L’uomo della frontiera

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(Anticipazione da «Sud» 11)

di Giovanni Fazzini

L’uomo della frontiera inteso come uomo libero, indipendente, padrone dei grandi spazi non ci interessa. È qualcosa che appartiene al mito e nemmeno il mito ci interessa. Ci preme, piuttosto, delineare quelle dinamiche che hanno fatto della frontiera un laboratorio del domani, cercando di individuare le linee di un processo sostanzialmente cieco o, comunque, ben lontano da ricostruzioni consolatorie.
Racconta Alce Nero che l’uomo bianco aveva una fame atavica di «quell’inutile metallo giallo», l’oro, il quale pur non servendo a nulla sembrava condurlo misteriosamente alla pazzia (1). I nativi americani scambiavano i propri beni attraverso forme di baratto o entità numerarie come le conchiglie, mentre l’idea di legare il valore della merce al peso di un metallo gli era completamente estranea. Per stabilire un’equivalenza tra un ortaggio, un animale, una donna ed il peso di qualcosa serve una metrica e l’indiano non s’intende di geometria; non misura, conta: una moglie, un certo numero di cavalli. Il problema, forse, è che sa solo contare, mentre l’uomo bianco non cessa di misurare, di tracciare equivalenze tra serie che per il nativo non hanno assolutamente nulla a che fare l’una con l’altra. Mirabile cosa l’homo oeconomicus della frontiera. Propone all’esterno uno scambio che sa essere un furto; poi all’interno un affare che sa essere un inganno.
Eppure l’uomo della frontiera è tutt’altro che uno schizofrenico; non è l’uno che diventa due, bensì colui che dal due sa estrarre l’uno. È per questo, forse, che la frontiera è sempre stata un luogo in cui dio abita volentieri, anche senza la compagnia di un prete. Uomo sicuramente timorato di dio, Ethan spara agli occhi di un cadavere indiano, e al reverendo che gli chiede a che gli giova risponde: «By what you preach, none. But that Comanche believes ain’t got no eyes, he can’t enter the Spirit Land. Has to wander forever between the winds» (2). Anche il giovane tenente De Buine, se vuole battere Ulzana dovrà agire come un indiano, ma rimemorando senza sosta il reverendo padre e i suoi insegnamenti morali (3). La frontiera, in questo senso, è davvero uno spazio anti‐dialettico; nessuna opposizione, solo continue articolazioni di differenze; infinite somme senza mai la possibilità di sottrarre alcunché. Il fatto è che la frontiera non è un confine, non è una linea che oppone, bensì il luogo all’interno del quale l’Occidente articola la conquista degli spazi abitati. Il Sahara, l’Antartide sono terre di confine, non di frontiera. Al contrario, la frontiera è sempre il luogo di qualcun altro: zona densa, sempre sovrappopolata anche quando è semideserta e all’interno della quale una società si appresta ad esercitare un’azione predatoria ai danni di un’altra. Privo di storia e saturo di geografia, l’uomo della frontiera si agita, vibra, diviene. Anch’egli, come il nomade, non si muove mentre la terra gli scorre continuamente sotto i piedi. ma poiché è nomade solo a metà, il movimento stesso della terra non gli consente di tornare sui propri passi. La frontiera, in questo senso, è una strana entità. Superficie non orientabile, possiede un davanti ma non un didietro; possiede un futuro ma non un passato; ha un’estensione ma è priva di sostanza. Come l’uomo civilizzato, come il selvaggio, l’uomo della frontiera parla e agisce. Ma tutto il suo discorso, tutti i suoi atti sono orientati verso un processo di oggettivazione dell’altro; processo che progressivamente inscrive sul proprio corpo, sul proprio linguaggio, sulle proprie cose (4).
La cattura dei tratti dell’altro è un processo che appartiene appieno alla storia dell’Occidente, punto d’incontro dell’estrema pietà e dell’estrema violenza. Il limes romano, la frontiera americana, il Lebensraum hitleriano costituiscono forse gli esempi più evidenti della necessità di trasformare gli uomini in cose prima di procedere ad annessioni territoriali.
Tutt’altro che libero, l’uomo della frontiera è legato a doppio filo con i poli che la frontiera articola. Se può tracciare la propria via di fuga verso l’ignoto e l’inesplorato, è perché la società a cui appartiene linguisticamente e culturalmente gli consente di assumere una posizione di esteriorità, investendolo contemporaneamente di un compito politico preciso. Nomade a tempo determinato, l’uomo della frontiera controlla traiettorie ed occupa punti, nella speranza che poi quei punti possano diventare il centro di aggregazione di un sistema territoriale formalizzato. Un ritorno che è come un telos e che conferisce alla frontiera lo spessore di una profezia: «Un giorno saremo una grande nazione e i nostri figli cresceranno».
Annichilendo l’indigeno, la frontiera trasforma il territorio in terra preparandola, come un palinsesto, ad accogliere nuove iscrizioni, a ritornare territorio ma sulla base di nuovi princìpi, seguendo nuove dinamiche. Pur insistendo su un luogo, la frontiera è in realtà un processo ed esiste in quanto dura, in quanto permane fino ad esaurimento del proprio compito. Se Wagner fosse stato un uomo della frontiera, avrebbe potuto far dire a Gurnemanz: «Vedi, figlio mio, qui lo spazio diventa tempo».

 

 

1 John G. Neihardt, Alcenero parla: vita di uno stregone dei Sioux Oglala, Adelphi, Milano 1983.

2 John Ford, Sentieri selvaggi, 1956. «Stando a quel che predichi, a nulla. Ma quel Comanche crede che senza occhi non potrà entrare nellaterra del Grande Spirito. Dovrà vagare tra i venti in eterno».

3 Robert Aldrich, Nessuna pietà per Ulzana, 1972

4 Quando la frontiera diventa stato, l’effetto di tali processi permane: «Il Massachussets offrì premi per lo scotennatore, i quali variavano a seconda che si trattasse di cotenne di uomini, di donne, di fanciulli, e a seconda che fossero strappate da forze dell’esercito regolare sotto soldo, da volontari in servizio o da volontari senza soldo». In Frederick Jackson Turner, La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna 1959.

5 Cfr. Richard Wagner, Parsifal. Testualmente: «Vedi, figlio mio, qui il tempo diventa spazio».


 

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4 Commenti

  1. (accanto all’uomo della frontiera e a s-comparsa naturalmente, mi vengono in mente gli/le altr* della popolosa frontiera oggettivat*, a loro volta, dall’Altro oggettivato (dal Medesimo Occidentale).
    e spivak, ad esempio, e anzaldua e persino beulah richardson, da donna (negra) a donna (bianca): “di me contarono i denti, di voi apprezzarono le cosce” (nella fattispecie e con tutto il rispetto: chi mi frega tra chi mi economizza? Che differenza c’è tra chi mi compraevvende e conta – i denti, i cavalli – “o” chi mi compraevvende e misura dunque prezza, e metrica:)?

  2. La poetica del confine risulta di facile accessibilità all’uomo immaginifico.
    Diventa impegnativo invece tentare di tracciare un’ontologia del confine che calcoli la medietà come forma eminentemente umana e che riesca a rifletterla fenomenologicamente.
    é il compito che mi ero preposta prima d’incontrarla davvero, la frontiera, che inibisce ogni concettualizzazione tipicamente occidentale.
    Ccntinuo quindi a lavorare all’uncinetto, attività che mi collega alle tradizioni tribali oltre qualsiasi territorialità :-)
    ps: accetto prenotazioni di manufatti su misura

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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