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Alcune ragioni per non firmare gli appelli

manganelli-panino.jpgdi Giorgio Manganelli

Quando le da sempre rugginose ruote della Storia, vale a dire della ‘Geschichte’, si mettono a cigolare e fremere, e si apparecchia l’avvento di un qualche glorioso ‘jaggernaut’; e le magnifiche sorti e progressive cominciano magnificamente a progredire; quando, da qualche parte, esplode un subitaneo geyser di ottimismo, cui si accompagna un brusco incremento di fragorosi decessi; allora, se figgerete gli occhi miopi nei cieli obnubilati, vedrete trascorrere foschi angeli di tempesta, librati su inchiostrosi remeggi di penne, donde fuoriescono riccioluti ciuffi di firme. Sono, codesti volatili procellosi, appelli, proteste, manifesti. Il nostro tempo, decorosamente calamitoso, è fecondo nido di siffatti volatili: e poiché frequentano le nostre gronde, e parte ci insidiano parte ci minacciano coi loro stridi educativi, varrà forse la pena di indagarne costumanze e destino.

Considerato come genere letterario, l’appello copre una angusta area di quello che fu il gran regno dell’oratoria. Cicerone lo collocherebbe tra i discorsi ad animos permovendos, che vogliono dimestichezza con gli ascoltanti, devozione alle loro passioni, ai loro pregiudizi, ai capricci ed agli imperativi locali; ove occorra, vogliono lacrumas, sconvolgente chiome, supplosio pedis, lacerate tuniche a disvelar ferite; anche sventolio di orfani. Non proponendosi di ‘docere’, vale a dire fornire informazioni, ma solo movere, non ha doveri di veridicità, ma anzi di opportuna manipolazione. Mutolo persuasore, il testo dell’appello deve far supporre gesti impetuosi, tragici pallori, voce rotta o nobilmente asseverativa. Osserveremo che, nella geografia della decaduta oratoria, la repubblica degli appelli è contermine ad altra regione, un poco più monotona e sommaria, ma singolarmente consanguinea: intendo riferirmi al granducato degli epitaffi.

Confesso di avere in tal qual dispitto gli appelli; proprio come i mendicanti, specie i mendicanti con cane. Coltivo un atteggiamento ragionevolmente liberale verso gli accattoni di sobria oratoria, meglio se affatto impediti nella parola; non disamo le petulche zingaresse, tanfose e blasfeme; ma detesto i tremuli e queruli, che mi sgambettano con l’acquasantiera del supplice palmo, assistiti da cani sicari, prezzolati amici dell’uomo, dal capino inclinato e dagli occhi acquosi. Ben conosco il loro divisamenti; inchiodarmi alla mia ‘anima’, scatenare nel mio ‘cuore’ struggimenti e palpiti. «Oh tu ricco, tu sano, tu bella donna, tu assai e begli figliuoli, bella famiglia…» «Non una lira, figlio mio; fratello di sangue, non un baiocco; sventurato! non un tozzo di pan secco; non impunemente si scatenano nel cuore dell’uomo i demoni della bontà». Di quei cagnolini ordino un tappeto; e vivi hanno da essere.

Raramente accade che la mia firma sia giudicata idonea ad accrescere il valore suasorio di uno di codesti sermoni o messaggi. Tuttavia accade talora che qualcuno, ansioso di annerire i più remoti margini del suo candido foglio, per ozioso, languido zelo, per missionario fervore, ben sapendo che c’è sempre posto per chi vuole dar opera ad una buona causa, mi solleciti a dipanare la mia matassina di compartecipe inchiostro. Ma ecco: non appena il seduttore mi rivolge la parola, io mi sento immerso in un incubo benevolo, uno di quei sogni elastici e vischiosi da cui non si esce né per urlo né per strattone: percorro un miele, una cotognata di idee generali, di volti amichevoli, di ‘tableaux vivants’ angosciosi e minatori. Difficile schermirsi: giacché appena si abbozza un peritoso diniego, subito avvertiamo non solo negli occhi degli altri, ma nel nostro stesso cuore, e intendo appunto cuore, un cauto disagio, un perplesso stupore, cui si potrebbero prestare all’incirca queste parole: «Sapevo che eri un bastardo, un vigliacco e altro ancora; tuttavia supponevo che un’elementare decenza ti avrebbe impedito di dichiararti favorevole allo sterminio degli infanti, alla deportazione dei vegliardi, alla guerra atomica preventiva e alla distruzione dell’umanità». Ingrata situazione. Arduo rompere il sillogismo: «ti presento un appello contro l’arsione dei civili, tu ti rifiuti di firmarlo; trai tu stesso l’inevitabile conclusione». Ecco, questo sottaciuto sillogismo è il cane sicario. Come quel cane, lui appunto è l’autentico, irreparabile bastardo.

