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Quegli occhi

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di Marco Calzolari

Ci misi dieci minuti a scegliere il lettino. La trascinavo per la mano, e lei si era tolta le scarpe perché sulla sabbia le si piantavano i tacchi. Passai il Bagno Milano, il Riviera e il Romeo. C’era poca gente, ma troppa luce. Il Bagno Florida era perfetto perché aveva una grande insegna vicino al bar che faceva ombra sulle prime file, vicino al mare. Mi fermai alla seconda fila dall’acqua, sul confine con l’altro bagno. Aprii l’ombrellone e tolsi la sabbia dal lettino, poi mi misi di fronte a lei. Lei guardava nel buio, in mezzo agli ombrelloni chiusi, e aveva un sorriso un po’ tirato. Guardai dove guardava lei e vidi un gruppo di ragazzini che probabilmente fumavano, stesi sui lettini di un bagno più avanti.
– Non ci vede nessuno, – le dissi.
Lei mi si appoggiò e piantò gli occhi dentro i miei: – E se anche ci vedono?
– Meglio per loro, – risposi.
Iniziai a baciarla lentamente, mentre le infilavo una mano tra i capelli. Aveva i capelli dorati, a riccioli lunghi, che le andavano sempre a finire in bocca. E adesso finivano anche nella mia, ma vabbè. Con l’altra mano le tolsi la borsa e la buttai sul lettino a fianco. Ogni tanto aprivo gli occhi ma lei li teneva sempre chiusi. Quegli occhi. Erano da spavento. Non era sola, quando la incontrai, nel pomeriggio, alla spiaggia libera. Viaggiava in gruppo con tre amiche. Ma l’unica cosa che vidi lì in mezzo furono i suoi occhi. Grandi e chiari, come il ghiaccio. Mi ero tolto gli occhiali da sole per guardarli e lei si era messa a sorridere. Allora le avevo detto che non mi sarebbero bastati due paia di occhiali, per poterla guardare negli occhi. Mi disse che esageravo. Le dissi che no, davvero. Si presentò e mi fece stringere la mano alle sue amiche. Due erano da autopsia, ma la terza aveva un gran fisico. Lei invece era un po’ larga, però aveva quegli occhi… Allora le dissi che aveva gli occhi del colore del mare, al mattino presto, quando è limpido che si vede il fondo. Così non ha più smesso di fissarmi. Morris mi ha raggiunto poco dopo, e si è subito attaccato alla mora col gran fisico. Faceva nuoto, aveva detto. Facemmo il bagno tutti insieme, e infatti la mora viaggiava come uno squalo. Stava sempre intorno a Morris ma non si capiva se ci voleva stare o se lo prendeva per il culo. Penso che fosse tutta scena, perché stasera la mora non era uscita con lui. Invece io ero qui con la bionda. La coricai sul lettino e la baciai sul collo, facendomi strada tra tutti quei capelli. Poi tornai sulle labbra, grosse e morbide. Aveva un tono di voce basso, un po’ ruvido. E quando parlava sottovoce le si sentiva una specie di sibilo nella gola. Ma aveva parlato poco, nel pomeriggio. Aveva fatto solo un po’ di domande, quanti anni hai, che lavoro fai, che scuola hai fatto. E perché non hai una ragazza, visto che non sei poi così male. Le diedi appuntamento dopo cena, dove comincia l’isola pedonale. C’erano anche le sue amiche, tutte tirate a lustro, i due mostri e lo squalo, che aveva una minigonna da paura. Si giravano in parecchi a guardarla, però se la tirava a manetta, e si vedeva subito. Le tre amiche fecero tutta una serie di battutine e poi ci lasciarono andare. La portai al Roses a bere un cocktail alla frutta, schifoso, troppo dolce. Le presi la mano e la portai sul lungomare, e poi al faro, e non rimase zitta un secondo. Parlò sempre della scuola e di uno sfigato che aveva lasciato ma che continuava a farsi vivo, e così lei era molto confusa. Io le fissavo incantato quegli occhi e le dicevo che erano troppo erotici, e lei ogni tanto mi diceva di smetterla. Ma a me sembravano sempre più luminosi, anche col buio. Le annusai i capelli e sentii che aveva avuto un brivido. Allora le annusai il collo e lei fece un sospiro sibilante che mi mandò fuori di testa. La baciai. Poi la portai in spiaggia.

