Vita di Evasio Stoppani

(Pubblico questo frammento di una più ampia e delirante scrittura di molti anni fa, anni di gioiose dissipazioni, facendolo dialogare con le opere di Gianluca Sbrana, visionario pittore massese, che all’epoca avevo trasfigurato nel personaggio di Fausto).

di Marco Rovelli & Gianluca Sbrana

Quando mancavano venti minuti alla sesta ora, quella dello humour nero, Fausto era sulla soglia del sonno. Accanto a sé, una ragazza della quale non ricordava il nome (in realtà, non lo aveva mai conosciuto). Lei dormiva da pochi minuti, e fino a un attimo prima l’aveva osservata minuziosamente, con sguardo da entomologo in preda a mistico furore. L’aveva trovata divina. Le ultime parole che gli attraversarono la mente prima del sonno furono: Madame Edwarda. Stava scivolando in un altro incubo indotto dalle sue letture confuse e sovraeccitate. (Cosa questa che, forse più di ogni altra, lo accomunava a Evasio).

Il sonno, se ci fu, non durò che pochi attimi. Squillò il telefono. Fausto si sentì trapanare da quell’orribile suono, rispose unicamente perché quella tortura avesse una fine. Il silenzio all’altro capo del cavo lo tramortì. Fissò il quadrato di luce che si stampava sul soffitto e rimase abbagliato. La testa ricominciò lentamente a far ripartire i motori. Frère Jacques, Frère Jacques. Le palpebre non s’incollavano più. Riattaccò.

Guardò l’orologio. 11.41. Ricordò che la notte precedente aveva visto le lancette nella stessa posizione quando era in casa di Evasio. Si era sentito male all’osteria, Evasio, tremava dal freddo. Fausto lo aveva riportato alla sua casa di montagna e vegliato come un cadavere. Si era messo a sfogliare una vecchia edizione di Minima moralia, mentre sullo schermo televisivo scorreva lo spettacolo del sabato sera. Non resse a lungo tale schizofrenia. Lasciò libro e tv. Rimaneva la veglia. Non sono suo padre. Dorme. Vado via. Ma potresti almeno… Vado via. Lui dorme. E se avesse bisogno di qualcosa? Dorme. Non c’è acqua in questa camera. Naturale. Elixir dell’eremita. Malvasia. Regaleali. Niente acqua. Solo alcool, pupazzi e maschere. Potrebbe buttare via metà delle cose che sono qui dentro. Ritenzione. Fase anale. Il dottor Freud sarebbe orgoglioso di lui.

Vediamo in cucina. Acqua minerale voglio, non di rubinetto. Altrimenti vado. Aprì il frigorifero. Vuoto. Mezzo limone rinsecchito, un pacchetto di salsicce aperto, una fetta di formaggio ammuffita, una fotografia formato tessera. Sul retro Evasio aveva vergato faticosamente una scritta: Arianna, ti amo. Dioniso. Presuntuoso. Se la ricordava bene, quella foto. Dopo aveva dovuto sorbirsi per lungo tempo i deliri di Evasio. Lo stava ancora facendo. Gli tornò in mente la canzone che in quegli atri giorni risuonava tra quelle pareti: She’s hit. Ev’ry little bit. Quando Nick Cave si ubriacava col sangue del papa. Non c’è nulla da bere, qui. Fausto aprì ad uno ad uno gli scaffali. Buio. Facile il confronto con gli scaffali della zia di Evasio, sempre pieni. L’anno dell’Iraq si era comprata tutto il supermercato. In fondo sono uguali. Non fanno che ammassare cose. E poi anche lei parla da sola. Oppure si rinchiudono nel loro silenzio, e non c’è verso di smuoverli. Il mio pozzo è sotto l’incantesimo di un fiore di ipomea, vi chiedo umilmente un pò d’acqua. Basta, me ne vado.

