Un viaggio con Francis Bacon # 2

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di Franz Krauspenhaar

Per vincere la stanchezza provata per l’opera compiuta si consiglia di donarsi con pieno disinteresse ad altre arti. Dopo un lungo periodo di infatuazione per la musica, e senza aver imparato a suonare nulla più del glorioso campanello di casa, ho da qualche anno trovato il mio asessuato riposo del guerriero nella pittura. Un’arte simile alla scrittura, non foss’altro perché nel frequentarla si possono evitare accuratamente scuole, accademie, corsi a pagamento e parrocchiali. La pittura la si può facilmente disimparare fin dalla prima lezione nelle accademie; e imparare, dopo acuti sforzi per raggiungere un certo grado di oblio del passato, da soli, pasticciando con la propria creatività e con la propria capacità di trasgredire, stando però attenti a non intaccare poche, indispensabili regole del gioco.

Si può imparare a dipingere a orecchio? Credo di sì. Certo, paradossalmente, è la musica l’arte che abbisogna di maggiore preparazione tecnica, ma è anche lascivamente la più pronta e disposta a donarsi agli improvvisatori. Il jazz insegna, anche se i jazzisti che non conoscono la musica –perversione nella perversione – sono pochi e solitamente sconosciuti.

Ieri rivedo attentamente Love is the devil, il film sul genio del cineasta inglese John Maybury, del 1998, con uno straordinario Derek Jacobi nei panni di Bacon. E’ un Portrait of Francis Bacon, come recita adeguatamente il sottotitolo. Questo amore che è demonio sta nel bel mezzo e anche oltre di questo ritratto. Non abbiamo a che fare con una biografia, dunque, ma con un ritratto, dell’uomo e del suo amore, dell’artista geniale e del compagno di un significativo tratto di strada, George Dyer.

E’ il rapporto tra l’intellettuale e il suo amante che viene dai sobborghi, il pugile, il sempre sconfitto. E’ un pugile omosessuale, George, pertanto si è votato alla violenza anche fuori dal ring. Non che moltissimi cosiddetti amori eterosessuali non siano incrinati – è proprio il caso di dirlo – da violenze di tutti i generi, ma nei rapporti omosessuali, in molti di questi, io credo ci sia una spinta maggiore a vivere il sesso e il sentimento in maniera estrema, come se solo al limite si potesse riconoscere intrinsecamente un valore al rapporto. Nel perso per perso. C’è forse un implicito senso di colpa dato da una morale borghese. E poi è la mascolinità che fa a pugni con l’altra, speculare, mascolinità. C’è il rapporto col proprio doppio, dissimile fin che si vuole ma presente con la propria faccia riflettente, dalla quale è impossibile scantonare lo sguardo di riconoscimento. L’uomo  fatalmente ama poco se stesso – figuriamoci un altro che gli somiglia, che gli ricorda la propria pena di vivere. E’ uno stringersi disperato e un lasciarsi continuo, un elastico teso, fino a spezzarsi a più riprese, dei loro forti, viscerali sentimenti.

Nel film mi colpisce di nuovo la disinvoltura sadica con la quale Francis – siamo nel ’64, ormai è famoso anche se non quanto merita – sparla di George alla sua compagnia di amici piuttosto freak, al pub. Ecco, Bacon si fa vedere la sera, finito il duro lavoro allo studio, che si rilassa bevendo un bicchiere dopo l’altro e fumando una sigaretta dopo l’altra. Fa del basso pettegolezzo contro George ma anche, inevitabilmente, contro se stesso. L’amore è un demonio, si nutre di disprezzo esibito, come in una commedia di Harold Pinter, ma come se nel Pinter messo in scena da Bacon ogni laconicità minacciosa si fosse aperta, a volte persino spalancata; è un Pinter che s’è lasciato andare alla rabbia a sua volta di un Osborne che nel frattempo – sono passati circa dieci anni da Look back in anger – si è fatto non dico furbo, ma certamente abbastanza raffinato negli approcci col mondo. Bacon conserva una buona educazione datagli dai genitori borghesi – padre ufficiale dell’esercito. E’ nato in Irlanda ma è inglese di razza e propensione, snob fino all’inverosimile. L’Inghilterra è terra dura, di gente abituata, ancor più dei tedeschi, a poche tenerezze. Se il tedesco si sfoga nel sentimentalismo, e nei casi migliori nel romanticismo, l’inglese se la fa addosso, nel senso che ritiene idrici scoppi di sentimenti tutti dentro il suo educazionale self.