Aveva le tette soffici. Me le aspettavo sode. Erano grandi e rotonde, le avevo guardate per tutto il pomeriggio, ma quando avevo tolto il reggiseno si erano come sciolte. Sembrava di toccare un gavettone sgonfio. Avevano delle piccole smagliature tutte intorno. Però aveva una pelle calda, e morbida, e con un buon sapore. Mi tirai su per guardarle gli occhi, quegli occhi, madonna. E lei mi fece un’occhiata porca che non capii più niente. Mi piantò le unghie nei fianchi mentre la baciai ancora. Poi ripresi a spogliarla. Le alzai la gonna rossa fino alle mutande, bianche, con delle farfalline ricamate, che avevano dei piccoli buchi al posto delle ali, e iniziai ad annusarla. Mi girava la testa e dovetti respirare più lentamente. Mi aggrappai alle sue cosce e sentii che le mie dita affondavano parecchio. Provai ad allargarle le gambe ma lei fece resistenza. Allora cercai di abbassarle le mutande prendendole con i denti, ma lei strinse ancora di più e me lo impedì, ridendo con quella specie di fischio. Cercai di arrangiarmi come potevo, finché non inarcò la schiena e smise di ridacchiare. Avevo i pantaloni di cotone e una maglia di lino grezzo, ma stavo iniziando a sudare, e soprattutto mi stava scoppiando l’uccello. Risalii a baciarla sulle labbra e mi strofinai con energia su di lei. Lei teneva le mani sulle mie spalle, quindi immaginai che non sapesse dove metterle. Io mi tenevo su con i gomiti e le ginocchia, e il bordo in alluminio del lettino mi segava la pelle. Le volevo dire qualcosa di erotico quando aprì gli occhi e dovetti fermarmi ancora a guardarla. Aveva un mezzo sorriso sulla bocca semiaperta e l’espressione beata. Il dolore alle ginocchia era fortissimo e dovetti cedere per non cascarle addosso, allora cercai di farmi posto stringendomi al suo fianco. Lei teneva gli occhi socchiusi. Le passai un dito dalla bocca al collo, ai capezzoli, feci un giro attorno all’ombelico, scavalcai la gonna raccolta sul bacino e mi infilai sotto le mutande, facendo un ricciolo con i suoi peli chiari. Chiusi gli occhi per rilassarmi, mentre il mio dito gironzolava sulla sua pancia tenera.
– Ti amo, – provai a dire.
Lei si voltò verso di me. Poi mi prese un labbro con i denti. Io la afferrai per i fianchi e in una mossa mi infilai sotto di lei. Lei finalmente allargò le gambe e si sedette sopra di me. Alzò il viso per guardarsi in giro. Poi guardò me, sorridendo, ma subito dopo i suoi occhi ebbero un tremito. Guardò da un lato. E si fermò.