Ovviamente, come molti altri assai più galantuomini di me, anch’io sono ostile al bruciamento indiscriminato dei bambini; quando i sergenti del rancio mettono la censura sulla stampa, io tentenno il capo; se leggo che si vogliono passare a fil di spada i docenti di matematica, metto su una mutria corrucciata e disapprovante, come nemmeno potete immaginare; se mi si annuncia una precipitosa strage di ecclesiastici, faccio «eh, eh». Dunque, la mia coscienza è pulita, il mio cuore batte dalla parte giusta, non mi sottraggo alle mie responsabilità storiche.
E tuttavia un oscuro riflesso condizionato mi spinge a contendere la tiepida carne dei miei affetti all’onesto avvoltoio di un appello, che pure fa più o meno quel che faccio io, con le manifestazioni di protesta sopra elencate.

Tutti conoscono la vecchia leggenda dei Prossimani del diluvio. Secondo questa bella tradizione, il diluvio non devastò l’intero pianeta, ma solo una parte, la più prospera, ampia e fittamente popolata. Quando prese a piovere e i fiumi si ingrossarono e la gente prima inumidita, poi seccata, poi travolta si diede alla fuga pei campi, le tribù viciniori presero a deplorare la situazione. In ciò agevolati dal clima ragionevolmente sereno, gli uomini migliori di quelle razze si raccolsero in luoghi aprichi; erano uomini colti, intellettuali, fondatori delle arti, smaliziati manipolatori di sintassi. Si misero in capo di redigere un documento: il che essi fecero presto e bene. In quel testo, costoro, rivolgendosi alla Nuvole – giacché rivolgere direttamente la parola all’iracondo Dio diluviante poteva prestarsi a interpretazioni che poi sarebbe stato difficile rettificare – ‘fecero notare’ come fosse contrario ad ogni consuetudine piovere così a lungo, tanto e in un posto solo; ‘deplorarono’ la devastazione dei campi e delle greggi; e inserirono un bel pezzo sui bambini annegati, che era cosa di grande e semplice bellezza. Proseguendo, ed anzi via via incanagliendosi le piogge, i valentuomini si riunirono di nuovo, e – mentre un comitato di femminette preste di dita e conocchie si davano a far golfini – elaborarono un secondo documento, che era senza alcun dubbio accorato. In questo ‘si denunciava’ l’indifferenza delle piove alla pubblica opinione e si ‘reclamava’ a) l’immediata cessazione del diluvio, b) la restaurazione del ciel sereno, «inalienabile diritto di tutti i cittadini», c) l’impegno a non piovere più, se non nelle forme e nei limiti consacrati dalla tradizione. Il diluvio continuò, e le brave donne allungarono i golfini adattandoli a comodi sudari, qualche dabbene scrisse una lettera aperta sulla «inutile strage», che ancora si legge nelle scuole. Si narra anche che mentre l’incaricato banditore a gran voce leggeva alle Nuvole il messaggio, più su il Numinoso Caprone si rotolasse sui bronzei planciti dell’empireo, percotendoli con la latitudine delle arcaiche chiappe, e traendone un clangore di aureolata letizia.

Didattica, anzi rudemente didascalica, la fola ha forse qualche attinenza con il genere letterario che andiamo esaminando. Tema sommamente idoneo è il diluvio altrui; ché allora commosso ma non travolto, «recollecting in tranquillity» come suggerisce Wordsworth, l’estensore può diteggiare tutta la tastiera dei motivi oratori, sfoggiare la tavolozza dei colori retorici, e mobilitare i lupanari delle veneri dello stile. Il diluvio sia possibilmente ‘in progress’, per godere della angosciante, titillante dilazione, secondo l’antica divisa, «ritardato dolor cresce non poco». È bene contenga una perentoria richiesta di fare o disfare alcunché: richiesta tanto più imperativa in quanto affidata ai persuasivi argomenti della logica, del buon senso, dell’onestà, della comune umanità; qualità appunto di cui si sa affatto privo il destinatario dell’appello, come sarà detto in altra parte, possibilmente preliminare, dell’appello stesso. È bensì vero che codesto destinatario generalmente si rifiuta di sospendere le stragi dei civili, restaurare le conculcate libertà, liberare i carcerati innocenti e disimpiccare gli avversari politici; ma è anche vero che ci fa una pessima figura.

