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Tradizione e innovazione nell’arte del tè in Cina e in Giappone

di Livio Zanini

Nel chanoyu, l’arte del tè giapponese, i principi postulati dal suo fondatore Sen no Rikyu alla fine del XVI secolo sono stati tramandati e interpretati dalla tradizione successiva sia nella loro essenza che nella loro espressione concreta, attraverso una fedele trasmissione delle modalità di preparazione e degustazione dell’infuso.
Il sistema degli iemoto, i capifamiglia che in Giappone si tramandano l’arte da generazione a generazione, ha poi contribuito alla cristallizzazione e alla perpetuazione del chanoyu. Tutti i maestri delle diverse scuole, hanno trasmesso con passione e diligenza quest’arte, trovando spazio per la propria creatività per quanto concerne la progettazione della stanza da tè, la scelta del corredo di strumenti e degli arredi, nonché dei gesti prestabiliti usati nello svolgimento del rituale stesso. Tuttavia, nessun’innovazione ha mai modificato la struttura fondamentale del rito, basato sulla preparazione del tè in polvere praticata ai tempi di Sen no Rikyu. Dunque, è negli ambiti definiti dalla tradizione che si è evoluta quest’arte, che ci permette ancora oggi di vedere e apprezzare, vive più che mai, movenze e gestualità antiche, perpetuate fedelmente per secoli.
La forza di questa tradizione è stata tale che anche l’introduzione di elementi nuovi, come l’usanza di preparare l’infuso con le foglie di tè intere tè arrivata dalla Cina tra il XVII e il XVIII secolo, non ha assolutamente portato all’abbandono della pratica del chanoyu. Al contrario, fu proprio il nuovo tipo di tè, il sencha, a venire ricondotto alle forme di codificazione e trasmissione da maestro ad allievo proprie della cerimonia del tè giapponese, dando vita a tradizioni parallele di scuole di cerimonie fatte con il tè in foglie.
La centralità e la pervasività dell’arte del tè nella cultura giapponese non si è limitata al solo ambito della preparazione e degustazione dell’infuso. La cucina, l’architettura, l’abbigliamento, le ceramiche, la pittura, la stessa letteratura e moltissimi altri aspetti della vita materiale e spirituale del Giappone sono stati profondamente influenzati dai principi estetici del chanoyu. Si può dunque considerare il culto del tè un punto di partenza e diffusione dell’estetica giapponese.
Volgendo il nostro sguardo alla Cina, dove il consumo del tè è nato molti secoli prima del suo arrivo in Giappone, potremmo invece dire che l’arte del tè ha rappresentato una sorta di punto di arrivo e convergenza dell’estetica cinese.
Tra i primi a diffondere il consumo del tè in Cina, probabilmente già a partire dal V secolo d.C., vi furono i monaci buddhisti, che lo promuovevano quale sostituto delle bevande alcoliche. Questo legame tra tè e Buddhismo, tra la bevanda che risveglia e la dottrina del “Risvegliato”, accompagnerà tutta la storia del tè nell’Asia Orientale. Tuttavia, i più entusiasti cultori e promotori dell’uso del tè in Cina non furono tanto i monaci, quanto i letterati confuciani, i wenren (bunjin in giapponese) che costituivano l’élite della società cinese e tra i quali venivano selezionati i funzionari dell’impero attraverso un severo sistema di esami.
Fu con il Chajing (il “Canone del tè”), il primo testo interamente dedicato a tale bevanda nella storia dell’umanità, scritto da Lu Yu nel 760 d.C., che il tè entrò definitivamente tra i costumi dell’élite. Per i letterati il semplice gesto della preparazione e consumo della bevanda preparata con le foglie della Camellia sinensis divenne un passatempo raffinato ed elegante, un’arte del quotidiano che rifletteva in ogni suo aspetto le molteplici sfaccettature della cultura della quale erano i portatori.
Nella preparazione e apprezzamento di questa semplice bevanda, che toglie il torpore e stimola la mente, convergevano e trovavano espressione sia il loro spirito sobrio e frugale, sia la loro competenza ed erudizione sulla letteratura, sulla poesia, sulla storia, sulla filosofia, sull’arte, e su quant’altro contraddistingueva un uomo di cultura e di gusto.
