Nascita

di Ingy Mubiayi

[Amori bicolori (a cura di Flavia Capitani e Emanuele Coen, Laterza 2008) è un libro di quattro racconti di scrittrici e scrittori immigrati, nati o cresciuti in Italia. Quattro storie che sono quattro intramature di mondi, intersezioni che sono come un varco su un tempo a venire, fatto di rapidi – e anche inevitabilmente traumatici – cambiamenti. Quattro storie che – nella differenza dei mezzi espressivi dei singoli autori – mettono a fuoco una serie di aspetti centrali di un meticciato prossimo venturo, e lo fanno dalla prospettiva di chi tali questioni le sente sulla sua pelle, nel suo incarnato. Quattro storie di coppie miste, con relativi problemi di aggiustamento tra culture differenti, e di reciproche calibrature. Un libro insomma che è prima di tutto un sintomo: che ci dice che oggi non si può più pensare l’immigrazione come la si pensava dieci anni fa. Che le questioni, oggi, cominciano a essere altre. (E, proseguendo il discorso, ci potrebbe dire anche come sia folle perpetuare una legislazione sull’immigrazione come quella attuale, rimasta intoccata sotto il governo che sta trapassando). Un sintomo, dicevo, e basti riportare i sommari dati anagrafici degli autori. Muin Masri, nato nel 1962 a Nablus, Palestina, in Italia dal 1985, lavora a Ivrea. Ingy Mubiayi, nata al Cairo nel 1972 da madre egiziana e padre zairese, vive a Roma. Zhu Qifeng, nato in Cina nel 1982, vive a Padova. Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974 da genitori somali. Riporto qui il racconto di Ingy Mubiayi, che ha una libreria a Primavalle, si definisce “musulmana e occidentale” e ha cominciato a scrivere dopo gli innamoramenti per Sartre, Beauvoir, Duras, Yourcenar. m.r.]

Sospiro. Scendo e compio i gesti nuovi ma ormai automatici. Prima il portabagagli, poi lo sportello posteriore. Sgancia, aggancia, alza, stringi, sistema, e via. Un ultimo controllo alla sua borsa. Poi alla mia. Le porte automatiche si aprono e per la prima volta le attraverso con quel prolungamento del mio corpo, della mia vita. E passo nella convulsione dei non-luoghi. Emozionata? Spaventata? Pentita? Non lo so. Allungo lo sguardo verso l’interno della carrozzina, o meglio la navicella, come viene chiamato un componente del prolungamento del mio corpo che è il primo mezzo di trasporto di mia figlia. All’interno lei si dimena, lo sguardo rivolto verso qualcosa di estremamente attraente che richiede tutta la sua attenzione. Mia figlia. Non riesco ancora a impadronirmi totalmente di questo concetto. Come tutte, mi sento catapultata in un’altra dimensione. E, credo come tutte, ancora mi sorprendo della naturalezza delle cose. Eppure c’è qualcosa che mi sfugge, a cui io sono sfuggita per questi mesi, per questi anni. Intanto che aspetto, muovo meccanicamente la carrozzina avanti indietro, forse troppo bruscamente perché dall’interno arriva un verso infastidito. L’ho disturbata da faccende impegnative, ma non si perde d’animo e torna di nuovo con lo sguardo fisso rivolto alla parete dell’abitacolo, ancora più concentrata. Cerco con lo sguardo il mio compagno nella folla dell’aeroporto. Mi innervosisco per la sua flemma, possibile che ci voglia così tanto per chiedere informazioni? Intravedo la sua sagoma imponente e atletica marciare lentamente verso di noi. Lo sguardo vagante tutt’intorno. Come previsto l’operazione è complessa. Come previsto lui avverte il mio nervosismo, ma non dice niente. Mi trascina verso un banco del check-in dove presentiamo tutto il necessario per imbarcare una bambina così piccola, compreso il certificato del pediatra e quello delle vaccinazioni. La petulanza dell’operatrice aumenta il mio nervosismo, ma mi trattengo. Lui sa a cosa è dovuto il mio stato, e sa che potrei scagliarlo contro quell’innocente dietro al banco, come contro di lui. Per cui mi allontana lentamente, occupandosi del nostro imbarco. Poi, una volta finite le pratiche, mi consegna un fascio di carte, tenendosi la bambina che ogni volta abbandona le sue importantissime attività per rivolgere uno sguardo innamorato al padre. Il padre. Chissà se anch’io ho rivolto questo stesso sguardo a mio padre. Il mio compagno mi chiede se sono sicura di voler andare, da sola poi. Gli rispondo che non sono sola. Acidamente. Lui non replica ma si toglie gli occhiali e rivolge alla bambina una serie di smorfie che la fanno sorridere vistosamente. Forse si è risentito oppure non gli interessa. Avrei voluto che non me lo chiedesse ma che avesse fatto direttamente due biglietti, nonostante la mia decisione. Anzi, non vorrei proprio andarci.

Vorrei tornare nella nostra minuscola casa, adagiare la bambina sul mucchio di stoffe che ho messo per terra e tutti e due intorno a quell’essere, giocarci fino allo sfinimento. Ma ormai ho avviato questo processo e non posso più tornare indietro. Nonostante la bassa stagione, l’aeroporto è affollato. Troviamo un posto dove sederci in attesa dell’imbarco. Lui vuole un caffè, io non riuscirei a mandar giù nemmeno un goccio d’acqua. Quindi si allontana con la bambina, lasciandomi sola a guardarmi dentro. I dubbi, finora trattenuti dai frenetici preparativi, scoppiano tutti insieme, mi assillano. A che pro andare? Cosa penso di risolvere? Cosa penso che cambierà nella mia vita? Ho accuratamente evitato di pensare alla parte emotiva. Durante le ore insonni tra la poppata notturna e quella mattutina mi sono concentrata sul lato pratico, su come organizzare il viaggio, sui consigli di amici e medici per far viaggiare nel modo migliore la bambina, sulle parole di mia madre e dei miei suoceri, su noi due, io e lui. Raramente ho affrontato il motivo del viaggio.