L’appello di rado evita di cadere nel missionario; e v’è chi se ne turba. Certo, tutti sanno quanto siano rudi e per nulla pensosi di sé e degli altri gli edili e i villici; dubito, tuttavia, che se andremo ad avvertirli che la guerra atomica fa male, quelli si metteranno a scuotere le teste dialettali, chiosando: «Beh, se lo dicono quelli, qualcosa di vero ci deve essere». Certo, non ci stancheremo mai di ripetere che non si debbono strappare le unghie ai dissenzienti, che è scorretto massacrare civili; tuttavia i concetti mi sembrano piuttosto bene espressi, che non
assolutamente nuovi. È fazioso notare che di rado gli appelli hanno un sapore intenso, di rado esprimono propositi aspramente provocatori? Anche Cicerone notava come, per irretire gli animi ad un impetuoso ed effimero assenso, occorre tenersi all’ovvio, movimentare luoghi comuni.
Certo, a firmare o compilare codesti documenti «si ha ragione»; ma non v’è una qualità corruttrice, qualcosa di stranamente degradante nell’«aver ragione», quasi quanto nel vincere una guerra?

Tra i Prossimani dei diluviati non v’è concorde opinione su codesto problema delle proteste. Secondo alcuni, dopo tutto che altro si poteva fare? Altri affermano che meglio e più di una
mozione degli affetti, possa servire un discorso, oscuro forse, rotto e allusivo, largamente inesatto, certamente coprolalico e blasfemo. Ma cosa significhi “servire” in questo contesto, e quali siano i sagrati, e le lacune, e gli irreparabili errori, in cui esprimere il nostro radicale dissenso, questo resta controverso.

(da Lunario dell’orfano sannita, 1973)

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20 Commenti

  1. manganelli è fin troppo sottile sul narcisismo dei “sottoscrittori”.
    ma bello comunque.
    grazie a garufi

  2. Sergio, hai ragione che Manganelli è fantastico. Mi ricorda a un certo punto, irresistibilmente la favoletta di Gadda: “L’autore non ha limosine pei musicanti. Lo ha detto, scritto e stampato. (In pratica, pusillo, gli molla lire dieci.)” Grazie.

  3. Che bisogno avete di chiedere la firma di un appello a favore dello stato di israele? siamo in un paese dove la libertà di parola e scritto costa nulla poichè vale meno di nulla (la libertà), quindi nessuno vi vieta di tifare per uno stato che è diventato nazista contro tutte le speranze dei suoi figli migliori. Non infilate di nascosto l’antisemitismo per difendere chi stermina, giorno dopo giorno, il popolo palestinese: voi siete liberi di chiudere gli occhi e le orecchie però potete con merito urlare a squarciagola che amate e tifate per il nazismo dei giorni nostri.
    W la libertà (vostra).

  4. Il godimento indotto dalla funambolica prosa del Lunario non esime da un minimo di riflessione. L'”appello” è normalmente irritante perché normalmente scontato (lo scannamento delle foche prepuberi, la contaminazione radiattiva dei campi di genziane, etc.). L’appello innovativo, l’appello minoritario, insomma l’appello perdente possiede viceversa una forza, una bellezza (fosse anche retorico o mal scritto) che incuriosiscono fino alla condivisione. Sottoscrivo l’appello contro le esternazioni infinite di Ratzinger perché, a parte noi quattro firmatari, il resto dell’universo ne sarà scandalizzato e allibito: insomma, è un modo per esistere. E (almeno in questo caso) per resistere…

  5. Gianfranco Mazza, non hai capito: questo post è contro la firma dell’appello, così come i post di Andrea Inglese qui adiacenti. L’appello è stato firmato da molte persone, tra cui alcuni redattori di nazione indiana, ma non dalla redazione del blog nazione indiana.