A differenza delle bevande alcoliche, il cui consumo fortemente ritualizzato ha da sempre scandito gli eventi della vita pubblica e sociale in Cina, il tè rappresentava per i letterati un momento d’intimità, un infuso da godere nella solitudine del proprio studio o da condividere preferibilmente con pochi amici, persone dai gusti affini, con le quali chiacchierare o dedicarsi a passatempi raffinati, liberi da etichette e formalismi.
Questo è il filo conduttore che traccia lo sviluppo storico dell’arte del tè cinese. Non la perpetuazione esatta e impeccabile di gesti e modalità di preparazione trasmesse da maestro in maestro, così come è avvenuto in Giappone, quanto il sentirsi parte di un continuum storico e culturale, di una tradizione di letterati, poeti, pittori, monaci ed eremiti che dai tempi di Lu Yu ad oggi hanno coltivato la passione per questa bevanda, nonostante i radicali cambiamenti nei sistemi di preparazione e consumo che sono avvenuti nel corso dei secoli.
Infatti, il sistema di preparazione fissato da Lu Yu, consistente in un decotto salato di foglie di tè polverizzate, dovette ben presto lasciare il passo ad altre forme di tè che lo stesso Lu Yu definiva “acqua di scolo di canali e fossati”. Così venne in auge il tè in polvere preparato per infusione nella tazza (quello poi usato nel chanoyu in Giappone) e, arrivati nel XVI, si impose l’usanza di mettere le foglie di tè intere in infusione dentro la teiera o nella tazza. Tale forma di preparazione è sostanzialmente la stessa che oggi è diffusa in tutto il mondo. In seguito, nelle province del Fujian e Guangdong si iniziò a produrre i tè oolong (wulong) e si affermò un particolare tipo di infusione che si avvale di teiere di piccole dimensioni con le quali preparare infusi molto concentrati (il cosiddetto tè gongfu). Inoltre, in molte province venne sviluppata la produzione di tè neri che venivano esportati in Occidente.
Quello che emerge da questo quadro è l’esistenza in Cina di tipologie di tè molto diverse tra loro e di un ricco repertorio di forme di preparazione e di modalità di consumo. In questa pluralità e nella mancanza di tradizioni “canoniche” sta la principale differenza rispetto al Giappone.
Tuttavia, negli ultimi decenni c’è chi ha cercato di canonizzare l’arte del tè cinese, ispirandosi proprio all’esempio del Paese del Sol Levante. Il primo è stato un importante centro di arte del tè fondato a Taiwan nel 1980, con alle spalle uno dei più grossi produttori di tè dell’isola. Questa scuola ha codificato il sistema di infusione del tè gongfu per creare una cerimonia del tè cinese, ne ha promosso la diffusione e nel 1983 ha istituito un sistema di esami per diplomare dei “maestri infusori del tè”.
Lo stesso approccio è stato adottato diversi anni dopo nella Cina continentale, dove la passione dei cinesi per le normative e la burocrazia ha dato vita nei primi anni del nuovo millennio a un più articolato sistema di certificazione locale e nazionale per il riconoscimento di diversi gradi di maestri del tè. Queste sovrastrutture, se da un lato possono dare un supporto organizzativo alla diffusione della conoscenza sul tè, dall’altro risultano totalmente estranee alla tradizione di questa bevanda. Inoltre, appare ancor più estranea e contraria alla tradizione l’attuale tendenza in Cina a promuovere un’arte del tè nella quale prevalgono le componenti spettacolari e teatrali, in cui la preparazione dell’infuso viene eseguita con movimenti esagerati e leziosi, più simili a quelli della danza e delle pantomime dell’opera tradizionale.
Non siamo in grado di prevedere se questa sorta di invenzione della tradizione finirà con l’imporsi in futuro come il filone principale dell’arte del tè cinese. Ad oggi, vi sono ancora molti cultori ed esperti del tè che rifiutano o semplicemente ignorano tali innovazioni, richiamandosi ai principi di sobrietà, frugalità e mancanza di formalismi e costrizioni che da sempre hanno connotato il consumo del tè in Cina.

