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Un viaggio con Francis Bacon # 3

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di Franz Krauspenhaar

Sto guardando la foto di uno Studio per corrida. Sono al corrente dell’interesse del pittore per la tauromachia, del suo amore per Goya, spagnolo che ci ha regalato formidabili incisioni sull’argomento. Ma non posso pensare, guardando prima il nr. 1 e poi il nr. 2 di questi studi, che quello che mi si para davanti sia propriamente lo scontro fisico dall’esito poco incerto tra un uomo e un toro.

Insomma, non sto guardando l’interpretazione di una Fiesta hemingwayiana, non trovo tracce significative di fiction cinematografica – di Sangue e arena, per esempio, melò plurisosannato e capolavoro del kitsch paragonabile soltanto alle pellicole esorbitanti e surrealiste di Albert Lewin, prima fra tutte Il vaso di Pandora, del ’51, con James Mason nella parte dell’Olandese volante Hendrik van der Zee.

No, essendo uno studio – ed è questa la traccia per il Franz Sherlock della vostre brame – si tratta di una composizione raffigurante un interno.
Dal cinema alla fotografia. Se quest’ultima è il pane quotidiano del fare convulso del pittore, che si ciba di immagini immortalate dalla reflex come fa il regista – pensiamo a Hitchcock e ai contemporanei americani – con lo storyboard, viene da pensare, almeno a me, a una specie di posa fotografica. L’interno è lo studio del pittore, tirato a lucido per l’occasione: pareti ocra, pulite, dritte. Della plaza de toros non un granello di polvere, nemmeno sintetico. Il terreno è un linoleum chiaro, le macchie scure, che si trovano soprattutto ai bordi della “pista mortale”, sembrano impronte di scarpe di gomma, di chi ha strascicato i piedi troppo a lungo, per una notte intera, pensando e ripensando alla propria fine, o tentando di rubare tutta la mobilia. Il battiscopa della stanza circolare – forse una ex cappella, sconsacrata perché vi si facevano sacrifici umani da parte di sette sataniche – è rosa confetto. E’ stato ridipinto, ma appartiene alla locazione originaria, quella di una casa chiusa, di un bordello per funzionari statali e ufficiali dell’esercito in licenza. Sulla destra il pubblico; ovvero una tribuna, che però sembra tenere insieme una massa di pubblico che non è quello delle manifestazioni sportive, ma delle parate; guardando con attenzione non è difficile pensare al pubblico nazista che troviamo, plaudente ed enfatico, alle manifestazioni hitleriane del Trionfo della volontà di Leni Riefenstahl; anche perché questa sezione del quadro, il finto esterno, è in un bianco e nero leggermente virato, come nel Metropolis colorato da Giorgio Moroder negli anni ’80. La tribuna è in realtà incassata in un armadio a due ante. C’è anche la maniglia, a due sbocchi prensili. Dunque quello è un pubblico finto, forse proiettato da un proiettore cinematografico dall’altra parte della stanza. Forse quella che si sta proiettando dall’altra parte della stanza contro lo schermo cinematografico che è l’armadio è proprio una visione di massa di una Norimberga da Triumph des Willens.

Al centro un toro morbidamente contorto, improbabile ma allo stesso tempo magnificamente animalesco, rappresentativo in pieno della sua specie. E il torero è un uomo senza vero volto, un uomo baconiano senza tratti distintivi, senza fronzoli; sta dietro al toro e del suo corpo si vede soltanto una parte del torso, ma, messa come è messa l’immagine, potrebbe essere anche nudo, dato l’impasto dei colori che è lo stesso di quella del volto.
Ma chi è l’uomo baconiano? Sostanzialmente, un disperato.

Guardo ora Tre studi di testa umana, del ’53. Un trittico partorito per necessità commerciale. Bacon aveva dipinto la terza parte per prima, come quadro singolo: una testa d’uomo sfigurata, reclinata da un lato, alla ricerca, così mi sembra d’intravedere, del sollievo di una mano aperta che regga la testa sfigurata dal dolore psicologico. L’uomo sembra aver ricevuto un duro colpo, o il colpo di una tremenda notizia. Il dolore è ben rappresentato da queste pennellate lunghe che in certo modo sfigurano il volto grigiastro. La deformazione allunga la testa in una specie di schizzo di materia grigia, è come se questa testa fosse in erezione, in espansione prima dell’esplosione.

Per rendere l’opera commerciale Bacon dovette dipingere altre due parti, gli antefatti della storia del suo povero cristo in grisaglia; come uno scrittore costretto ad allungare un suo racconto formando un romanzo per vendere – è infatti vero che molti romanzi contemporanei sono racconti estrogenati, pieni di bolle d’aria e coloranti e additivi chimici. Certo, nel caso del trittico in questione Bacon fa di necessità virtù estrema: dipinge il primo quadro e rappresenta l’uomo leggermente sfocato, come osservato da un ubriaco, che stringe appena le mascelle in un sorriso forzato: la circostanza dell’esistere in un mondo di impiegatucci della vita. Il secondo passaggio prepara il knock out dell’ultimo: il volto dell’uomo – forte consumatore di uova al bacon, si potrebbe desumere dalla insana robustezza english style – è visto da altra angolazione, evidentemente si è spostato di qualche centimetro pur rimanendo sostanzialmente in piedi sullo stesso punto, statico. La bocca diventa una fauce, ma di un predato, non di un predatore; emette un urlo muto, strozzato dalla mancanza di ossigeno, simile a quello dei papi, ma l’orrore non è ancora stato versato per intero nella sua coscienza in colpa e colpita; sarà col terzo capitolo, nel disfacimento anche fisico subitaneo, che l’orrore avrà compiuto il suo sporco dovere.