Li vedo arrivare. Lui spinge la carrozzina come fosse un mezzo su cui viaggia qualcosa di prezioso ma con cui ha confidenza, non come un suo prolungamento. Sarà forse questo il segreto per renderli autonomi? o è l’atavica differenza nel rapporto tra padre e madre? Mi porge una bottiglia d’acqua aprendola. Un gesto rassicurante, penso, ma sono troppo presa nelle mie domande e non riesco più a parlagli da quando ha innalzato quella barriera tra di noi. Le lenti dei suoi occhiali sono diventati una barriera sottile e trasparente ma invalicabile come le porte di un caveau. Spesso immagino di uscire dal mio corpo e di guardarci dall’esterno, con gli occhi di un passante. Quella suora seduta a leggere per esempio, o quel ragazzo in maniche di camicia e la valigetta portacomputer a tracolla. Una coppia con bambino. Marito moglie e figlio. Famiglia. «Famiglia mista», suona strano, meglio «coppia mista con bambino». Lei scura, lui chiaro e il bambino, il giusto compromesso. Silenziosi, penseranno. Infelici, forse. Come se il silenzio fosse indice di mancanza. Chissà se funziona, si chiederanno. Chissà se funziona, me lo chiedo anch’io ora. Io nera, lui bianco. Famiglie di origine distanti anni luce. Si guardano da lontano, chiusi nei propri pregiudizi. I genitori del mio compagno hanno saputo di me per una conoscenza comune: la datrice di lavoro di mia madre. Non abbiamo mai capito se fosse stata una coincidenza dopo che mia madre aveva raccontato della mia relazione alla datrice di lavoro, scoprendo che erano suoi conoscenti. Un giorno la signora chiede a mia madre di intrattenersi oltre l’orario per aiutarla a preparare una cena. Arrivano gli ospiti proprio mentre mia madre sta per andarsene e la sua datrice di lavoro li presenta: sono i suoi consuoceri, esclama sorridente. L’imbarazzo è stato grande da entrambe le parti, tanto che poi le occasioni per incontrarsi non ci sono state prima dell’arrivo della piccola, cominciando dalla cena per annunciare la gravidanza. Eppure sono passati dieci anni da quel primo incontro. Le differenze ci sono e non basta l’istruzione o il denaro a colmarle.

Hanno chiamato il mio volo. Ci avviamo verso il gate. Non sei costretta, non devi dimostrare niente, mi dice. Lo so. Non sono costretta, ma lo devo. E ormai sono qui. Contro quel viaggio si sono opposte entrambe le parti sin dall’inizio. I genitori del mio compagno lo consideravano troppo gravoso per la bambina. Mia madre non ne capiva il senso. A che pro? mi chiedeva come me lo chiedo io ora. Adesso hai una famiglia, su quella ti devi concentrare. Il passato è andato, niente e nessuno te lo potranno ridare. Venticinque anni di assenza non ti bastano per capire? gridavano i suoi occhi, senza che le labbra si muovessero, mentre le dicevo che forse sarei partita. Saggia giovane madre. Forse si rivolgeva più a se stessa che a me. Proiezioni genitoriali. Ancora si chiede come mai quel giorno sono andata sul sito dell’ultima città in cui aveva abitato e di cui avevamo avuto notizia. Ho cercato il gestore degli elenchi del telefono, ho digitato il suo nome ed eccolo lì. Dopo venticinque anni. Avevo tutto ciò che mi serviva per contattarlo. Così ho rintracciato mio padre dopo tutti quegli anni. La reazione di mia madre mi ha un po’ sorpreso. Il padre che sto andando a incontrare è stato suo marito, padre di sua figlia. Neanche lei lo vede da venticinque anni, e poi eccolo apparire su un foglio stampato dal web. All’inizio è comparsa l’incredulità mista a divertimento, poi diffidenza, infine l’astio accumulato in tanti anni. Ho sempre pensato che fosse morto, mi ha sussurrato alla fine di quella convulsa giornata. Sì, ha sempre pensato che fosse morto e questo la tranquillizzava. Non l’aveva abbandonata e dimenticata per tutti questi anni se fosse stato morto. Il silenzio sarebbe stato giustificato da una causa indiscutibile, al di là di noi stessi. Quindi il suo amore e la sua dignità erano salvi. Invece, eccolo lì vivo e vegeto. Tranquillamente iscritto nell’elenco del telefono di una cittadina francese. Possibile? Possibile che in tutti questi anni a nessuno sia venuto in mente un gesto così banale? A questo punto è esploso il rancore accumulato. Ho intravisto in mia madre la giovane donna che è stata, ferita dall’abbandono. È sopraggiunto l’egoismo filiale che ha distolto il mio sguardo da quella nuova prospettiva. Avevo paura di incontrare quella donna amareggiata e di non riconoscerla come mia madre. Temevo di riconoscere me in lei. Ora che avevo quell’indirizzo non potevo più cambiare strada, dovevo affrontare quel mondo che pur non appartenendomi era mio. Intanto mia madre aveva ingaggiato la sua battaglia. Caparbiamente, ma con delicatezza. Non voleva che andassi, che andassimo. Non voleva che quell’uomo l’avesse vinta anche questa volta, incontrando figlia e nipote. Che fossimo noi a cercarlo, era un punto a suo favore, al suo orgoglio, immaginava lei. Sarebbe stato ammettere che la mancanza era da parte di mia madre e che noi avevamo avuto bisogno di lui e lo dimostravamo adesso andando da lui. Temeva che io scoprissi se mai avevo avuto quello sguardo innamorato verso mio padre, e che mi piacesse. Temeva che tutti i sacrifici che aveva fatto per me, tutto l’amore, l’impegno, l’educazione che aveva riversato in me si sciogliessero di fronte a quello sguardo, scoprendo quanto tutto ciò non era stato sufficiente a colmare il vuoto lasciato da quell’assenza. Temeva di aver sbagliato. Ma temeva anche di scoprire che nessun senso di colpa lo rodeva e se anche avesse provato un po’ di rimorso, il nostro incontro lo avrebbe fatto morire in pace, nel perdono.

Era la donna ferita che parlava. A gemere la loro pena erano le piaghe riaperte dal foglio con su stampato un nome e un indirizzo. Perché mi sia accanita su quest’idea non l’ho capito ancora. Forse per lei. Forse per me. Ma affrontare il senso di colpa che abbatte l’animo quando si provoca sofferenza alla propria madre, è stata una delle prove più difficili da superare. Sono qui in volo verso la verità. Fa ridere. La verità. Cosa ci può essere di più vero di moglie e figlia lasciate sole in un paese straniero? Come può un’altra verità modificare la visione di quella vita cambiata di punto in bianco, costringendola a una trasformazione radicale. Ho paura di ripercorrere la stessa strada di mia madre. Lei giovane che si innamora di uno straniero, e insieme vanno a vivere in terra straniera. Io giovane che mi innamoro di uno straniero, nella terra che è mia per elezione. Può un piccolo particolare deviare il flusso del destino? Può una diversa angolazione cambiare il corso delle cose? Pur essendo io la straniera qui, pur vivendo nel suo di paese, ai miei occhi e agli occhi di quella comunità alla quale nemmeno io appartengo lui è uno straniero. Camminare sospesi tra due mondi può essere divertente, ma non facile, quando questi poi diventano molti, le cose si complicano. Non sapere a chi si appartiene, a chi rimettere il fulcro della propria identità mette in imbarazzo lo spirito.

