insieme alla voglia di vivere, ogni riferimento e ogni immagine di sé. Comporre questa lettera, redigerla secondo certe modalità espressive, mi è parso un gesto che vuole trasformare un suicidio quasi in un atto da kamikaze. Al di là di ogni giudizio estetico, credo sia utile confrontarsi col fatto che possa esistere ed apparire necessario un uso simile della scrittura. La traduzione è mia. HJ

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33 Commenti

  1. Che ogni “giornalista” contemporaneo legga e si vergogni. Qui da noi, dell’orrore del Kenia (come di tanti altri, in passato o attuali – come della fame del terzo mondo, secondo me il più atroce scandalo dell’umanità) i media vi si sono soffermati, ogni tanto, con un breve accenno, più che altro perché un tot numero di vittime fa comunque sempre effetto, sempre fra gli ampi servizi sul delitto del giorno, le vergognose bizze della politica, il Corona o la “velina” che va con chi o lascia chi, le nozze parigine, ecc…

    Africa, cuore magico e dolente del mondo, PATRIOTA caro, resistete, resistete per tutti noi.

  2. Uno spesso si incazza per delle cose che sembrano importanti.
    Dall’alto della propria spocchia punta il dito contro qualcuno.
    Dal profondo comodo della propria poltroncina sorride alla comicità progressista.
    Sulla superficie solida delle proprie sicurezze pontifica ai suoi proseliti.
    Sul blocchetto del comando dirige l’orchestra.
    Nel piccolo della propria modestia si alza-lavora-mangia-caca-bacia-dorme.
    Mi vergogno, mi vergogno, mi vergogno.

  3. Nel caso qualcuno volesse leggerla in originale- magari dovevo pensarci prima- ve la posto qui.

    “I write this letter as my final mortal action upon this earth.
    I have determined to collect email addresses of the prominent people that I know and my friends and send it to them from an anonymous email address for two reasons.
    First, to spare them the distress of knowing beforehand what I am doing, therefore saving them from culpability, and second, because my identity is now and in future irrelevant — it could be any of those men around the country who feel like I do.
    As you might guess from my style of writing, I am a well-educated man. I am a graduate of Nairobi and Strathmore universities.
    I have been privileged to be educated around the world.
    I have worked in Berlin, Stockholm, London, New York and many other places. I speak six languages fluently.
    Even with all these achievements, I have no more reason to live. If you will want to look for me as you read this, go to City Mortuary where I have determined to fester among the anonymous people there.
    I will explain why in this letter, and like Pavlov, I shall retire. This is my only protest.
    Mr Kibaki, I indict you.
    You stole the election that I stood for six hours to participate in. By your actions, my life irrevocably changed. History will now forget the great achievement and legacy that you were poised to make and it shall remember that for your self-righteousness, people lost lives, property, and most of all, hope. On the blood of my people, I indict you.
    Mr Odinga, my chosen president, on the blood and tears of my people, I indict you.
    Because of your bitterness, justified though it is, my life irrevocably changes. My greatest achievements, my family, died in your name. My son, my heir, named after my great ancestors, went up in smoke before he could say my name, or his great name. Koitalet.
    My twin daughters, Wanjiru and Sanaipei, were found by my burnt house in Eldoret, having bled out of their wounds. My wife died with the seed of six men inside her, demented and finally catatonic. This happened in your name, Sir. Because you have to get justice. Because my wife was from the wrong community. Because you must get what is yours.
    You will read this and feel nothing. You will rationalise it as accepted collateral damage. Some must die in the pursuit of justice, isn’t it?
    Kenyans, on the blood of my children, I indict you all. You lost the ball. You forgot that our ethnicity is something we joke about, as we go about our business.
    You forgot that we do not fight, we mediate. You forgot that we are a great people, built on the back of great people. You forgot that it’s just elections.
    On the blood of my children, on the tears of my dead wife, on the tears of our mothers, on the tears in the sheets of those people who are sleeping in the rain, I indict you.
    PATRIOT,
    Nairobi.”

