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E’ qui la festa?

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Una civiltà della festa e dell’oblio*
di
Luis de Miranda
pubblicato su LE MONDE | 09.02.08 |
traduzione di effeffe

Nel giugno del 2003, all’età di 32 anni, ho girato per qualche giorno la Polonia, da solo, per concludere il capitolo di una relazione amorosa di due anni con una giovane donna nata a Cracovia. Fu un modo per lasciarla: scoprendo la città in cui era cresciuta. In Polonia avevo una piccola videocamera con me. Di tanto in tanto, raramente, riprendevo delle immagini. Fu il caso per Auschwitz.

Non sono ebreo, i miei antenati sono cristiani e, se la mia memoria è buona, ho visitato questo campo con una motivazione da europeo medio: un terzo di curiosità, un terzo di senso del dovere, un terzo per meditare, in modo vago, su quello di cui sono capaci gli umani nei confronti di altri essere umani. Perché aver girato quelle immagini di Auschwitz? Forse perché volevo darmi la possibilità di rivederle. forse perché era un modo per mantenere una distanza rispetto all’effetto che una tale visita avrebbe potuto suscitare, forse perché speravo di raccogliere su queste immagini il substrato di una rivelazione che offre raramente, nell’era del turismo di massa, la scoperta di un luogo simile.

Rientrando a Parigi, ho avuto l’impressione che non valeva la pena conservare il film: le immagini sembravano neutre. Non mostravano nient’altro che ciò che molto probabilmente si vede nella maggior parte dei film delle migliaia di visitatori che si recano ogni anno ad Auschwitz : un cartello “Arbeit macht Frei”, delle palazzine in mattone che ricordavano stranamente un campus universitario inglese, delle foto allineate di deportati uomini e donne dallo sguardo insistente. Non sono di quelli dal temperamento archivista, e ho ancor meno l’abitudine di versare nel feticismo che può suscitare la colpevolezza umanista rispetto al passato. Immagino che in questo ancora devo essere un europeo medio: i fatti che si sono svolti ad Auschwitz mi sembrano appartenere a un altro mondo, a un ‘altra umanità, a una barbarie che mi pare estranea.

Così, qualche giorno dopo il mio ritorno a Parigi, ho fatto quel che fa chiunque abbia una videocamera; ho fatto altre riprese sullo stesso supporto del mio piccolo film polacco. Non so più in quali circostanze, ero riuscito a entrare con la videocamera in una discoteca parigina alla moda che si chiama la suite– ovvero come si conviene chiamare un locale di punta della notte.

Comunque sia ero lì a filmarne la fauna e la flora, ancora una volta senza un vero obbiettivo, ma per vedere: femmine graziose dall’aria sempliciotta e maliziosa che ballavano o si atteggiavano, maschi dall’aria maliziosa e sempliciotta che gli offrivano un bicchiere. Non restai a lungo: quel luogo è uno di quei posti allo stesso tempo sopravvalutati e vuoti dove non ho mai potuto sentirmi a mio agio, da quando ho compiuto gli anni per entrarci, cosa che ho fatto di rado. Più giovane ho sofferto di non sapermi aggregare alla banalità delle conversazioni festive di gruppo, un po’ alla maniera di un René de Chateaubriand, o, se si tenesse a una comparazione più contemporanea, di un personaggio houellebecquiano.

Il letttore farà forse fatica a credere quel che segue: l’indomani mattina, quando ho voluto vedere il film, ho scoperto che le immagini di Auschwitz non si erano cancellate del tutto. Per non so quale capriccio della testina di lettura della videocamera, della stessa cassetta o, per una ragione meno tecnica che ignoro, i viali del campo di concentramento, l’insegna “Arbeit macht Frei”, così come i volti dei deportati di cui avevo fimato le foto apparivano per momenti, tanto per flash che per sotto impressione, in mezzo ai ballerini della discoteca parigina.

Si potrà dubitare di quel che racconto: oggi , più di quattro anni dopo, non so più quel che ho fatto del film. Forse l’ho cancellato una volta di più, forse l’ho perso, forse lo ritroverò un giorno. Mi ricordo di aver pensato all’epoca che un artista contemporaneo assetato di successo avrebbe forse approfittato dell’occasione per tentare di provocare qualche scandalo. Il parallelo visuale tra i giovani festaioli superficiali di questo inizio secolo e i morti assurdi del secolo scorso avrebbe potuto apparire chic e choc.

Sempre che – è una constatazione- io non abbia preferito dimenticare una tale coincidenza, rimuoverla, forse, fino a che il ricordo vivo non mi ritornasse in mente la vigliia di Natale 2007, allorchè qualcuno evocava il ricordo del saggista Philippe Muray, che ha prodotto la nozione di homo festivus, un’ umanità contemporanea secondo cui la festa e l’ipocrisia positivista sono degli imperativi.