– Dov’è la borsa?
– Che borsa?
– Dai, dove l’hai messa?
– Io?
Scese dal lettino con un balzo e si mise in piedi sotto l’ombrellone. Mi alzai sui gomiti e vidi che la sua borsa non c’era. Mi alzai in piedi e guardai sulla sabbia.
– Dai smettila, – disse lei, dandomi una spinta, – dov’è?
– Non lo so. Forse è caduta qui dietro…
Guardai dall’altra parte del lettino ma non vidi nulla. Alzai prima un lettino e poi l’altro, ma l’unica cosa che vidi furono alcune tracce nella sabbia. Le tracce andavano nella direzione opposta da quella da cui eravamo arrivati noi.
– No, cacchio!
Aveva visto le tracce.
– Cacchio, no!
E aveva capito. Presi uno dei lettini e lo scaraventai sopra un altro, verso il mare. Poi mi misi a scrutare tra gli ombrelloni. C’era ancora quel gruppo di ragazzi, ma non vidi nessuno che si allontanava.
– Stai tranquilla, – le dissi. Lei tirò su col naso ed esplose.
– Ma cosa? Sto tranquilla cosa? Eravamo lì!
Indicò il nostro lettino capovolto. Stava cominciando a piangere.
– No, cacchio, c’era la mia vita lì dentro…
– Aspetta, – dissi, e corsi verso il gruppo di ragazzi, qualche ombrellone più in là. Uno di loro mi vide arrivare e alzò la testa dal lettino. Gli altri dormivano.
– Avete visto qualcuno correre con una borsa in mano?
– No, – mi disse quello sveglio, con gli occhi spenti.
– Che cazzo c’è… – Farfugliò un altro. Sotto l’ombrellone c’era una collezione di bottiglie di birra e mozziconi di spinelli. Niente borse. Per un attimo li invidiai.
Tornai indietro e la trovai già vestita. Piangeva in silenzio e teneva le braccia incrociate sulla pancia. Le presi un braccio e la obbligai a guardarmi.
– Dobbiamo andare alla polizia. La centrale è aperta tutta la notte.
Mi guardò senza vedermi. I suoi occhi erano così diversi che ebbi paura di aver sbagliato persona.
– Lascia stare. Vado a dirlo a mio papà. Ci andrò con lui.
– Ci vengo io, invece.
– Mi ammazza, stavolta mi ammazza.
– Ascolta, ti ho detto che vengo io.
– Lascia stare.
– Ma perché?
– Per favore.
La abbracciai, infilando il mento tra i suoi capelli. Lei si fece abbracciare ma tenne le braccia dov’erano.
– Eravamo lì, – disse piano. – Ci hanno guardato.
– Non credo. Non gli fregava niente, di noi.
– Ma ci hanno visto, – disse, mentre si irrigidiva per togliersi dal mio abbraccio. Non potei dire di no.
– Devo trovare le mie amiche. Così diranno che erano con me.
– Alla polizia?
– A mio padre.

La accompagnai fino alla strada senza dire niente, accarezzandole la schiena. Erano ancora tutti lì a passeggiare e forse a combinare qualcosa. Lei guardò tra la gente e poi si girò verso di me. Non diceva niente.
– Cristo, mi dispiace, – le dissi. Lei rimase in silenzio. – Fammi sapere, ok? Ci vediamo domani?
Ci pensò su: – Domani, sì.
– Sicura che non posso aiutarti?
– Sì.
– Ciao, allora.
– Ciao.
Pensai di darle un bacio ma sembrava di marmo. Fece una specie di sorriso e si infilò tra la gente. Volevo dirle qualcosa ma rimasi a guardarle il culo finché non fu coperto da altri culi meno interessanti. Mi incamminai verso il centro. Volevo trovare un posto per togliermi la sabbia dalle scarpe senza sembrare troppo sfigato. Dopo neanche un minuto mi sentii battere sulla spalla e mi girai.
– Tu non ne sapevi niente, vero?
Era ancora lei. Con lo sguardo di poco prima, quello di una persona diversa.
– Di cosa?
– No, niente.
Rimasi a bocca aperta mentre lei incrociava le braccia. Intorno qualcuno iniziava a guardarci.
– Sei voluto andare proprio in quel bagno, e guarda caso…
– Vuoi dire che l’ho fatto apposta? Stai scherzando?
– Non lo so. Tu che dici?
– Vuoi dire che ero d’accordo con qualcuno?
– Io non l’ho detto.
– Senti, io volevo stare con te, e… mi sembrava un buon posto, tranquillo…
– E come no.
Non sapevo più cosa dire. Aprii la bocca diverse volte prima di parlare. – Ma per chi mi hai preso? Ma ti sembra che debba rubare delle borse, per vivere?
– Ho solo chiesto.
– Ma ti sembra che faccio tutto sto casino, venirti a conoscere, uscire con te, per rubarti la borsa?
– Va bene, va bene, scusa, – disse in fretta. – Ciao, allora.
La guardai mentre si allontanava di nuovo, e stavolta fissai la chioma bionda che si muoveva veloce tra la gente.