  4. Già, una coltellata, un colpo di pistola. Eppure continuiamo a non guardare: guardare quando si è obbligati e non guardare, è la stessa cosa.
    Sono appena tornato da un viaggio, paesi dell’Est e, a parte la nausea per questo paese sempre uguale, che peggiora dopo ogni viaggio e ad ogni ritorno, scopro gli stessi sguardi, le stesse informazioni, la stessa capacità di arrotolarsi e chiudere tutto all’interno del nostro piccolo mondo antico; in putrefazione.
    Da noi si parla solo di noi. Il resto del mondo non esiste e questi sprazzi di luce sono troppo rari. L’altra sera, all’uscita da un ristorante di lusso, una bimba vestita di stracci (avrà avuto forse 4 anni) mi ha rincorso con la mano tesa “niet mama, niet papa, niet mama, niet papa” la nenia che mi ha scaraventato in testa come un macigno e, dopo aver afferrato la banconota che le porgevo, è corsa a nascondersi. L’ho inseguita, curioso come sempre, e l’ho vista, lontano dalla via dei turisti, prendersi due sberle da una donna mentre le porgeva il denaro e tornare a tendere la mano e cantare la sua nenia.

    Dimentichiamo sempre questi posti, queste persone, sono fastidiose. Turbano. Meglio le nostre certezze.

    Avrei voluto ammazzarla quella donna. A mani nude, esattamente come lei stava ammazzando quella bambina, ma che diritto ho io, benestante occidentale, di giudicare? Che diritto abbiamo noi, ricchi occidentali, di scandalizzarci per lettere come questa?

    Blackjack.

  5. come se quest’arte della parola fosse l’arma estrema

    Questa testimonianza sembra aggiungersi, se pur in mutate circostanze, ad una lunga fila di “ultime lettere di condannati” sopravvissute a chi le ha scritte: la parola, la parola scritta, spesso è la sola cosa che resta dei fatti, dei corpi. Credo che chi scrive non debba mai dimenticare che la scrittura, poesia compresa (e l’arte in genere) può e deve avere un valore civile, qualcosa di cui non doversi vergognare.

  6. “Che diritto abbiamo noi, ricchi occidentali, di scandalizzarci per lettere come questa?”. Una buona domanda.

  7. “Mangia e bevi! mi dicono e sii contento di averne.
    Ma come posso io mangiare e bere, quando
    quel che mangio a chi ha fame lo strappo e
    manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
    eppure mangio e bevo.”

    Certe volte sembra che il tempo non passi mai e che la storia si diverta a giocare al girotondo.

  8. È vero, sarebbe stato più esatto chiedersi: “Che diritto abbiamo noi, bambagiati intellettuali éngagées, di commentare lettere come questa?”

  9. Il vezzo occidentale di sentirsi in colpa anche di ciò di cui non si è responsabili serve a rimuove le responsabilità vere e dirette, rispetto a quello molto indirette o addirittura inesistenti.
    Se è ovvio che l’Occidente è (ancora per poco) l’agente primo sulla scacchiera planetaria e che quindi volendo, tutto può essere, magari con qualche sforzo, ricondotto al suo agire passato e presente, è anche vero che per esempio le etnie del Kenia e di molte altre aree politiche d’Africa, che hanno fatto milioni di morti negli ultimi decenni non l’ha inventate l’Occidente, casomai, in più di un caso, le ha usate.
    In Ruanda si disse di privilegi eccessivi, di attizzamenti al conflitto, non faccio fatica a crederlo.
    Questo del Kenia è un caso analogo?
    Al di là del contenuto della lettera – assai drammatico, ma di cui non è verificabile la veridicità – prima di sentirmi in colpa per i fatti del Kenia, per questi specifici fatti, voglio dire, vorrei che qualcuno dimostrasse in termini non generici il rapporto causa effetto tra quei fatti l’agire del mio mondo, eventualmente del mio Paese o dell’Europa.
    Questo lo dico a prescindere dall’indiscutibile ruolo colonialista e di tuttora perdurante predazione che l’Occidente, di cui sono (critica) parte integrante, ricopre nei confronti dell’Africa.
    Ma si tratta di un’ampia questione storica cui non può essere direttamente ricondotto tutto, perché anche in Africa esistono le lotte per il potere, i conflitti locali e soprattutto gli odii etnici.
    Finisce allora che l’Africa – dove peraltro non ho mai messo piede – diventa una specie di luogo comune della colpa, meta di politici col cuore in mano, di missionari con l’ospedale che allevia, di volontari onlus senza frontiere, generalmente cattolici contrari al profilattico, di pacificatori di professione come ex presidenti USA o del Regno Unito (che quando erano presidenti, beh facevano gli interessi non certo dell’Africa).
    Un tempo era meta di rivoluzionari di professione, come Guevara, Carmichael.
    Ma anche di mercenari dall’occhio freddo.
    Tutto era più chiaro, non si andava per alleviare, ma per combattere il colonialismo: l’Africa non ci intratteneva coi suoi massacri dal telegiornale, come fa adesso, in modo che uno possa dire cazzo mentre io sto qui e mi balocco lì si muore, che vergogna, che vergogna: fammi passare dal droghiere che è finita la pasta.
    I più non si sentivano in colpa.
    Gli altri, pochi, erano incazzati e per questo non si sentivano in colpa e forse avevano ragione.
    Altri ancora, pochissimi, andavano a combattere: erano comunisti rivoluzionari, capisci? credevano nella rivoluzione mondiale.
    Oggi ci fanno credere nella democrazia mondiale che terrebbe tutti buoni, ma come si è visto in molti posti, Kenia compreso, non è così.