Mia madre si era appena diplomata, giovanissima, ambiva come tante a uno stipendio che le permettesse di seguire la moda di cui era appassionata, e di frequentare il salone di bellezza dove lavorava la sua amica di sempre, un po’ più spesso. Farsi mani e piedi e l’acconciatura una volta alla settimana era un sogno. Andare al cinema, frequentare i locali alla moda, lasciarsi corteggiare da ammiratori più o meno segreti, queste cose riempivano la testa di mia madre mentre faceva i suoi primi lavori. Poi l’amore. L’amore travolgente e nefasto. Uno straniero intrigante come la notte senza stelle del deserto in cui si è avvolto il suo corpo. Un corpo armonioso e solido, nonostante la sagoma proiettata verso il cielo. Un corpo da desiderare e da amare. Quel corpo, però, portava con se uno spirito che veniva da lontano, oltre il deserto, naturale marcatore di confine. Oltre, un mondo dai contorni labili e sconosciuti, per questo affascinava e impauriva. A quella giovane donna a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta piacevano le sfide, voleva disvelare gli arcani celati in quegli occhi. Forse voleva domare l’ignoto. Non dello stesso avviso era la famiglia. Tutti, parenti e amici, si erano opposti. Tutti adducevano la stessa motivazione: è uno straniero. Distinto e con buona posizione ma sempre forestiero. Non uguale l’educazione, non uguali i valori. Orizzonti diversi, limiti geografici e morali diversi. Più loro insistevano, più lei si convinceva che erano banalità, luoghi comuni, paure ataviche prive di fondamento. Non c’erano più confini in questo mondo, pensava, gli aerei e la televisione portavano ovunque.

L’altro siamo noi. Siamo uguali, siamo uomini e donne che vogliono amare e vivere in pace. Voi siete vecchi, diceva e pensava, siete i vecchi aggrappati a quelle radici che vi tengono ritti e vivi. Provate a volare come le foglie degli alberi, ad allontanarvi da quel pezzetto di terra che vi ha generati. Provate a nutrire e nutrirvi d’altro. E come una foglia volò via con il suo uomo nero venuto da oltre il deserto. Volarono via, lontano da tutto ciò che gli apparteneva, lasciando quel continente che era il loro unico comune denominatore. Approdarono nella terra dei bianchi, lei pensava di trovare la civiltà avanzata, che tutti miravano a raggiungere. Quella società aperta e dinamica, dove ciò che conta non sono le tue origini come la società classista e razzista dalla quale proveniva. Pensava di condividerne i propositi per il futuro. Pensava che importanti fossero le idee che avevi. Anni di contestazione, di rivoluzioni.

Credeva di giungere nel momento giusto per la creazione di una società più giusta. I giovani sono giovani ovunque, i vecchi fanno i vecchi ovunque. Simile storia per noi: uguali gli intenti diverso l’approccio. La prima reazione dei parenti del mio compagno fu di accondiscendenza. Di ragazze lui ne aveva avute tante, viviamo in una società libera e democratica, tutto sommato. Poi il prolungamento della nostra storia aveva destato segni di curiosità mista a sorpresa. Per parenti e amici io ero una straniera. Non uguale l’educazione, non uguali i valori. Orizzonti diversi, limiti geografici e morali diversi. Ma una buona dose di educazione e di ipocrisia aveva impedito loro di insistere. Così abbiamo fatto finta di niente anche noi e siamo andati avanti dopo il nostro inizio burrascoso. Politicamente impegnati in fronti diversi, non vedevamo che il nemico nell’altro, l’avversario da contraddire, battere e piegare negli incontri. Feste, cene, serate tranquille in locali dislocati in ogni angolo della città. Ci rincorrevamo quasi pur di sottolineare un fatto politico o di cronaca che avallasse la posizione presa. Niente di personale, così cominciavamo e chiudevamo le nostre arringhe. Poi è cominciato il personale, quando un giorno si è tolto gli occhiali per guardarmi, i nostri occhi si sono incontrati e ci siamo visti. Ciò che più temevo era che lui fosse alla ricerca dell’esotico. Pensavo che avrebbe voluto da me la dimostrazione di tutti quei luoghi comuni che girano nelle teste della gente di questo paese, come mi era capitato in precedenti relazioni. Che gli cucinassi piatti tipici del mio paese (quale?), per esempio, oppure che lo portassi in giro alla scoperta di quel mondo etnico, nascosto nelle pieghe della città che affolla le serate e l’immaginario di alcuni. O ancora che volesse da me la testimonianza in prima persona di quella che era la tragedia della contemporaneità: l’immigrazione clandestina, con i suoi barconi e le sue barchette, con le cantine stivate di persone a dormire, il tutto pagato con un indebitamento transgenerazionale allo scopo di raggiungere la terra promessa che per la maggior parte si traduce in sfruttamento e miseria, talvolta morte nei campi o nelle officine dell’Occidente civile. Niente di tutto ciò, e comunque non avrei potuto. I miei sono venuti con regolari biglietti aerei e altrettanto regolari visti. La clandestinità non fa parte della mia esperienza e quei quattro amici stranieri che ho, li ho incontrati strada facendo e non sono nemmeno delle mie zone.

Sono appassionata di sushi e di flamenco, mi piacciono i gialli nordici e amo le commedie, i locali che frequento sono più ispirati alle sonorità gaeliche che a quelle del deserto. Non eravamo poi così diversi io e lui, ma lo eravamo agli occhi degli altri, lo eravamo rispetto agli altri. Invece diversi tra diversi erano mio padre e mia madre. E forse questo li tranquillizzava, fino a un certo momento. Reinventare abitudini, camuffare usanze, celare modi di essere e di fare erano la norma. Bisognava evitare di dire «da me si fa così» perché avrebbe scatenato una serie infinita di discussioni inconcludenti, come accadeva spesso. Bisognava far passare le pratiche dei nonni per novità fantasiose ispirate dal luogo e dal momento in cui si stava vivendo. E poi sono arrivata io. La sintesi, il ponte che avrebbe unito definitivamente due sponde. Oppure avevano appena creato la terza sponda. Non avevano pensato a questo mia madre e mio padre quando mi hanno concepita. Come non ci abbiamo pensato noi. Non hanno pensato che quella creatura avrebbe portato con sé non metà dell’uno e metà dell’altro ma interi continenti su di sé e in sé. Come potrebbe accadere a mia figlia, che avrà in sé non uno ma due continenti, non due ma tre civiltà a cui far riferimento, con cui confrontarsi o scontrarsi.

A meno che non riesca a lasciarsi tutto alle spalle, o a essere effettivamente sintesi. Non posso dire di non aver saputo che avrei reso difficile il suo percorso aumentandone gli ostacoli. Un figlio non lo aspetti nemmeno quando lo hai programmato. Mi ero alzata prestissimo. Sulla confezione c’era scritto che la prima urina della mattina era quella più favorevole per un risultato sicuro. Erano le quattro e avevo cominciato a scartare l’involucro. Il primo pensiero fu di ordine pratico: la pipì delle quattro è considerata la prima della mattina o l’ultima della notte? Si dice le quattro del mattino o le quattro di notte? Rimasi a pensarci su, ma le mie conoscenze medicoscientifiche a riguardo erano vicine al nulla.