L’uomo baconiano si esprime con la testa e con l’abito sempre uguale, esemplare il ciclo intitolato Teste I-VI. In queste teste spiccano i denti con il loro brillio fantasmatico, le bocche, che spingono all’indietro tutto il resto. Bacon era sempre stato ossessionato dalle bocche e dai denti, e il suo grande sogno mai realizzato fu quello di dipingere il sorriso. A lui veniva facilmente il ghigno, l’urlo, lo spalanco delle fauci dell’animale uomo braccato dall’ansia. Nella Testa II l’uomo baconiano, l’uomo in blu che ha dismesso l’abito e reclina la testa fangosa su una cuscino che sembra una grande zolla di terra smossa, di fronte a una sorta di tenda crespata dello stesso sordo materiale di quelle zolle di carne terrosa, si lascia andare all’urlo del privato; è questo un urlo che non ha bisogno di essere rappresentato nei suoi antecedenti, di essere in certo modo filmato in una sequenza: qui forse non c’è più neanche l’uomo, ma un essere abbandonato a se stesso nella solitudine più infernale, alle porte della stige.

L’uomo baconiano – spesso raffigurato dall’immagine di Dyer – è un ginnasta della vita, appeso a un filo, che muove un arto indicato da una freccia (la didascalia tipica di Bacon, che rende la sua figurazione astrazione), che scrive lettere d’addio con la pittura rossa del sangue del suo dolore muto; è l’executive che sbocconcella una costoletta per la strada scura, uscito da un pub invisibile; è l’uomo in grigio indifferenziato, che nasconde la sua omosessualità con il paramento del vestito indicativo da sempre di integrata mascolinità; è il papa urlante nella gabbia rarefatta, vetro o plexiglass invisibile fatto di cornice bianca, prigioniero del proprio ruolo; una specie di papa Luciani che si accorge, prima di morire all’esordio del suo mandato, di essere capitato sul trono non di un pastore ma di un monarca senza scrupoli, e urla la sua enorme paura, la sua caduta agli inferi di un soglio enormemente scomodo; è il dandy che scende le scale forse di un museo, e dinoccolato si guarda intorno; è il nudo di schiena che buca il nero davanti a sé, facendosi fantasma dell’uscita di scena; è il torero forse nudo nella stanza circolare – la stanza che ricordava al pittore quella dell’amata nonna; è Bacon stesso, in tanti autoritratti, tutti dissimili tra loro e tutti esprimenti il volto del vizio, che si guarda allo specchio del trucco, e non si piace.

(Continua il 21. Immagine: Francis Bacon – Self portrait, 1979.) Puntate precedenti: #1  #2

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9 Commenti

  1. [pur tuttavia non particolarmente amando Bacon per viscerale avversione ingiustificata, ma anche no, ma così è]

    Ma chi è l’uomo baconiano? Sostanzialmente, un disperato.

    Ma chi è la donna baconiana?

    Sostanzialmente, una inquietante grande madre spellata come nel martirio di certi santi (ad memoriam di trauma infantile di fronte a statua di San Bartolomeo scorticato in Duomo di Milano), o modelli di trattati di anatomia del Vesalius, un po’ bestiale, ma una bestialità mansueta, arresa, innocua, con un una placenta ibridata ad un utero sanguinante al posto della faccia, che cola giù dal naso fra umori di frattaglie, al centro del lettino di un teatro anatomico, pronta per una dissezione della sua carne livida già un po’ decomposta.

    [questa era la Henrietta delle famose foto]

    ,\\’

  2. Non credo che ci si debba domandare chi è l’uomo, chi è la donna, in Bacon. A lui interessa dare forma al “come” si sente un uomo o una donna. Naturalmente il “sentirsi come”è suo, ma al contrario del citato L.Freud, che pure dava si suoi oggetti il proprio stato animico, nel suo modo di dipingere offeso e brutale, in qualche modo sacralizza quel “modo” di sentirsi, fino a dare ai suoi umini, donne, bestie, la dignità del martirio. Freud, forse meno disturbante e più amato, in fin dei conti sbranava lo stesso i propri oggetti di pittura, ma accanendosi a riproporre la loro ipercorretta forma visibile. Un infinito opprimente di realtà. Li strangolava, di realtà, li analizzava da sotto il vetrino senza mai capirli, mai dando loro un briciolo di “come” spirituale. Bacon, sembrerebbe il contrario, ma credo che trascini in basso, là proprio dove deve stare, ogni forma di spiritualità.

  3. Bene. Grazie a franz mi sto facendo una cultura su bacon. Le uniche cose che avevo letto in passato erano quelle di Deleuze ma non sono sicuro di averle capite

  4. la personale di bacon al pompidou nel 96 è stata la mostra più violenta e salutare che abbia mai visto
    il testo di franz su bacon (con questo siamo nel triptyque) pure
    l’insalata alle ortiche anche
    effeffe

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