Il pub somiglia a quello dove George Roper, il marito disoccupato di Mildred, va a rifocillarsi la sera; parlo della coppia protagonista di una delle sitcom più famose della BBC, prodotta negli anni ’70, con una strepitosa Yootha Joyce, attrice inglese di grandissimo talento. Voglio dire che lo snobismo di Bacon arrivava ad altitudini mai raggiunte, e dopo lo studio, lui che poteva permettersi i locali di grido, finiva invece coi suoi amici in un pub direi qualsiasi, a parlar male del suo amore alle corde del ring della vita, come un working class man qualsiasi.

Il regista tenta la strada della rappresentazione caotica: correttamente, a mio avviso, e per due ragioni: la prima è che uno spezzone di vita non può essere prodotto da un punto di vista filmico con una consequenzialità da cinema classico. La narrazione deve essere impressionistica, circolare, deve suggerire talvolta, mostrare fino in fondo altre volte, ma mantenersi nella maggioranza dei casi nel riserbo di una complessiva, sfumata suggestione. La seconda ragione è che ci troviamo di fronte proprio a Bacon, colui che ha sempre amato il caos e le atmosfere caotiche. Il caos del suo studio – che Maybury non suggerisce però più di tanto – era proverbiale, e parecchie fotografie, oltre alla parola di testimonianza del pittore, ne sono la prova. Dunque per filmare un pezzo di storia di Bacon era necessario andare oltre il racconto, esporre una sorta di lungo polittico filmato: fatto di istantanee della sua vita permeate proprio da quei colori accesi che erano il marchio delle sue opere. E non solo: più volte, soprattutto quando la macchina da presa si sostituisce all’occhio del pittore, e diventa così l’io silenziosamente narrante, le figure attorno al suo sguardo impietoso si sfaldano, come si sfaldano le figure dei suoi quadri. I connotati dei visi, visti quasi tutti di profilo, si allungano e si perdono contro gli sfondi, producendo scie di luce e colore. Una scelta coraggiosa, che dimostra ancora una volta come il cinema inglese sia spesso una spanna sopra a quello americano. Paragoniamo infatti Love is the devil con Pollock di Ed Harris. Nel Pollock, che Ed Harris ha anche interpretato e prodotto, c’è la biografia riassuntiva: si cerca di parlare del grande seminatore della pittura americana dagli inizi, alle prese con l’espressionismo astratto (filone nel quale un Willem De Kooning è molto più ferrato, e i risultati si vedono) fino all’esplosione geniale dell’action painting, peraltro solo una fase della sua esperienza. In mezzo, una noiosissima e ormonale Peggy Guggenheim in visita, mercanti, il critico di fiducia, la brava moglie, la fedele bottiglia. Ma tutto edulcorato, con quell’ansia magniloquente di rendere tutto didascalico, quasi il cinema dovesse insegnare e non esprimere. Si salvano le scene d’azione – proprio la visione dell’ action painting mossa da un Harris straordinario e abbastanza somigliante all’originale, che diventano riproduzione fantastica di qualcosa – attinente al miracolo – che è veramente accaduto.