Non sapendomi decidere scelsi l’opzione filologica: non si dice le cinque di notte. Alle cinque meno un quarto avevo imparato a memoria le istruzioni in tedesco, e qualche lettera dell’alfabeto cirillico. A quel punto avvio l’operazione. Aspetto. Aspetto che le strisce si colorino. Aspetto. Aspetto poco perché entrambe le strisce si colorano di un rosso vivissimo. Netto, senza sbavature, quel colore urla il suo risultato. Aspetto. Aspetto fino a quando il mio compagno non appare alla porta, ancora assonnato e disinvolto. Mi fa segno di spostarmi senza parlare. Grugnisce qualcosa. Aspetto. Al momento sono l’unica a sapere. Aspetto ancora qualche secondo per godermi questo segreto. Poi glielo dico. Aspetto.

Tutto mi sembrava un prodigio. L’ecografia. La prima. Quella in cui appariva un fagiolino e la ginecologa festante che urlava «Eccolo!». Ricordo che il primo pensiero fu rivolto alla baldanza della dottoressa, che non conoscevo affatto. Il suo sorriso mi era parso sincero, nonostante non fosse alle prime armi. La vita continua a stupire forse più ancora della morte. Tramortita da quei pensieri, annuivo con un sorriso ebete, lui alle spalle della ginecologa, il sorriso scettico. E così abbiamo proseguito mano a mano che il fagiolo compiva il corso evolutivo che lo avrebbe portato ad assumere sembianze di un essere umano: io con il mio sorriso ebete, lui con il suo scettico.

Siamo appena decollati. Abbasso uno sguardo ansioso incontrando il volto di mia figlia, gli occhi chiusi e vaganti in chissà quali espressioni oniriche. La cintura di sicurezza in cui è costretta non sembra darle noia. Mi accorgo che un sorriso ha trasformato la mia espressione corrucciata da quando ho lasciato il mio compagno. Sempre lo stesso sorriso ebete ma un po’ più aggraziato ora. Percorro i suoi lineamenti, senza più chiedermi a quale ramo della famiglia appartengono. Eppure la corsa a identificare tutto l’albero genealogico, c’è stata. Chi vi vedeva gli occhi di nonni, bocche di prozie, nasi di cugini. A me capita piuttosto di essere impaziente di vederla grande, solo peressere assalita, subito dopo, da un senso di smarrimento all’idea di perdere questi attimi di sentimenti ed emozioni assoluti, non mediati da pensieri e parole. Il rammarico è che lei non si ricorderà niente e chissà se io riuscirò a conservarli da qualche parte. Quando ho provato a chiedere qualcosa a mia madre sulla mia nascita, è sempre stata vaga, approssimativa. Mia madre sembrava aver cancellato tutto. Come se peso o ora di nascita fossero senza alcun rilievo. Come se il fatto che dormissi o no la notte non avesse impresso nessuna traccia nella sua memoria. Per scherzo mi diceva che non ero sua figlia e che mi aveva trovato da qualche parte. Io ridevo del gioco, ma dentro ci soffrivo perché tutti i genitori raccontano aneddoti sui loro figli. Volevo sapere quante volte mi cambiava il pannolino, e a quanti mesi ho detto la prima parola, volevo sapere se avevo fatto cose di cui era andata a vantarsi con i vicini, o se in piena notte era corsa spaventata all’ospedale temendo di perdermi. A tutto ciò era impermeabile mia madre. Il fatto di non avere un padre a cui rivolgere le stesse domande acuiva il mio risentimento nei confronti di mia madre. È stato dopo aver conosciuto mia figlia che ho capito. Uscendo dalla sala parto ho incontrato lo sguardo di mia madre. In lei barlumi di quei sentimenti ed emozioni assoluti, inconsistenti e pesanti che ora ritrovo in mia figlia. Aveva usato tutte le sue energie per trattenerli. Non ho previsto il ritorno, ma ho controllato e ci dovrebbe essere un volo quattr’ore dopo il mio arrivo, il nostro arrivo.

Anche se non l’ho espresso chiaramente penso di prendere quello. Basteranno quattro ore per giungere alla verità? Basteranno per rappacificare quell’altra me che destatasi sputa tutto il suo rancore? Sono settimane che tento di immaginare questo incontro ma proprio non ci riesco. Ogni volta che provo mi si para davanti una lieve nebbia, che fa intravedere volti, gesti appena accennati, discorsi sussurrati. Poi arrivano le urla, grida sommesse di liti tra mia madre e mio padre. Lui era di ritorno da un viaggio nel suo paese, quella metà di me che nei miei tratti somatici ha lasciato tracce vistose. Mia madre sempre più triste e sempre più inafferrabile. Avevo appena tre anni, quando la nostra casa si è riempita di volti nuovi che a malapena rammento. Ricordo il vociare, il viavai incessante. Ricordo mia madre gli occhi assenti, inizialmente distante, dopo sempre più stretta a me. Poi il vuoto. La casa svuotata. Per due anni avevo avuto una famiglia numerosa, fratelli e sorelle più grandi. Ero stata coccolata e dimenticata poi d’improvviso solo una madre a coccolarmi e dimenticarmi. Nemmeno più quel padre i cui lineamenti sono impressi in quell’unica foto che mia madre ha sempre tenuto ben esposta nel piccolo soggiorno della casa d’infanzia. Sole in terra straniera. Il matrimonio in frantumi e l’impossibilità di tornare indietro a casa propria. Per orgoglio, pensai per lungo tempo. No, puro pragmatismo. Mia madre aveva acuminato i suoi aculei seppellendo la giovane sognatrice in lei, che in realtà era già sparita da un bel po’. Era vero, eravamo straniere in terra straniera, ma sua figlia sarebbe

stata straniera anche tornando indietro. Così tanto valeva provarci.

Aveva lasciato il suo mondo classista e razzista, ne aveva trovato uno ancor più feroce che non sapeva cosa farsene del suo diploma, ma aveva bisogno delle sue mani non per farle curare periodicamente da un’amica estetista ma per renderle gonfie e informi in lavori che nessuno voleva più fare. La sognatrice era stata sotterrata, la caparbia diventava più tenace che mai. La società più giusta che si aspettava non era mai arrivata. Si trasformavano invece le disparità. Non più la provenienza di ceto contava ma quella geografica. Non più differenza tra Nord e Sud del paese, ma del mondo. Una donna sola, straniera con una figlia, non è una buona presentazione, in nessuna cultura per quanto apparentemente progressista. Ma lei non temeva più nulla, si era già scontrata con il diverso. E aveva perso. I miei genitori erano fieri delle loro origini, ma non abbastanza di quella dell’altro. Il loro punto debole. Andarono avanti pensando che erano uguali, uguali alla rappresentazione che ognuno aveva dell’altro. Secondo la propria visione, la propria cultura, la propria tradizione. Solo dopo anni, solo dopo richieste eluse, solo dopo frammenti di discorsi carpiti ho ricomposto gli eventi. Solo dopo la nascita di mia figlia ho sentito dalla viva voce di mia madre il racconto della sua verità. Una verità banale, una storia come tante altre. L’uomo che veniva da oltre il deserto aveva mentito. Non sono stati né religione né usanze diverse a spezzare l’incantesimo, ma la banalità dell’inganno. L’unico elemento che accomunava i due mondi al di qua e al di là del deserto ha sgretolato questa coppia. L’uomo nero aveva semplicemente un’altra famiglia che ha tentato di far convivere con quella nuova. Non era quello che sembrava o quello che diceva di essere. Nel giro di due anni l’esperienza è finita consegnandomi l’assenza di un padre. Quello stesso padre a cui sto andando a chiedere la sua di verità.