Squillò il telefono, Fausto uscì da quelle memorie recenti e rientrò fuori di sé. Rispose ancora più rapidamente di prima, pronto a bestemmiare. Di nuovo il silenzio. Bestemmiò. Pensò ad Evasio. Aveva riso quando se lo era ritrovato davanti in discoteca. Miracolo. Tornò nel sonno.

Un’antica sovrana risplendeva nel suo lucore notturno. Una stella la incoronava, un mantello trasparente la ricopriva, lasciando visibili le scaglie che ricoprivano il suo corpo fino al seno. In una mano, un bastone ricoperto di spine e rubini. Il braccio sinistro cadeva lungo il fianco, e da quella mano si dipartiva un sentiero costellato di fuochi, in fondo al quale s’intravedeva un castello di vetro. Dentro, un elefante. D’un tratto questi prese a barrire, il rumore si fece insopportabile, finché il castello andò in frantumi, e la sovrana si dileguò. Fausto, angosciato, si svegliò. Si accorse che qualcuno si era appiccicato al campanello, mentre la sveglia segnava il mezzodì.

Era Evasio, chi altri. Aveva una maschera di tigre sulla faccia, una mano stringeva una clava di plastica, l’altra una bottiglia di tequila comprata in un bar sfuggendo al discorrere fangoso dei concittadini. Nemmeno il sassolino di Padre Pio era stato sufficiente salvacondotto. Adesso, intendeva santificare a suo modo il giorno del Signore. “Un paio di Margarita, prima di pranzo”. Con quel simulacro di mezcal, pareva la brutta copia del Geoffrey Firmin di Sotto il vulcano. (Evasio aveva uno strano rapporto con i libri di Malcolm Lowry: se li era letti più e più volte, giungendo – nei suoi momenti più tragici, quando si scopriva incapace di ridere – quasi ad un rapporto di identificazione con l’autore. Ma quello almeno aveva Margerie).

Is it luck?: le note ipersincopate del basso di Les Claypool scudisciavano le cuffie che Evasio posò sulle orecchie di Fausto. Buongiorno. Fausto tornò alle maledizioni. Quel giorno pareva destinato al turpiloquio. “Ho sonno. Voglio andare a dormire. E poi di là c’è un’amica con me”. “Se non mi fai entrare, vado a rubare un caprone, lo porto qui e lo sgozzo davanti alla tua porta. Poi mi ammazzo”. Che Evasio ricorresse a simili rozze immagini, ciò stava a testimoniare della sua necessità di avere un sostegno pur che fosse. Così Fausto mosse a compassione. Senza indugiare oltre Evasio s’inoltrò nella casa. S’inerpicò su per le scale, innalzandosi sul grande stanzone dove Fausto dava vita a tutte le sue diavolerie luminose e ai suoi quadri dove echeggiavano memorie di Fuchs e Bosch. Tra loro, un quadro che Fausto stava dipingendo per Evasio, a sua insaputa: questi era raffigurato come un mostro sopra una nuvola, ed una fanciulla gli stava mangiando il cuore. Alma presa, era il titolo. Evasio si diresse verso la cucina, lanciando una rapida occhiata attraverso la porta socchiusa della camera. Riconobbe la ragazza distesa, ma non vi fece accenno di sorta, da gentiluomo qual era. Soprattutto, avrebbe dovuto far riferimento al passato e a un possesso, ma né prima né mio erano due lemmi articolabili in tale condizione di spirito. Si sedettero al tavolo, davanti al camino acceso. Tra le fiamme una scultura ischeletrita dai rossi occhi globosi. Fausto attendeva. Evasio parlò senza togliersi di dosso la maschera di tigre.

– Ho visto il padrone, fuori… Mi ha licenziato. Dovevo andare al ristorante, ieri sera…. Ma lo avevo dimenticato…

Fausto s’irrigidì, ché ancora una volta avrebbe dovuto farsi recettore delle libere associazioni cui Evasio dava vita quasi necessario lavacro. Costretto a ridar motura al cerebro, Fausto articolò lentamente i pensieri più lesti ad affiorare in superficie, senza troppo badare alla forma.