  10. Direi che i commenti qui servono a togliere, piuttosto che ad aggiungere. Lo dico in un commento, ma è l’unico modo. La lettera parla da sola, il resto ( a parte il doveroso commento di Helena, che ringrazio) è più o meno speculazione.

  11. come non amare questo uomo? (tash)
    devo andare da mia mamma che mi riconosce a sprazzi e quando è preda dei suoi demoni mi scambia per uno di loro e mi urla la sua paura e stasera sento la piccola giada cui è morta la mamma con la quale non aveva fatto pace e se n’è andata questa estate in silenzio senza permettere a sua figlia di accorrere al suo capezzale e il cugino della mia amica si è buttato da un tralicio ed aveva quarantanni e la mia mia seconda migliore amica mi ha rinnegata per un cazzillio e… e…l’africa, e questa lettera, e il dolore del mondo: invoco un po’ di pietà se non riesco a contenere se non quello che mi capita a un tiro di sguardo.
    tanti baci
    la funambola

  12. concordo proprio molto col commento di tash, che riporta un po’ di ragione nella questione. E un grande grazie a Helena. A.

  13. si renda piuttosto onore all’autore di questa lettera per il fatto che non recrimina contro il mondo esterno, gli altri, gli imperialisti, ma contro i propri leader, il proprio popolo, sè stesso. Abbiamo molto da imparare. Grazie, Patriota del Kenya

  14. OT

    in|tel|let|tu|à|le
    agg., s.m. e f.
    […]
    4 agg., s.m. e f., che, chi è dotato di una certa cultura, è amante degli studi e del sapere e coltiva interessi culturali o artistici: una donna i., un i. che si occupa di letteratura francese | iron., che, chi ostenta superficiali interessi culturali
    5 s.m. e f., spec. al pl., chi svolge anche professionalmente un’attività di tipo culturale e in virtù delle proprie capacità esercita un’influenza, un ruolo attivo all’interno di una società, di un gruppo e sim.: la classe degli intellettuali, i maggiori intellettuali del nostro tempo

    Io mi riconosco nell’ultima opzione della voce 4, versione “iron.” – e tu, sensibile Plessus? E l’autore della lettera, sempre che non sia una bufala, dove lo metti?

  15. Confronto la tua lezione, harzman, e quella del signore anonimo e colto che ha postato la gentile Helena.

    Torniamo a lavorare, che è meglio.

  16. Lotta di potere

    (Martin Mbugua Kimani, The East African Kenya)

    Venerdì 4 gennaio. Passeggio nell’atrio dio Serena Hotel di Nairobi, dove gruppi di politici con il loro entourage camminano nervosamente da una parte e dall’altra. la maggior parte di loro ha in mano un telefono cellulare in cui sussurra di continuo. Ogni tanto si urtano con gruppi di uomini e donne bianchi che portano grosse macchine fotografiche a tracolla e cercano un taxi per raggiungere la piuù vicina scena di un massacro. Ho l’impressione che più i politici sussurrano ai lro telefoni più la stampa internazionale avrà immagini da catturare.
    Guardare il kenya oggi attraverso la Cnn o la Bbc deve fare la stessa impressione che un tempo provavo nel seguire dall’esterno le vicende dello Zimbabwe o del Nepal.

    Ma io so che il mio paese non è in preda ad odi ancestrali, nonostante le immagini di persone che brandiscono machete o che danno fuoco alle chiese.