Arrivai alla Capannina che era già l’una e mezza. C’era ancora un bordello di gente. Conquistai trenta centimetri di bancone per appoggiarci il gomito. Salutai qualcuno ma nessuno mi chiese niente, perché tenevo lo sguardo serio. Avevo pochi soldi. Appena per due birre o due Grand Marnier. Così presi due Grand Marnier. Con solo due cubetti di ghiaccio, sennò è come bere acqua sporca. Tenevano la musica così alta che vedevo le vibrazioni delle casse sull’orlo del bicchiere. Al primo sorso mi accorsi di non avere più il suo sapore sulle labbra. Cercai di ricordarlo ma non ci riuscii.
Mi venne fame. Stavo cercando di mandare giù delle noccioline con il Grand Marnier, facendo finta di non fare fatica, ma sembrava di ingoiare colla, quando vidi Morris che si faceva largo tra i turisti che cazzeggiavano con le birre in mano. Sgomitò fino al banco.
– Come è andata?
– Siamo andati in spiaggia.
– E allora?
– Una merda.
Morris si guardava in giro e non rispose per gentilezza.
– Le hanno rubato la borsa, – dissi.
– Che borsa?
– La borsetta, cazzo. Era sul lettino vicino al nostro. E dopo mezz’ora non c’era più. “Dov’è la borsa?”, mi fa. “E che ne so”, dico io. Sotto il naso, diobono.
– Pezzi di merda! E quando se n’è accorta?
– Sul più bello.
– Merda.
– Merda, – confermai.
– E lei?
– Boh. Ci è rimasta male. È andata dal suo babbo.
– Suo padre?
– Fanculo.
– Fanculo sì, – confermò Morris.
Un tipo coi capelli lunghi, grande e grosso, che prenotava sempre il tavolo sotto la palma, ci guardò per un attimo. Aveva il tavolo sempre pieno di gente stronza e fighe imperiali. E le cambiava spesso, pure. Ci guardò come uno che guarda un paio di mosche su un vetro. Poi tornò a bere la sua roba e raccontare le sue menate alle ragazze.
Morris si girò a guardarmi scuotendo la testa.
– Che pezzo di merda, – disse.
– È un busone, te l’ho detto.
– See, come no.
– Te lo dico io, – gli dissi, ma Morris stava già chiamando qualcuno al cellulare. Si chiuse l’altro orecchio con la mano e urlò per farsi sentire, ma io non capivo una parola. Guardai sotto il tavolo del capellone per guardare le gambe delle sue ospiti, e vidi che lui aveva delle infradito bianche che sembravano di pitone, con un sacco di brillantini. Guardai le mie scarpe impolverate dalla sabbia. Morris aveva chiuso la telefonata e si avvicinò al mio orecchio.
– Forse Alan sa chi è stato. È al Madigan, ha detto che se andiamo là entro dieci minuti ci aspetta.
Lo fissai restando in silenzio.
– Conosce un tipo che ricompra la roba rubata in spiaggia. Cellulari, gioielli, cose così.
Lo guardai ancora per qualche secondo, poi tirai in bocca uno dei pezzi di ghiaccio dal bicchiere. Lo feci sciogliere un po’ e poi lo masticai, facendomi venire la pelle d’oca.
– Allora? Che gli dico? – Mi chiese Morris.
– Lascia stare.
Alzò un sopracciglio. Aveva ancora il telefono in mano.
– Lascia stare.
Morris si appoggiò al banco. Ci guardammo in giro per qualche minuto. Poi Morris guardò l’ora sul cellulare.
– Tra un po’ vado al Prince con gli altri, – disse.
– Non ho più soldi.
– Siamo in lista.
Finii il primo bicchiere di liquore tenendo in bocca l’ultimo residuo di ghiaccio. Lo schiacciai coi denti davanti.
– In quanti siamo?
– I soliti.
Presi il secondo Grand Marnier e ne versai metà nel bicchiere vuoto, gocciolando un po’ sul banco. Cercai una salvietta ma non ce n’erano. Spinsi il bicchiere davanti a Morris.
– Allora ti offro da bere.
– Mi sembra giusto, – disse lui.
Facemmo tintinnare i bicchieri tre volte, perché portava bene.

Marco Calzolari ha pubblicato il suo racconto d’esordio, “Magari l’anno prossimo”, nell’antologia di narratori esordienti “Per Natale non esco”, pubblicata a gennaio da Transeuropa in collaborazione con l’Associazione Culturale “Scritture Dannose” di Mantova.

(Nella foto: l’attrice inglese Diana Dors)

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4 Commenti

  1. bello. piccolo, semplice, giusto. tanto quanto basta. non vuol dire niente,niente di speciale o importante, intendo, nessun messaggio per salvare il mondo. ma è come se sentissi che è importante che qualcuno l’abbia scritto. e bene. complimenti

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