Il volo procede tra le dimostrazione video delle manovre in caso d’emergenza e l’inizio dei preparativi per lo spuntino offerto dalla compagnia. L’equipaggio di bordo compie quei gesti di routine professionalmente senza l’entusiasmo che pubblicità e immaginario collettivo attribuiscono loro. La presenza di questa creatura, però, pare dare più vivacità alle loro espressioni. Chiunque passi, si ferma non solo per dovere ma anche per quel subbuglio che un essere innocente e completamente privo di autonomia suscita nel nostro profondo. È forse perché in qualche modo ci ricorda che anche noi siamo stati così e di quanto avremmo bisogno di tornare a esserlo. È l’ora della poppata e le assistenti di volo mi procurano tutti i comfort necessari. Mi hanno anche permesso di spostarmi per avere più spazio visto che l’aereo non si è riempito. Mia figlia sembra essere una taciturna, accenna appena a un lamento per poi attaccarsi voracemente al mio seno. Non so se è il momento più bello della maternità come sostengono molte, per adesso per me è quello più distensivo. È il momento in cui mi abbandono completamente a lei riempiendomene occhi e mente. È il momento in cui per lei ci sono solo io (o meglio il mio seno) e per me c’è solo il suo volto impegnato nella lenta e regolare suzione. L’improvviso suo sguardo che intercetta il mio, e il distendersi di un sorriso, presto sostituito dal movimento ritmico di vitale importanza. Alla fine la sua soddisfazione, la mia soddisfazione.

Penso al mio compagno, il padre che ho lasciato lì all’aeroporto. Non è ancora diventato nei miei pensieri solo il padre di mia figlia. Per il momento, la relazione è tra di noi e non mediata dalle relazioni familiari. La famiglia. Qualche volta abbiamo affrontato il discorso «matrimonio». Lui lo intendeva come pura festa da organizzare. Locale, tipo di musica, invitati. Io inseguivo il fascino del rito, immaginandomi chissà quali scambi simbolici più o meno esotici. Discorsi senza importanza, più per gioco o per vagare nelle fantasticherie dell’altro. Mia madre ha passato il nostro primo anno di convivenza a chiedermi quando ci saremmo sposati, ad offrirsi per le spese, per l’organizzazione, per qualsiasi cosa purché fosse stipulato quel contratto. Spazientita le ricordai il suo di matrimonio, quella firma che non ha garantito né amore né mantenimento. Non si è persa d’animo, anche se per un po’ non ha più toccato l’argomento. I genitori del mio compagno non si sono mai pronunciati. Il mio compagno, lui serafico, non ha mai considerato la reale possibilità. Quelle poche volte che ne abbiamo parlato seriamente, sempre la sua lingua è scivolata componendo la parola funerale anziché matrimonio. Cosa vi avrebbe trovato Freud in questo lapsus? Eppure a volte ne provo il desiderio. Il desiderio di non confrontarmi sempre, di non dover giustificare la scelta della convivenza – come spiegare che non si tratta di una scelta ma di semplice stato delle cose, inerzia la chiamerebbe qualcuno.

L’attimo di perplessità che sopraggiunge quando chiedono di «mio marito»: devo correggere o lasciar perdere? E ancora quando mi vedono con un bianco, la mancanza della legittimazione sociale attraverso quelle firme, fa pensare a precarietà. Avviene anche per le coppie autoctone, ma tra un bianco e una nera, c’è qualcosa di morboso. Non sono un uomo e una donna che si sono incontrati e amati. Sono due corpi, due civiltà, che si sono scelti per soddisfare chissà quali desideri inconfessabili, uno, l’altra per tranquillità burocratiche o nella migliore ipotesi per riscatto sociale. Ovunque, in qualsiasi parte del mondo andiamo io e lui, fianco a fianco, la parola viene rivolta al mio compagno: maschio e bianco. Ma rispondo sempre io, perché lui pigramente si affida alle mie conoscenze linguistiche, diventate deprimente soddisfazione alle mie frustrazioni di donna nera. Eppure lui, nella sua razionale superficialità, non mi ha mai vista diversa. Mai il colore della mia pelle, le mie origini sono state considerate da lui come estranee. Talvolta credo che si sia stupito dello sguardo curioso di qualcuno nei miei confronti, talvolta credo che abbia sottovalutato il malessere di cui ogni straniero soffre, accusandomi di essere preda di momentanei stati di confusione sentimentale. Talvolta vorrei che si accorgesse che sono diversa e vorrei essere trattata da diversa. Il peso dell’uguaglianza, siamo ancora poco allenati a sostenerlo.

L’aereo sta per atterrare. Comincia il mio nervosismo. Vorrei tornare indietro. Forse ha ragione mia madre a dire che non cambia niente. Forse ha ragione il mio compagno a dire che non devo dimostrare niente. Mia figlia sembra percepire il mio nervosismo e comincia ad agitarsi. Calmando lei forse mi calmo anch’io. O è l’inverso. Ho bisogno di un aiuto esterno per frenare l’ansia. Faccio ricorso alla respirazione che ho imparato nei corsi di preparazione al parto. Come sembra lontano e vicino il momento in cui più mi servirono. Le contrazioni si stavano facendo sempre più rilevanti, sosteneva l’ostetrica di turno. Come se prima fossero state senza alcuna importanza. Ci siamo. La situazione era andata precipitando in meno di un paio d’ore, che per me assomigliavano a un’eternità simile a un batter di ciglia. Allora il terrore mi assalì. Insieme alla mia bambina prendeva forma la questione che per trentaquattro settimane aveva serpeggiato nel mio animo senza mai palesarsi. Come sarà? L’ostetrica bonariamente mi rispose che sarebbe stato facilissimo, «Tranquilla, bella!». Mentre mi si rompevano le acque rettificai – urlando – la mia domanda. Non il parto, no! Intervenne l’infermiera che accarezzandomi la testa mi disse che la bambina sarebbe stata bellissima, moretta come me. E mi chiese di spingere, respirando regolarmente. Il respiro mi respira. Ripetevo il mantra insegnatomi nel corso di preparazione al parto, ma con la contrazione esplose ancora di più il mio punto interrogativo. Quale sarà il suo mondo? Ho eluso per otto mesi questa domanda. Abbiamo fatto finta di niente io e lui. Come se fosse tutto normale, come se noi fossimo normali. Eppure tutto e tutti continuavano a ricordarcelo. Amici, parenti, conoscenti e sconosciuti quando ci vedevano insieme. Sarà bianco o sarà nero? No, sarà un cioccolatino al latte, dicevano i più briosi. Caffelatte, sostenevano i più seriosi. Mulatta, gli intenditori. Io non pensavo. O meglio pensavo che sarebbe stata normale. Normale. Intercettai lo sguardo che l’infermiera aveva lanciato al mio compagno alle mie spalle e nello stesso istante lui cominciò a respirare più rumorosamente mentre le sue dita mi stringevano più forte. L’ostetrica stava manovrando nel mio intimo, tranquillizzandomi allo stesso tempo: «Ma sì cara, hai fatto anche l’amniocentesi, certo che sarà normale. Ora però un ultimo sforzo, respira trattieni e spingi». Io urlai le mie domande, le mie perplessità e a un tratto sentii un altro urlo che si univa al mio e mi sembravano le stesse domande, le stesse perplessità.