    Quella in atto è una crisi politica, alimentata da differenze etniche che oggi in Kenya corrispondono, come mai prima d’ora, a differenze politiche.

    Fin da quando ero ragazzo i vari stereotipi etnici erano fonte di molte battute tra amici e familiari. La differenza era divertente. Ma al di là delle battute sapevamo che, proprio come non c’è fumo senza fuoco, così le nostre differenze, per quanto evocate con leggerezza, erano reali e persistenti.
    Nella campagna per le elezioni parlamentari e presidenziali del 2007, quelle che in precedenza erano state battute si sono trasformate in sms paranoici e odiosi.

    L’intenzione era dividere il paese in settori tribali da sfruttare per conquistare voti.

    Io sono kikuyu come il presidente Mwai Kibaki, perciò da me ci si aspettava automaticamente che fossi pronto a votare per lui. In molte conversazioni politiche avute coi miei parenti,l’avversario non era più il Movimento Democratico arancione (Odm) in quanto partito politico, ma l’etnia luo a cui appartiene il suo leader Raila Odinga.
    Molti kikuyu erano convinti che l’opposizione fosse decisa non solo a vincere le elezioni e ad avviare un nuovo corso politico, ma anche a distruggere il paese e tutti i kikuyu.
    Mi dicevano che eravamo davanti a una battaglia all’ultimo sangue, dove il vincitore avrebbe preso tutto e mandato in rovina lo sconfitto.
    Anche l’opposizione era guidata da calcoli etnici simili, anche se la sua strategia era creare un’alleanza delle altre etnie contro la determinazione kikuyu a conservare il potere a ogni costo.
    Tre anni fa, in Ruanda, ho intervistato una donna incarcerata per avere partecipato al genocidio del 1994. Mi è rimasta impressa la sua risposta alla domanda su quando fosse cominciata la pianificazione del genocidio.
    “La guerra – disse – è cominciata quando ero ragazzina, negli anni 70, e gli altri bambini mi prendevano in giro perché avevo le gambe da tutsi”.
    Vent’anni dopo la lunghezza delle gambe avrebbe determinato chi doveva morire e chi restare in vita a un posto di blocco.
    Immaginate per un attimo uno di quei bambini che la prendevano in giro, divenuto adulto e con un machete in mano, davanti auna ragazza senza carta d’identità ma con le gambe lunghe ed esili.

    Per gli uomini riuniti intorno ai tavolini della piscina di Serena Hotel, i partiti non sono espressione di differenze ideologiche o politiche. I loro leader sono impegnati in una lotta all’ultimo sangue per una politica che immaginano come un sistema di saccheggio.
    Questa lotta per ottenere una fetta più grossa della torta ha portato divisioni e a una retorica odiosa. Siamo come bambini attratti dal fuoco o da quello che si nasconde oltre l’orlo di un dirupo, curiosi forse di mettere alla prova i limiti della nostra pace dopo aver criticato per decenni le guerre nei paesi vicini.
    Da qualche anno i keniani osservano il panorama politico indossando lenti tribali.
    E in questa analisi molto kikuyu come me vedono nell’odm un nemico esistenziale, non solo elettorale. Essere avversari di Kibaki, o perlomeno suoi oppositori (come lo sono la maggior parte delle province del paese e almeno il 45% degli elettori), era considerato da molti sostenitori del Partito di unità nazionale un atto ostile verso la loro esistenza e la loro sopravvivenza collettiva. Una sensazione analoga era diffusa tra molti seguaci dell’Odm. Si stava preparando la strada per le violenze scoppiate nel paese nelle ultime settimane.

    In politica la percezione è realtà. E la realtà della politica, il suo significato fondamentale, nei rari momenti in cui si pesenta la massima chiarezza, è che si tratta di una battaglia senza esclusione di colpi tra amici e nemici. Molto keniani hanno scelto i propri amici e nemici in base all’apparteneza e all’identificazione tribali.
    E’ una battaglia soggetta al principio dell’escalation. Alla paranoia di una parte corrisponde quella dell’altra, a una voce un’altra, e si inviano sms che sembrano rispecchiarsi a vicenda nelle loro rivendicazioni vittimiste e aggressive.
    Questa escalation, già molto evidente, lascia presagire la spaventosa possibilità di una guerra di tutti contro tutti.

