Autogrill emigrazione

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di Christian Raimo

Avete presente Pasquale Ametrano? L’emigrato lucano, praticamente muto, che in Bianco, rosso e Verdone torna dalla Germania per votare in Italia e percorre l’intera penisola autostradale, facendo sosta autogrill per autogrill, per mangiare, pisciare, comprare montagne di roba, e a ogni tappa viene derubato di qualcosa: le borchie, l’autoradio, alla fine direttamente la macchina con valigie e tutto? L’iperitaliano Pasquale Ametrano – che si sveglia con il poster gigante di Causio come un altarino davanti al letto e che alla fine del film, vessato e fottuto dai suoi stessi compatrioti, soltanto allora parlerà per mandare a fanculo tutti quanti – proprio lui, così per dire, non potrebbe essere l’elemento-guida per riflettere su quello che l’Italia è stata e non è stata negli ultimi cinquant’anni?

Mi veniva in mente la sua figura andando in libreria e trovando, per caso ma non troppo, accostati nello stesso scaffale dedicato alla storia contemporanea, alla nostra storia contemporanea, alla formazione della nostra identità italiana, due libri speculari, complementari, dialoganti. Uno l’ha scritto (molto bene) Simone Colafranceschi, si intitola Autogrill. Una storia italiana e l’ha edito Il Mulino; l’altro l’ha scritto (molto bene) Michele Colucci, s’intitola Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945-57 e l’ha edito Donzelli; e si può notare facilmente come già dalle copertine questi due studi si parlino tra loro. Su Autogrill c’è un particolare di un depliant pubblicitario a colori: una meravigliosa, sorridentissima famiglia in spider – padre, madre, un solo figlio – che ci saluta dal grande parcheggio vuoto sotto il primo (fondativo) autogrill Pavesi, quello di Novara; mentre Lavoro in movimento esibisce invece una foto in bianco e nero di un treno in partenza dalla stazione di Milano, stipato di emigranti. E se uno dovesse prendere questi due ritratti come le approssimazioni di quello che c’è dentro, non sbaglierebbe a pensare che i macrofenomeni che Colafranceschi e Colucci descrivono, sono – come si rendono ben conto – due storie, due storie assai diverse, dell’Italia moderna, del suo sviluppo, e di quello che siamo oggi. Perché una è la storia di una vittoria, l’altra di una sconfitta.

Da una parte, l’autogrill è effettivamente un simbolo che ha vinto, il pioniere dei non-luoghi, della socialità moderna, la rappresentazione perfetta del modello di progresso che ha attraversato l’Italia contemporanea. Il culto dell’America, il trasporto su auto, la famiglia nucleare, il mito della piccola industria del Nord che – con un po’ di aiuti di Stato – riesce a diventare grande: e soprattutto i consumi. Un’identità moderna, in cui l’immagine fa da volano alla realtà, che per essere veramente moderna dev’essere fondata sui consumi. Progettualmente: come si legge nelle linee guida di quelle aziende che per più di mezzo secolo sono state coinvolte nella creazione degli autogrill, dalla Pavesi alla Motta all’Eni alla Società Autostrade. E strutturalmente: “Tra il 1955 e il 1970”, scrive Colafranceschi, “si consumeranno [sic] quasi 25 milioni di spostamenti di residenza da un comune all’altro. […] Una molteplicità di esodi che, a differenza dell’emigrazione diretta fuori dai confini nazionali, non avviene nel segno di una conservazione del proprio bagaglio identitario, ma si accompagna spesso alla ricerca di una nuova cittadinanza urbana, plasmando nuove identità collettive sotto il segno di un passaggio «dall’etica della produzione all’etica dei consumi»”.