Da quella notte qualcosa è cambiato nel nostro rapporto di coppia. È stato come se ci fossimo accorti di essere una coppia mista. Guardavamo quella creatura cercando anche noi i segni della parentela. Scrutando nel colore della sua pelle le tracce del destino. Ci stavamo rendendo conto delle differenze tra noi, in lei. Lui sembrava aver realizzato la nostra condizione. O meglio la mia condizione di straniera in mezzo a stranieri, e che quel mio stato aveva trascinato anche lui in una condizione apparentemente anomala. Ogni volta che incontravamo una coppia mista, lui li osservava, scrutando differenze e similitudini tra loro e in rapporto a noi. Una volta mi sciorinò i numeri delle nascite, dei matrimoni, delle convivenze, delle separazioni e dei divorzi tra italiani e stranieri. Segno che aveva fatto una qualche indagine su internet. Rimasi così sorpresa che non riuscii a commentare, dimenticando quella sfilza di dati. Rimasi soprattutto sorpresa dal fatto che ora lui ci considerava «coppia mista». Me ne domandavo il perché tra una poppata e l’altra, mentre mi affaccendavo sul fasciatoio a scoprire i più piccoli dettagli di quel corpo minuto. Mentre sceglievo tra la pasta protettiva e il talco al cambio del pannolino, mi confondeva l’idea che lui avesse preso coscienza della nostra diversità. Tante volte avevamo parlato, discusso, litigato sul mio stato di straniera. Spesso succedeva dopo un mio viaggio in qualche antro della burocrazia, o dopo qualche episodio comico o tragico legato al colore della mia pelle. Lui sorrideva o inveiva, a seconda, ma sempre considerando i fatti come normale amministrazione, come se potesse succedere a tutti, indifferentemente dalle origini o dalla pelle. Il suo ragionamento si spingeva quasi a negare l’esistenza di forme di razzismo, perché tutto era riconducibile a semplice, banale, onnipresente ignoranza. Quando era legata agli esecutori di legge o alla legge stessa si trattava dell’endemica disorganizzazione politica e amministrativa del paese. Quando proveniva da ambienti borghesi era snobismo o affettazione, mentre negli ambienti più popolari, essendo per loro natura più spontanei, la si poteva cogliere più propriamente come ignoranza. Queste le sue teorie che io mi affaccendavo a criticare e smontare ogni volta che si presentava l’occasione, anche se a volte avrei tanto desiderato che fossero vere, che non ci fosse niente di personale in quell’accanimento verso il diverso, verso il colore della pelle, la forma degli occhi o la lingua parlata. Mi sarebbe piaciuto che certe leggi fossero state dettate da incompetenza e non da pragmatica volontà di assoggettamento, mi sarebbe piaciuto che alcuni atteggiamenti derivassero da pose o da mancanze invece di provenire da paura o da cattiveria. Dopo la nascita della bambina, sorprendevo il mio compagno a osservarmi, come faceva con le altre coppie. Mi fissava attraverso quelle lenti come se volesse vedermi con altri occhi, da un’altra prospettiva. E ciò che più mi spaventava era la possibilità che ci riuscisse. Cosa vedeva ora? Quali occhi stava usando? quelli della legge, quelli del borghese o quelli del popolano? Il suo sguardo diventava tanto più torbido verso il mio volto, quanto più limpido verso sua figlia, nostra figlia. E ciò che più mi preoccupava erano quegli occhiali che non toglieva più. Nelle notti insonni vagavo al nostro stato precedente, quando per parlare di noi lui usava levarsi gli occhiali da vista o da sole, che fossero. In quello sguardo miope io mi perdevo trovando il giusto percorso che insieme volevamo fare. Bastava quel gesto a stabilire complicità, o a ristabilire un contatto dopo litigate furiose per fatti nostri o del mondo. Senza parole, era sufficiente rimuovere quell’oggetto dal suo volto per ritrovare la nostra intimità.

Quando ha cominciato a non toglierseli più? La mia ostinata insistenza per avere un figlio e la sua altrettanto ostinata elusione mi hanno forse resa cieca ai segnali che quelle lenti mi lanciavano? L’avevo convinto ma le sue riserve si esprimevano attraverso la frase ricorrente «rimango in stand by», quando gli parlavo del nostro futuro a tre, mentre gli occhiali se li toglieva solo per andare a dormire. Ha ricominciato a toglierseli alla nascita della piccola. Non i primi giorni in cui effettivamente è rimasto alla finestra a guardare l’avvicendamento intorno a quella creatura. Anche la distanza tra i nostri familiari sembrava accorciata dall’embrione di ponte lanciato tra due sponde. Poi lo sguardo è cambiato, verso di me e verso di lei. È cominciato il suo lento avvicinarsi a quell’essere primordiale, puro istinto, che cominciava ad avvertire parte di sé. Nello stesso tempo mi sembrava che avvenisse un graduale allontanamento da me. Ora gli occhiali se li toglieva solo quando si rivolgeva a lei. Poi, piccolezze, ha cominciato a insistere sulle somiglianze, tutto era riconducibile a lui e alla sua famiglia. Ha portato a casa il suo album di foto dell’infanzia per darmi la prova che lei era il suo ritratto, come se ciò potesse dispiacermi, visto che avevo scelto lui per mettere al mondo la mia discendenza. Poi un giorno tornò a casa con uno di quei diari dove raccontare con parole e immagini i primi passi della piccola. Alcune pagine erano dedicate alle famiglie di origini, il lato della mamma e il lato del papà. Sul mio apparvero solo due nomi, il mio e quello di mia madre. Sul suo volle trovare il modo di incollare una pergamena di cinquanta centimetri con il suo albero genealogico. Il giorno dopo digitai il nome di mio padre su quel sito. Ora sto qui a usare quella stessa respirazione che mi ha aiutato durante il parto sperando che riesca a calmarmi, a calmarci. La simbiosi che si è creata mi spaventa e mi inorgoglisce, sentimento che mi fa paura da sempre perché so che ne ho pieno il petto. Ancor di più mi spaventa la mancanza di figura maschile nel mio immaginario. Sei fortunata, aveva esclamato una mia amica, perché non hai l’immagine della famiglia-tipo. Probabilmente è questo che si legge dall’esterno, la mia non è stata una famiglia-tipo: o troppi o troppo pochi. Quale delle due opzioni seguire? Della famiglia numerosa ho solo un vago ricordo, a tratti piacevole, altrimenti coperto dall’indifferenza. Si viveva ammassati nella grande casa pagata dall’agenzia per cui lavorava mio padre. Tutte le femmine dormivano in una stanza, i maschi, più numerosi, erano ripartiti secondo l’età. Si giocava, si usciva a passeggio, si mangiava in tavolate infinite, ai miei occhi di piccola. Mia madre la vedevo di rado all’inizio. Aveva accettato la nuova situazione per amore e poi, forse, aveva trovato familiare l’atmosfera che la folla in casa aveva creato, le ricordava la sua famiglia, sette tra fratelli e sorelle, più nonni e zii quando erano in vita. Poi io e mia madre cambiammo casa, trovandoci in un piccolo appartamento e qualche volta c’era anche mio padre. Non durò molto perché anche quella casa venne lentamente ma progressivamente invasa pacificamente dagli altri fratelli. Trovavano mia madre simpatica, forse, essendo quasi coetanei? Oppure avevano bisogno di qualcuno che si prendesse cura di loro, visto che la loro di madre era rimasta al paese? Ma anche questo ben presto era finito. Da un giorno all’altro, ci siamo ritrovate da sole. Tutto il trambusto finito, tutta la famiglia ridotta a due individui, io e mia madre.