    Se davvero la politica è un fatto di amici contro nemici, allora è fondamentale il modo in cui definiamo chi sono i nostri amici e chi i nostri nemici.
    E’ questo l’abisso su cui si sta affacciando il paese.
    La campagna elettorale ha trasformato la mappa etnica del paese in mappa politica. Ogni keniano, a prescindere dalla sua appartenenza e dalla sua fedeltà a diverse identità, è oggi avviluppato (forse anche imprigionato) in un collettivo tribale che lo costringe ad esprimere fedeltà alle persone che lo compongono, indipendentemente dai loro reati o errori. La sua natura è antagonistica, il suo linguaggio è quello della vittima.
    Le società precipitate nella violenza politica quasi mai ricevono avvertimenti. I momenti precedenti allo scoppio sono caratterizzati da una retorica politica all’insegna della ragionevolezza, un messaggio lanciato da tutte le parti quando parliamo in pubblico. Ma nelle conversazioni private e nei discorsi cifrati alla loro “parte” si pronunciano invece messaggi di odio, con la bava alla bocca, che servono a conquistare voti. Nell’ultimo anno di campagna elettorale si sono moltiplicati i sospetti e le voci di fantasiosi complotti.
    Un opuscolo ritrovato in Ruanda subito dopo il genocidio del 1994 spiegava come spingere gli hutu ad odiare i vicini tutsi: “Non sottovalutare mai la forza del nemico, né sopravvalutare mai l’intelligenza delle persone a cui vi rivolgete. Cercate col vostro linguaggio di identificare il nemico con tutto ciò che è temuto e odiato. Bugie esagerazioni, ridicolizzazioni, insinuazioni: tutto questo serve abilmente l’obiettivo di conquistare gli indecisi, di seminare confusione e divisione tra i contrari. E questa libertà dai confini della verità spalanca la porta a una tecnica potente per seminare paura e odio: l’accusa speculare”.
    L’accusa speculare: è questa la tattica politica più diffusa in Kenya.
    Accusare l’altra parte di truccare il voto mentre è proprio quello che stai facendo tu. Accusare l’altro di voler rubare il tesoro mentre sei tu a farlo o è quello che speri di ottenere arrivando al potere. Entrambe le parti si dicono vittime, e i loro cinici atti di manipolazione sono pensati per somigliare a una reazione al “nemico”.
    Nella Rift Valley, a Kimusu e a Nairobi, i giovani roteano in aria i machete, pronti a distruggere finalmente il nemico.

    Quello che la maggior parte di questi giovani non sa è che il Serena Hotel e altri luoghi simili, simbolo di privilegio e ricchezza, ospitano la stessa classe politica che ha deciso chi sono gli amici e chi i nemici dalla Rift Valley al Kenya centrale.

    Il 3 gennaio, mentre la polizia disperdeva i manifestanti dell’opposizione a Uhuru Park, io mi trovavo appena dietro il recinto del Serena Hotel, seduto accanto a gruppi di politici che, tra un drink e un croissant, tutto facevano tranne che eliminarsi a colpi di pulizia etnica.
    Sussurravano al telefonino i messaggi che incitavano i giovani di tutto il paese alla violenza, in nome di una classe politica pronta a sacrificare le nostre stesse vite sull’altare del potere.

    (Martin Mbugua Kimani, the East Africa, Kenya)
    dall’Internazionale 11-17 gennaio 2008

    Ringrazio Helena.

    A tutti i commenti che lamentano: ma quale diritto abbiamo noi, intellettuali occidentali nella bambagia, di prendere posizione, rispondere a lettere, testimonianze come queste…?
    penso non il diritto, ma il dovere, in quanto intellettuali, in quanto nella bambagia, perché la forza di farlo quando sono ben altre le esigenze primarie, come nel caso dell’autore di quella lettera, non è da tutti.

    A Tashtego e a quanti credono che, all’opposto, si tratti di problemi interni a un popolo, a un odio razziale di lunga data e roba del genere…sbagliato!
    altro che convogliare sul kenya i nostri sensi di colpa, il tuo ragionamento invita a lavarsene la mani.
    Il kenya era un paese tranquillissimo fino a queste maledette elezioni, lo so per certo perché ogni anno dalle mie zone partono numerosi gruppi di volontari che si danno da fare per ospedali e orfanotrofi precisamente in Kenya, ancora quest’estate non c’era ombra di quell’odio etnico e razziale che in pochi mesi è precipitato in carneficina.