Nel giro di un decennio, quello analizzato invece in Lavoro in movimento, si vede progressivamente sfumare l’idea che si possa formare un’identità italiana a partire dal rigetto delle politiche sociali fasciste, e dall’impulso dato delle esperienze collettive della Resistenza e della Costituzione. Non fu questo a unire l’Italia. Ma, ci tiene a dire Colucci con l’occhio privilegiato sulla faccia oscura del progresso, questo non fu nemmeno un processo casuale: perché, appunto, la storia non è fatta solo di dinamiche sociali, economiche, antropologiche. Fu piuttosto il risultato di scelte, di una politica – dei governi, con responsabilità individuali precise – che fu assente, o volle altro.
La vicenda che viene ricostruita dell’emigrazione italiana in Europa è una parentesi malinconica: Colucci anatomizza bene questa miopia politica dei governi del tempo, capaci d’inventarsi solo una rabberciata “soluzione emigrazione” rispetto all’emergenza disoccupazione, senza poi saperne gestire i costi umani. A fronte di idee isolate sull’emigrazione come aspetto di una cultura pacifista e cosmopolita, come fu la posizione – che viene meritoriamente ricordata – dell’azionista Riccardo Bauer (“Occorre che l’arruolamento dei lavoratori per l’estero avvenga con metodo, con assoluta garanzia di onestà, cessi cioè l’Italia di essere pingue campo d’affari per negrieri d’ogni risma”), la realtà deprimente fu quella di una massa di lavoratori mandati allo sbando con i miti falsi di un’emancipazione attraverso lavori durissimi – e appunto, non a caso, il fenomeno migratorio ebbe un crollo dopo la strage di Marcinelle.
Ma soprattutto Lavoro in movimento illumina un altro carattere deteriore, l’altra faccia della medaglia non solo della storia di cinquant’anni fa, ma dello sviluppo moderno. Questo è l’esito più desolante: alla mancata costituzione di una possibile identità europea si accompagnò la creazione di un modello sociale di sfruttamento tuttora utilizzabile e utilizzato. Un modello pensato e gestito da quei governi che nel dopoguerra crearono con l’emigrazione dal Sud Europa il precedente di uno stato di eccezione, stabilendo accordi bilaterali che nei fatti toglievano agli emigrati tutti i diritti se non quello di fornire manodopera. Un precedente, ci tiene a sottolineare Colucci citando Agamben, che sarà seminale per l’attuale “Fortezza Europa”, una realtà un po’ diversa da quell’idea europea di un Mazzini, così stracitato nelle varie discussioni sull’emigrazione negli anni ’50.

Il panorama che viene fuori dal libro di Colucci è in definitiva disarmante: l’emigrazione è un’esperienza rimossa che ha prodotto un deserto ideale, un non-luogo politico. Ma anche l’esito del libro di Colafranceschi, dove appunto si dovrebbe raccontare la storia vincente dello sviluppo italiano non è così entusiasmante, se proprio l’autore decide di chiudere citando questo Massimo Ilardi: “L’autogrill è lo spazio di vita di milioni di persone che lo attraversano. Qui la metropoli viene risolta senza residui con l’annientamento della sfera pubblica. Qui l’ordine della città viene sconvolto insieme a qualsiasi forma di vita ideale e progettata dall’esterno. […] Qui, infine, come in tutti i territori dell’attraversamento, l’attrattiva principale è l’anomia, è la sospensione della legalità. […] È il fascino del deserto descritto da Baudrillard, è la potenza dell’estensione pura, è la forza dell’incultura”.
Fa sempre un po’ male capire che per sentirci liberi dobbiamo fare a meno della nostra civiltà, e come Pasquale Ametrano, sfogarci al massimo con un vaffanculo.

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5 Commenti

  1. C’è solo una cosa che mi sfugge. Quello del perché le vittime di questo sistema – gli italiani migranti all’estero e gli italiani consumisti migranti all’interno – li hanno votati per cinquant’anni, e oltre. Possibile che nessuna forza politica, nessun movimento nella società, fosse in grado di rispondere alle istanze di libertà e di progresso di un paese che era con sofferenza uscito dal fascismo e dalla guerra? O non potrebbe darsi il caso che quelle vittime fossero in realtà i carnefici di se stessi?, in un contesto fondamentalmente anarchico dal punto di vista politico e istituzionale?

  2. Bellissimo articolo. Complimenti Christian. Io ho avuto 2 nonni (maschi)entrambi migranti, tutta la ricostruzione mi sembra calzare a pennello. Grazie inoltre per le preziose proposte di lettura.

  3. ho lavorato all’autogrill e poi ho fatto anche la casellante a milano sud dove termina l’autostrada del sole.
    leggerò autogrill, mi interessa molto. ho bisogno di capire fin dove arriva il significato di questa incultura.
    io li ho vissuti come posti dove le persone lasciano dei pezzi e non si sa che fine faranno. spesso restano inerti, senza legami. come una piccola sparizione.

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