Per gentile concessione dell’autore. Articolo pubblicato originariamente su Zenlife Magazine anno 2007 dell’Associazione Higan.

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11 Commenti

  1. “Il tè non giudica se stesso”, dice Jet Li interpretando Huo Yuanjia in Fearless. E mostra indifferenza verso la ritualità del suo futuro avversario giapponese. Interessante questa nuova posizione e questa invenzione della tradizione!

  2. Meglio quello giapponese che cinese. E gli inglesi ne sanno qualcosa del tè verde cinese che i cinesi gli rifilavano. Ancora oggi ci pensano!

  3. Grazie di questo pezzo! Applausi all’autore!

    Ma, permettetemi, chi critica il té cinese…ho il sospetto non lo conosca, se non tramite robaccia fatta per l’esportazione!

    Come giudicare la cucina dell’impero di mezzo andando nei ristoranti cinesi di Milano. Mi vengono i brividi!

  4. l’usanza di mettere le foglie di tè intere in infusione dentro la teiera>i>

    anche qui in certi casi e in certe case si tramandano teiere

  5. il té verde giapponese è più ricco di epigallocatechinagallato. In quanto al sapore è soggettivo

  6. Non penso di avere un’epiglottide larga abbastanza per ingerire un intero epigallocatechinagallato. D’ora in poi il tè mi andrà di traverso.

  7. Beh allora chiamala EGCG. I tè versi giapponesi ne contengono molto di più dei tè verdi cinesi. Questa sostanza è oggi molto studiata per una molteplicità di attività farmacologiche o se vuoi biochimiche. E’ una sostanza che blocca l’attività al recettore VEGF, elemento chiave dell’angiogenesi tumorale, cioè in quel passagio che facilita lo sviluppo vascolare di un tumore e quindi il suo modo di nutrirsi e di crescere.
    Inoltre abbassa la pressione, è vasodilatatore attraverso la mediazione dell’ossido nitrico.

  8. Scusa il ritardo nella risposta. Ero partito. Per quanto riguarda la tua domanda è in uno di questi lavori di cui avevo conservato la bibliografia, dove c’è una tabella con ben 17 tipi di té verde tra cinesi e giapponesi differenziati per contenuto di ECGC ma non saprei più dirti in quale nello specifico, cmq te li scrivo tutti:

    Y. Cao, R. Cao, Angiogenesis inhibited by drinking tea, Nature, 1999; 398; 381.

    S. Lamy, D. Gingras, R. Béliveau, Green tea catechins inhibiy vascular endothelial growth factor receptor phoshorylation, Cancer Res, 2002; 62, 381-385

    B. Annabi, Y.T. Lee, C. Martel A. Pilorget, J.P. Bahary, R. Béliveau, Radiation induced-tubulogenesis in endothelial cells is antagonized by the antiangiogenetic properties of green tea polyphenol (-)epicallocatechin-3-gallate, Cancer Biol. Ther, 2003; 2, 642-649

    A. Pilogert, V. Berthet, J. Luis, A. Maghrabi, B. Annabi, R. Béliveau, Medulloblastoma cell invasion is inhibited by green tea (-)epigallocatechin-3-gallate, J. Cell Biochem, 2003; 90, 745-755.

    L.A. Mitscher, V. Dolby, The Green Tea Book. China’s Fountains of Youth, Avery, 1998

    D. Rosen, The Book of Green Tra, Storey Publishing, 1998

    R. Béliveau, D. Gingras, Green tea: prevention and treatment of cancer by nutriceuticals, Lancet, 2004; 364, 1021-1022

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Mi occupo dell'infrastruttura digitale di Nazione Indiana dal 2005. Amo parlare di alpinismo, privacy, anonimato, mobilità intelligente. Per vivere progetto reti wi-fi. Scrivimi su questi argomenti a jan@nazioneindiana.com Qui sotto trovi gli articoli (miei e altrui) che ho pubblicato su Nazione Indiana.
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