Famiglia piccola, quasi non-famiglia, di questa è intrisa la mia persona. Dopo aver passato l’esperienza di avere fratelli è difficile tornare allo stato di figlia unica. È logorante non condividere l’attesa per il genitore che torna stanco dal lavoro, essere consci di non aver diritto a nessun capriccio. È frustrante sapere che la fatica segnata sul volto di tua madre è tutta volta a te. Ogni nuova ruga, aumenta il tuo senso di colpa. Ogni risata è una boccata d’ossigeno. È sorprendente come negli ultimi dieci anni la nostra vita sia completamente cambiata. Sembra che sia segnata da uno spartiacque: l’inizio della mia carriera e l’inizio della relazione con il mio compagno hanno decretato il rilassamento della fronte di mia madre. Sparite alcune rughe che mi angosciavano, sempre più risate che mi allietavano fino alla rinascita di mia madre in un nuovo lavoro, una nuova casa, una nuova relazione questa volta con uno del suo paese. Uguali orizzonti, uguali limiti. Forse per questo la mia ricerca l’aveva spaesata, l’avevo catapultata in un passato troppo doloroso per poterlo affrontare con gli occhi invecchiati della sognatrice risorta. L’indirizzo stampato sul foglio mi aveva perseguitato per molto tempo. All’inizio non sapevo cosa farci. La reazione di mia madre mi aveva lasciata perplessa, con il mio compagno quasi non ne parlavo. Poi ho scritto quel bigliettino. Essenziale.

Il mio nome, il mio indirizzo e scuse in caso ci fosse stato un errore di persona. Nel giro di qualche giorno mi è arrivata la risposta. Ho aspettato altri due giorni prima di aprirla e questa volta non avevo detto niente a nessuno. Giravo con quel peso nella borsa senza riuscire a liberarmene. Andai al parco vicino casa con mia figlia, mi sedetti sulla panchina che tante volte mi aveva ospitato affannata dal peso della gravidanza e lì stetti più di un’ora, i pensieri fluttuanti tra lei, me, noi, lui, loro. Una lettera da mio padre. Una figura immaginata per venticinque anni, andata mano a mano sbiadendosi fino a diventare uno spettro innocuo, eccola qui, di nuovo a prendere forma e sostanza, forse anche pericolosità. Osservai attentamente la busta ancora chiusa. Era azzurrognola, ricercata. Sarà andato a cercarla appositamente per me oppure tiene lì un blocchetto per la corrispondenza? La calligrafia è ordinata ed elaborata, come quella che mi è capitata qualche volta di leggere su documenti scritti di suo pugno. Il mio nome scritto da mio padre, una novità. Che emozione è quella che mi riempie il petto? Ho bisogno di concretezza, abituata a tenere i piedi ben saldi a terra, ho paura di non trovare terreno su cui appoggiarmi. In mio soccorso venne mia figlia, svegliandosi ululando la sua fame dal suo abitacolo. Interpretai quel richiamo come un segno salvifico e l’attaccai al seno immergendomi nel suo volto. Non aprii la lettera quella volta. L’emozione era stata troppo grande per viverla da sola, io che avevo fatto della solitudine un’amica fidata, una confidente. Tornai a casa sconfitta e timorosa. E aspettai il suo ritorno. Il mio compagno manifestava più curiosità antropologica che partecipazione e questo mi irritava ma nello stesso tempo mi dava la forza di andare avanti, come fosse una sfida tra lui e me, come dovessi obbligarlo a seguirmi in quel percorso. Aprii quella lettera davanti a lui, fintamente baldanzosa. Ma chère fille così iniziava e con ton père finiva. Ciò che era in mezzo l’ho letto e riletto per diversi giorni. Una pagina intera di entusiasmo, con quella calligrafia grande ed elaborata. Una pagina di domande, notizie, ricordi e raccomandazioni. Come se ci fossimo scritti fino all’altro ieri. Una pagina di parole di un padre alla figlia, con una lieve, lievissima venatura di rimprovero, ma già perdonata la colpa. Mi chiedeva di mia madre, voleva sapere il nostro numero di telefono, raccontandomi delle carte telefoniche convenientissime e chiedendomi se anche da noi c’erano, come se vivessimo in chissà quale paese primitivo. Mi parlava del suo dolore all’anca, e di un’imminente operazione che un po’ lo preoccupava, ma i medici erano ottimisti. Concludeva con l’assoluta necessità di incontrarci e «tanti tantissimi saluti alla mamma che è sempre nel mio cuore». Come post scriptum c’erano i saluti dei miei fratelli e delle mie sorelle i quali tutti mi aspettavano con trepidazione. Forse qualcosa mi era sfuggito in tutti questi anni. Alla prima lettura non avevo afferrato bene il tenore della lettera, la leggevo traducendo al mio compagno.