– Credevo avessi preso le ferie… altrimenti te lo avrei detto…Sei fatto a rovescio, Evasio… Dimentichi quel che dovresti ricordare… e ricordi quel che dovresti dimenticare…

(Il dimenticare di Evasio, in realtà, altro non era che la sua presunzione d’innocenza).

– Comunque sia… non pianto in asso le mie azioni, io…

Evasio pronunciò quest’ultima frase con un tono deciso, declamatorio, quasi stesse sostenendo una parte. Ciò che in effetti faceva. Si tolse giaccone e camicia. (La maschera, rimase sul volto). Sulla t-shirt, una scritta della quale non si percepiva immediatamente il reale valore poetico: Io sono il gruviera.

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12 Commenti

  1. E’ sconfortante quando “quelli che curano le antologie” e che pubblicano le cose degl’altri, e che decididono qualcosa sia pure di minimo nella letteratura prendono la penna in mano e scrivono. Che merda di mondo.

  2. Mi premeva soprattutto dare visibilità alle opera di Gianluca, che a mio parere è un artista che merita un riconoscimento che finora (per le ragioni attinenti al mercato dell’arte) non ha avuto. Quanto al mio scritto, è uno scritto giovanile di s/formazione, e me ne importa relativamente. Gino è libero di lanciarsi in qualsivoglia invettiva (però si prendesse la briga di andarsi a leggere le altre cose che ho pubblicato, e basta anche qui su NI, non dico ovunque), ma schiuma a vuoto, io non decido davvero niente nella letteratura – e questo suo accenno sa molto di ressentiment, se lo lasci dire.

  3. ma va là, tu e il ressentiment, e la prefazione per quel libro di transeuropa è di un presuntuoso che fa cadere le braccia

  4. Bene, intanto cominciamo a restringere il campo dei motivi che ti muovono a tanta invettiva. Vuoi spiegare anche come e perchè sarebbe presuntuosa quella prefazione?

  5. Infausta evasione, l’occhio dell’altro sull’altro. L’altro che è solo altro, e che cede al Sé, lo tradisce. L’altro che è tutto, e tutti.

    @Gino
    Pare che tanti poveri frustrati (e ci credo, con quel nome) vengano qui a rompere i coglioni per ammazzare il tempo…

  6. Visioni queste che in effetti presumono, perché è presuzione quando si risale all’ignoto da quel che è noto. Sono scrittura e pittura “d’alcol, pupazzi e maschere”. Sarà per questo che qualche pupazzo non ne sopporta la gradazione, e dietro la maschera non trattiene la bile.

  7. belli davvero. sono la conferma alla teoria protoreligiosa che le lune e i soli onirici illuminano scaldano e colorano forse più di quelli reali. a me è piaciuto anche il brano, anche se potrebbe, così accostato, apparire come la scaletta ammufiita e fragile che sale e riporta al mondo reale, rende bene come contesto scenografico in cui immaginare, in un mondo fatto di normalità o pesudo normalità, gli antri creativi che si celano da sempre nelle persone che ci circondano e che raramente riusciamo a scorgere. però forse immedesimarsi in malcolm lowry da giovani è abbastanza pesante come affermazione, soprattutto per uno che nella vita ha successo. ha bevuto ancora il cocktayl omonimo? è buonissimo.

  8. E’ vero, affermazione pesante, smisurata. Però all’epoca si beveva pesante, diciamo che eravamo smisurati in tutto… (Ricordo, tanto per essere osceno, che me ne andai, in uno dei miei picchi ciclotimici, in un viaggio solitario fino a Stromboli, e nello zaino avevo, va da sé, Sotto il vulcano…) – Però il cocktail non l’ho bevuto, adesso smanetto un po’ su internet e vedo di rimediare, grazie per la dritta…

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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