  6. Già che ci sono, aderisco anche a questo:

    * In un brano di musica, il fatto stesso che esistano simultaneamente due o più voci conferisce a ognuna legittimità, e nella musica occidentale non esiste mai un racconto unilaterale; il dialogo contrappuntistico presenta sempre almeno due racconti nello stesso movimento e consente a ciascuno di presentarsi nella propria pienezza, mai però di parlare senza una controparte che sostiene, contraddice e completa la sua esposizione. Il racconto israeliano e quello palestinese – la loro opera di costante revisione e riscrittura della propria storia – si trovano nel medesimo stato di interconnessione permanente che esiste fra soggetto e controsoggetto di una fuga. Senza il controsoggetto, non c’è fuga. Nè si può dire che il soggetto abbia un’importanza maggiore del controsoggetto, poichè è una una realtà obiettiva che senza l’altro nessuno dei due ha una collocazione logica.*

  7. 1500 parole per criticare il narcisismo di chi firma non sono un brutto esercizio di narcisismo…
    saremo anche nani sulle spalle di giganti, ma invece di vestire le penne di un genio come manganelli forse sarebbe stato meglio scriverne di proprie. vabbè.
    detto questo, nonostante abbia scelto come nick il nome di un cabalista non sono certo un sionista ma tutte queste polemiche mi sembrano l’ennesimo tentativo riuscitissimo da parte della sinistradi rendersi più ridicola delle caricature che gli altri ne fanno.tafazzi docet.

  8. Impensabile che nel xx secolo sia esistito qualcuno capace di scrivere così male come tale Manganelli per il Lunario. Forse Oscar Giannino a confronto può persino sembrare un uomo al passo coi tempi, oltre che retoricamente più sostenibile. Una retorica macchinosa al punto da lasciar intendere ( li si) gli ingranaggi che stridono, col solo risultato di mascherare il vuoto ideologico alla base a forza di generose pennellate di narcisismo. Il tutto condito da melensaggini in quantità tale da assicurarsi un diabete coi fiocchi.
    Sottoscrivo l’appello.

  9. Ho un amico studioso e di rara eleganza di tratto, il quale disapprova gli elefanti […] Ho un pronipote, vergogna della famiglia, recentemente incarcerato per aver attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali.[…] Dal carcere egli invia lettere ai parenti e ai partiti, in cui afferma che i francobolli sono immorali, e specialmente corrotti gli espressi, causa dei suoi e nostri mali. Il suo argomentare è confuso ed esagitato: ma l’accusa è certamente in buona fede.
    Non gli ho mai risposto: anch’egli è un intollerante, e sto abituandomi a tollerare gli intolleranti.

  10. Pur amando e tanto Manganelli trovo questo pistolotto lunariesco noiosissimo,
    manco per di più sapevo dell’appello, la sottoscrizione, quelcheè, orca,
    tanto ne facevo a meno

    MarioB

  11. che dire, ragazzi, io se proprio devo aderire a un volatile scelgo solo e unicamente la passera mattugia

  12. Ci abbiamo messo trecentocinquanta anni per liberarci da Giambattista Marino per ritrovarci su Internet con la prosa di Manganelli. Vabbè, poi dicono il Progresso.
    Le mia più sincere mutrie asseverate di dispitto petulcoso a tutti.
    Io firmo.

  13. Negli anni settanta il pezzo di bravura di Manganelli contro l’obbligo all’impegno poteva avere un senso. Oggi sa di snobismo irritante. Il prestigio degli intellettuali è a terra da un pezzo. Un appello di scrittori ha la stessa rilevanza politica di un appello di salumieri; anzi, la storia insegna che forse i salumieri hanno qualche chance in più.
    Chi rinuncia a un pezzetto di ego e di stile per sottoscrivere una posizione comune, anche se discutibile o velleitaria, merita comunque rispetto.

    Quanto alla Fiera del Libro: capisco le ragioni dei sostenitori del boicottaggio, ma bisogna rendersi conto del fatto che, per come funziona la comunicazione oggi, i boicottaggi sono controproducenti. A parti invertite, generano lo stesso effetto della censura: pubblicità involontaria. Si pensi alla corsa a farsi censurare di molti artisti mediocri durante il primo quinquennio berlusconiano (fenomeno che sarà probabilmente reso impossibile da un uso più sofisticato della censura nel prossimo quinquennio/decennio).

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di Sergio Garufi
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Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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