Rivedo il bel film su Bacon, che non lascia molto spazio all’intrattenimento, e corro per empatia di vecchio cinefilo su sentieri d’incubo, di paura. La vita non è una vacanza, dicono i padri e i saggi, e anche il cantautore Franco Califano in una sua sconosciuta canzone sui giovani di qualche anno fa. Quello di Bacon fu un viaggio in solitaria, questo è certo. L’artista di valore non può che essere un solitario, un uomo o una donna che si sono scelti soli in un mondo di illusi alla condivisione. Se condivide, è per il terrore di ricordarsi quello che in fondo a se stesso sa di essere, una monade suo malgrado impazzita nel cosmo dei folli volanti in solitaria.

Finita la visione, raggiunto il mio cane (così chiamo il mio computer, il più fedele amico dell’uomo contemporaneo) scrivo questi pochi versi, che intitolo indegnamente L’arte di Bacon.

L’arte è violenza, i gusti sono gusti
e colori freddi, i primari della vita, della morte
fienile sparso di amara pioggia,
laboratorio di immagini, crudo a sangue
di vita a ferita, abrasa, e atmosfere caotiche.
Senza interpretazioni, ognuno dica la sua,
ognuno veda quel che vuole vedere.
Tutto sembra crudele perchè la realtà
è crudele, non c’è scampo, il leone
è ferito e ancor di più azzanna, senza posa.
E così, l’uomo, lasciato con la disperazione
che si abbassa e si spande sulla tela
– l’ingrediente d’ogni colore e forma-
si voltola nella fuga dal mondo, diventa
cerchio magico, di fuoco, che ravviva e vivifica
su segni di morte e sofferenza.
Da ogni taglio viene fuori ciò che ci vive
come dal taglio della donna, al parto,
fuoriesce il neonato, condannato.

In pratica racconto ciò che ho visto. La poesia, buona o cattiva, me la sogno e me la vivo a modo mio come racconto e ritratto. Un quadro è una poesia narrativa, il più delle volte. Così mi azzardo a sintetizzare – magari in modo un po’ semplicistico – cosa è l’arte di Bacon per come l’ho vista nel mio home theatre.

Ma è stato proprio così? No, infatti. Piuttosto, ho archiviato la pratica Bacon con pochi versi – cavandomela a buon mercato, per pochi attimi – attingendo a tutto quello che credevo di aver capito sulla sua arte. Non riuscendo a pensare nulla di veramente originale, ho espresso questi vieti pensieri in modo per così dire “alto”.

Se la poesia – soprattutto per un romanziere stanco – è spesso una scappatoia – e per alcuni è una scappatoia talmente ben orchestrata che diventa una vera fuga da Alcatraz (non quella di Burt Lancaster, ma quella di Clint Eastwood) – la prosa critica, o presunta tale, è un lavorio di nervi tesi non indifferente. Cercare di viaggiare assieme a Francis Bacon significa sporsi dalla balaustra del traghetto, e guardare il vuoto. Non c’è che vuoto, in Bacon. Un vuoto rosso, dai colori comunque accesi, un vuoto che ci riporta alla nascita, a quel “neonato, condannato”, di cui ho scritto come al solito con poca pietà.

Ecco, per quanto mi ci sforzi, non riesco a trovare la pietas – da ogni uomo minimamente umano tanto ricercata – nei lavori di Francis Bacon. Trovo dolore a migliaia di chilometri quadrati, deserti accesi di sole morente interi; e trovo rabbia e soprattutto disincanto, quest’ultimo nudo come un verme spellato vivo. Un disincanto, voglio dire, che non lascia nulla ai retrogusti agrodolci che restano anche nelle bocche più avvezze alla degustazione dell’ amaro dell’esistenza umana. Potrei dire che il disincanto di Bacon è antecedente a qualsiasi incanto, e se lo chiamiamo così è perché, per dirla tutta, vogliamo renderlo in qualche modo meno terribile, metallico, odioso. Vogliamo nominarlo con qualcosa di diverso e meno repellente al palato dalla parola nullità.