Questa storia del video stregato, ve l’ho raccontata come si è veramente svolta, nonostante mi appaia quasi irreale (come la maggior parte delle coincidenze che fanno la stoffa delle nostre vite). Non posso fornirne la prova ( e seppure potessi lo vorrei?), autorizzando così tutte le ipotesi revisioniste su quel che è veramente successo nel giugno 2003. Non ho intenzione di creare e ancora meno di esibire delle immagini scioccanti, maliziose o naïves, nonostante fossero intervenute ad illustrare in modo affascinante un parallelo tra l’homo festivus e la barbarie. Ci son altri modi di pensare la chimera che la camera video ha generato con la mia incosciente complicità: vi invito a farlo.

Mi resta questa idea personale: allo stesso modo in cui l’umanità che ha prodotto Auschwitz mi sembra estranea, altra, lontana, lo è anche l’impressione che spesso ho avuto , con le dovute eccezioni, dalla mia adolescenza, nelle serate di festa con sconosciuti. I festaioli estasiati dal discorso minimalista e ripetitivo, che si incontrano nei luoghi dedicati alla festa mi sono spesso parsi appartenere a un’altra umanità, lontana, estranea e ho talvolta sofferto , più giovane, del fatto di non riuscire ad essere così futile, o se si preferisce, leggero.

Di qui la domanda: se uno non si sente di appartenere tanto all’umanità che ha prodotto Auschwitz né a quella che si agita al ritmo del fun standard, significa che le due umanità sono la stessa: un’umanità che preferisce non pensare e che taylorizza tanto i suoi crimini che le sue gioie?

*Ai lettori di Nazione Indiana
di
Luis de Miranda

Ogni volta che mi traducono in italiano ho come l’impressione di scoprirvi la mia vera lingua, come una sintesi tra portoghese e francese. il testo in questione è il racconto della più storica sincronicità della mia esistenza. Lo dedico a quanti come me vivono quotidianamente degli hasards assoluti.

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7 Commenti

  1. ottimo post, grazie anche a effeffe per l’ottima traduction. Conto anch’io di non appartenere ad alcuna delle due comunità, ma questo non mi porta ad identificarle. Due volte nella vita sono stato – long time ago – in una estiva e non particolarmente hard diskoteca estiva di Stromboli e ricordo che quel che provavo nel lasciarmi andare al ritmo era solo leggerezza, un po’ di solitudione e, naturalmente, un brandello di voglia di far la corte alla ragazza che ballava davanti a me.

  2. il fatto che louis de miranda si senta lontano sia dai torturatori nazisti che dai ragazzi di una discoteca non significa affatto che siano la stessa cosa.
    il post è imbarazzante, soprattutto in questa formulazione: “un’umanità che preferisce non pensare e che taylorizza tanto i suoi crimini che le sue gioie?”
    cosa significa? che senso ha? è uno scherzo?
    occorre ricordare che gli intellettuali hanno il dovere costante di distinguere, instancabilmente?
    se la sovrapposizione delle immagini del video, del tutto casuale, gli ha innescato inedite associazioni mentali, non è detto che queste associazioni, che a lui sembrano così suggestive, abbiano senso.
    l’apparente inesplicabilità di Auschwitz non autorizza qualsiasi spiegazione.

  3. Stano pezzo che mi piace perché va controcorrente la nostra società che mi sembra svuota. Nella festa del sabato, percorso obbligatorio della giovinezza, ho visto sempre tristezza. Ho sempre vissuto la festa allontana: il corpo presente, ma la mente altrove. Non era un problema di seduzione, ma un’impossibilità a divertirmi; in questo riconosco in Luis de Miranda un fratello. La tristezza veniva dell’impossibilità dell’oblio: no so. La festa moderna non ha più vincolo con l’esaltazione del trasgredire del medioevo nel corpo o la la trance di una società primitiva: è uno spettacolo del sembrare, la disperazione della società, un giocho sempre lo stesso.
    Ho amato la parola a proposito della lingua, nuotando tra due lingue e il senso degli hasards assoluti.

  4. E se la videocamera avesse per sbaglio sovrapposto le immagini di una processione e Auschwitz, o le immagini di una partita di calcio e Auschwitz o una cerimonia bantu e Auschwitz, andava bene lo stesso? Tutto ciò a cui non sentiamo di appartenere funziona per farci sentire estranei a questo e a quello? A me suona solo come una scusa un po’ snob per tagliarsi fuori. Siamo parte dell’umanità e l’umanità ha prodotto Auschwitz, così come produce uomini danzanti, calciatori, preti e scrittori. L’importante è distinguere le cose, non tagliarsene fuori.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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