    Sia la lettera del Patriota che l’articolo del giornalista da me riportato dicono a chiare lettere che sulle differenze tribali si scherzava con leggerezza. L’africa è un continente che conta non so quante tribù e dialetti, eppure tutti convivono serenamente, non solo tra loro, ma anche con noi stranieri, l’ospitalità degli africani è nota a tutti.
    I motivi dei conflitti sono sempre di altra natura, il Kenya è diventato uno dei paesi africani che ha conosciuto una crescita e un progresso notevoli negli ultimi anni, qui non si combatte come nella repubblica Democratica del Congo per la penuria di prodotti di prima necessità, non che non esistano zone periferiche immerse ancora in uno stato di estrema indigenza, ma è il Kenya a guidare lo sviluppo dell’Africa orientale, e L’Ue ha molti interessi in Kenya, almeno di questo, tashtego, siamo responsabili, concordi?
    I conflitti etnici sono le armi di distruzione che adoperano i politici locali.

    Anche in Tanzania, un mio amico originario di quella terra mi ha detto: “noi viviamo in pace. il paese è tranquillissimo, ospitiamo spesso rifugiati provenienti dai focolai di guerra, ma non so fino a quando durerà. le elezioni sono sempre una farsa: la gente crede di votare e cambiare i rappresentanti al potere, ma in realtà esiste una sola fazione che si ripartisce in tanti piccoli partiti e resta sempre la maggioranza. finché non c’è reale opposizione tutto va bene. i politici ingannano la gente e la gente sopravvive e o perché ignorante e all’oscuro di tutto, o perché non c’è alternativa, e se ne resta tranquilla.
    il giorno in cui si presenterà una vera opposizione, dio solo sa cosa accadrà!”

    Io non sono un politico, né un intellettuale, ma mi chiedo, dal momento che è possibile innescare questi conflitti a tavolino, perché non sia altrettanto possibile, sempre a tavolino, disinnescarli?
    Sicuramente si tratta di complesse dinamiche che uno sviluppo accelerato e caotico si trascina dietro travolgendo sacche di resistenza e altri sedimenti, ma, anche se non ho idea di come, non penso che dovremmo restarcene ammutoliti a guardare, deve pure esserci una maniera, qualcosa da fare, aiutare a trattare, se non riescono a farlo da soli, trattare, mediare…deve pur esserci una maniera

  17. Grazie Maria: quel che mi colpiva nel caso del Kenya è la sensazione che quel genere di dinamica che in meno di un mese distrugge un paese in ogni suo aspetto non sia specificamente africana.
    Per il resto, boh. Io quel testo l’ho avuto da chi non per niente un intelettuale, non penso che bisogna essere intellettuali per avere cinque minuti di tempo e disponibiltà per leggerla e soffermarsi su questa porzioncina di “dolore del mondo”. Non ce lo ordina il dottore, non ci rende migliori: certo che no.
    Essere engagé o desengagé, criticamente dissilusi o che so io, come posizionamento-base: ognuno si regoli come gli pare, se questo è il problema.
    Poi credo che spesso le parole per esprimere un sincero coinvolgimento possano uscire sopra le righe, specie in un commento.
    Infine non mi interessa sapere se e fino a che punto questa lettera sia autentica, ossia se il suo autore si sia effettivamente ammazzato dopo averla scritta. Anzi vi dico: preferirei di no.

  18. ancora una volta fratelli contro fratelli, nazisti contro ebrei, serbi contro bosniaci, serbi contro albanesi, turchi contro curdi, utu contro tutsi ecc. ecc.

    l’uomo fa schifo. il popolo fa schifo. le elezioni fanno schifo. la democrazia fa schifo.
    punto.

    vi meraviglia ancora?

  19. @maria valente
    “A Tashtego e a quanti credono che, all’opposto, si tratti di problemi interni a un popolo, a un odio razziale di lunga data e roba del genere…sbagliato!”
    non credo affatto questo.
    ho cercato di porre delle domande, mi pare sensate, al di là del solito mea culpa.
    il signor Martin Mbugua Kimani dice con molta chiarezza delle linee di frattura etnica pre esistenti nel paese, parla di uso politico di queste fratture.
    a volermi leggere con un po’ di attenzione ti accorgeresti che dico la stessa cosa.

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helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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