E allora perchè questo artista è così amato da grandi e piccini? (Vado un pò in azzardo e spero mi perdonerete con i vostri figli).
Il segreto di tutto questo successo sta nella rappresentazione orrorifica, eclatante, del male. Nella solita fascinazione del male.

Ma forse c’è dell’altro. Bacon dipinge certamente l’orrore, ma anche il caos. Il caos è il suo elemento, e questo, tramite specchi riflettenti, egli lo duplica, lo triplica. Duplica e triplica le espressioni facciali, frantumando persino il cubismo – questo momento dannatamente antiestetico dell’arte contemporanea, dannatamente brutto, a mio avviso – dandogli una dignità umana. E’ dall’altra parte della barricata di una Tamara de Lempicka, che afferra i concetti del cubismo come farebbe con una valigia piena di banconote e dipinge ritratti di debosciati come lei, marionette abbastanza squallide in abiti da gala, gente cristallizzata nel loro ruolo di arrampicatori. Bacon è un debosciato di rango che ritrae visi perlopiù sfuggenti, maschere involte da altra carne, come se altra carne ricrescesse continuamente da ferite originarie, senza strappi e abrasioni e sangue. Il caos è quello dello studio del pittore, nel quale egli pesca su un cumulo sbattuto a terra di volta in volta la foto che gli serve all’impronta per il prossimo quadro, ed è quello della vita degli uomini. Caos e caso. Nulla diventa davvero preordinato e nulla viene ordinato, e le foto – i veri bozzetti preparatori – vengono scelti per ciò che suscitano, non per ciò che significano. In un mondo senza senso, perlomeno apparente, tutto vale tutto, e l’arte della raffigurazione è costretta, dalla vita stessa, come è per tutti, a rappresentare il caos, il caso; e il tutto – non è una battuta – sempre a caso. Se Dyer è nei quadri di Bacon lo si deve in ultima analisi al caso che glielo ha fatto incontrare. Come è frutto del caos e del caso il dripping creato da Pollock nella sua opera di semina sulla grande tela poggiata a terra dentro e attorno alla quale Jackson in qualche maniera danzava come uno sciamano pellerossa.

In questo Bacon è esemplare.  Nel caos della vita, l’artista si deve calare a occhi chiusi per poter essere fedele proprio a quella vita che lo trattiene a forza dall’essere felice. Questo principio é condizione ineludibile dell’uomo che sopravvive nel mondo.

(Continua.)

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6 Commenti

  1. ritorno sul tuo primo post su bacon. se scrivi un libro su quella figura di contorno, quel “segretario americano di papa urlante”, viene fuori qualcosa di epico.
    quell’uomo con la costoletta in bocca non e’ bacon. sei tu, siamo noi, che guardiamo i suoi quadri. anzi, che li addentiamo: e’ la fame dell’orrore.

  2. Da stampare,rilegare,leggere e far leggere e poi conservare per quando si ha voglia di una buona lettura a colori.

    ciao Franz
    jolanda

  3. Ci sono straordinari e fitti effetti, se permetti queste brutte allitterazioni Franz, intervallati da scossoni di ironia, quasi ci facessi lo scherzo di risvegliarci da quel senso filmistico che crei, film solo tuo anche se parli di un’altro, e girato di notte. Si vede la notte, tutto si muove in una bella notte. Poi, di quando in quando appari tu, con il viso del regista. Insomma aggiungi parecchio, questo è quello che commuove di più, e che forse poteva sembrare impossibile. Ma quella “fuga”, che sarebbe la poesia per lo scrittore, beh! anche se da Alcatraz, ti sei ripreso per un pelo.

  4. Grazie a voi.

    Becca: m’hai dato un’idea, ma per un racconto horror, magari!

    Jolanda e Cristina: un grazie particolare, troppo gentili.

    Prossima puntata da domani mattina.

    Ciao!

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