Lui seguiva distrattamente e il suo commento finale fu un semplice «bel tipo» prima di immergere i suoi pensieri negli occhi della bambina. Poi leggendo e rileggendo un’ondata di rabbia si è riversata nelle mie viscere. Sentivo mancarmi il fiato ogni volta che pensavo al contenuto della lettera. «Ma cosa ti aspettavi?», aveva chiesto mia madre, stranamente divertita, non so se dal contenuto o dalla mia agitazione. Me ne andai risentita. Cosa mi aspetto da un padre che non vedo da venticinque anni? Da un padre che non vede la figlia da venticinque anni, provai a ribaltare il punto di vista. Come reagirei se… Impensabile. Era semplicemente impensabile essere al suo posto. Provai a rigirare la domanda al mio compagno. Mi rispose che forse avrebbe usato un tono diverso, magari il contenuto più o meno uguale. Il solo fatto che abbia potuto prendere in considerazione l’ipotesi mi offese. Differenze di genere? O differenze di personalità? Non capivo perché non fosse ovvio il mio risentimento per quel tono e quel contenuto, non capivo cosa ci fosse di divertente e di imitabile in quella lettera. Eppure risposi, spinta da non so bene quale forza interiore. Come il primo biglietto, anche questo essenziale. Risposte meccaniche alle sue domande, sì sto bene, sì lavoro, insegno quella lingua che mi hai lasciato in eredità, no, non sono sposata, più qualche frase di circostanza sulla sua salute e su quella di mia madre. Ho lasciato il mio recapito telefonico, senza pensare. E poi è arrivata la telefonata. Un semplice «oui?» di risposta al mio «pronto» è bastato a infiacchirmi le ginocchia. «C’est papa a l’appareil» ha proseguito quella voce familiare ed estranea. Avvertivo l’evento come straordinario, come se avessi risuscitato un morto dal suo eterno sonno. Come nella sua prima lettera, il tono era gioviale, solo un lieve tremore nelle parole tradiva l’emozione. O l’età. Parlammo, io e mio padre. Parlammo del più e del meno. Parlammo del tempo, dei suoi ricordi di quella che era diventata la mia città, parlammo di alcuni vicini, conoscenti, e del nuovo presidente della Repubblica. Poi ci salutammo con la promessa di sentirci presto. Tutto come se ci fossimo sentiti l’altro ieri, una settimana fa al più tardi. Eppure un quarto di secolo era passato, mi aveva lasciato bimba appena capace di scrivere il proprio nome, ora mi trova con una figlia. Ma non glielo detto. Gli ho appena accennato alla mia relazione. Alla telefonata successiva ha insistito su questa relazione. Ha voluto sapere chi era, qual era la sua professione e com’era la sua famiglia. Per educazione gli ho risposto, anche se un po’ sconcertata. È questo che fa un padre? Decisamente non era abituata. Un pensiero sottile come un capello si è posato nella mia mente, appesantendo il mio animo. Era questo che cercavo? Ha voluto sapere di mia madre, ha voluto il suo numero di telefono. Intanto mi arrivavano lettere, cartoline, biglietti foto da parte di alcuni fratelli e sorelle che ricordavo appena, confondendo gli uni con gli altri. Poi mi ha fatto il grande invito. Ci dovevamo assolutamente vedere. Avrebbe tanto voluto tornare in quella città così caratteristica, ma la sua età e i suoi acciacchi non glielo permettevano, così se per me andava bene io e il mio compagno saremmo dovuti andare da lui. Lo tranquillizzai dandogli risposte elusive, ora vediamo, dipende dal lavoro, non ho ferie. Sicuramente il mio compagno non sarebbe venuto. Ed ecco la prima lite con mio padre. Inconcepibile che l’uomo di sua figlia non andasse a presentarsi al suocero in vista delle imminenti nozze.

Fargli capire che le nozze fossero imminenti solo nella sua testa fu un’impresa. Fargli accettare che il mio compagno non sarebbe venuto perché io non volevo, è stato impossibile. Lasciò passare qualche tempo più del solito prima di richiamarmi. Trepidazione e terrore, i sentimenti che accompagnavano quelle telefonate e le ore successive. Solo i grandi occhi di mia figlia fissi nei miei a placarmi. Il mio compagno era troppo preso dal subbuglio che la bambina aveva portato nella sua vita. Comunque non capiva quale esigenza mi spingeva a ristabilire quel contatto e io non avevo voglia di raccontargliela con quegli occhiali davanti. La faccenda non era più tra me e lui, ma tra un noi e un voi, come se per noi fosse normale andare a cercare un padre che non abbiamo visto per venticinque anni. Mia madre dopo avermi dato battaglia feroce, aveva di nuovo cambiato tattica. Ora rideva di noi, di me e di mio padre. Tirava fuori aneddoti della nostra vita in comune che mai avevo saputo. Alcuni divertenti, come quando mi ero arrampicata sulla sua scrivania e insolente avevo fatto la pipì sulle sue carte perché da giorni era chiuso nel suo studio senza badare a me. Altre un po’ meno, come quando mi persero in un grande magazzino vivendo attimi di terrore per ritrovarmi dopo ad aspettare sul marciapiede al freddo e nell’indifferenza della gente. Parlare con lui le aveva fatto ritornare la memoria? «Solito bugiardo, tuo padre!» fu il commento di mia madre quando le chiesi di quella telefonata, con il suo sorriso scanzonato sulle labbra disegnate da un artista. E mentre stendeva i panni, mi raccontò i dettagli della telefonata ridendo, talvolta a crepapelle. Diceva che l’ha sempre amata e che l’ama tuttora. Che lei sarà sempre sua moglie e che ora provvederà a sistemare tutte le cose. Io ero inorridita, lei divertita. Quella telefonata l’aveva come rasserenata. Finì lì la sua battaglia contro il mio viaggio, il nostro viaggio che avevo rimandato quasi aspettassi la sua benedizioni. Anche se a lei l’avevo dato per certo, in realtà io stessa ero fortemente indecisa. Così decisi di partire per incontrare quel padre bizzarro, che faceva sorridere e ridere tutti tranne me. E mi corrodeva l’animo il fatto che avrebbe interpretato il mio arrivo con la piccola come un sua vittoria: non gli portavo semplicemente un genero, ma la nipote, sangue del suo sangue. Ma non potevo lasciarla, ancora dipendente dal mio seno e io dalla sua energia.

L’aereo sta per atterrare, e fra qualche minuto lo rivedrò. Le domande mi si accavallano nella mente. Non riesco a decidermi sul giusto approccio. Serio, risentito, noncurante, amichevole. Non so come si comporta una figlia con il padre. Spesso ho osservato con attenzione e con stupore i rapporti tra padre e figlia, solitamente delle mie amiche. Gesti, atteggiamenti, toni della voce e discorsi spiati e carpiti per formarmi un’idea. Quale sarà la relazione tra mia figlia e suo padre? Sarà un ordinario rapporto genitoriale oppure farà differenza che lui è maschio e bianco? Mia figlia si vergognerà di me? Dei mondi dai quali provengo, di tutto ciò che io rappresento? Per molto tempo io ho escluso una parte di me dalla mia vita per una frase sussurrata a cinque anni. Mia nonna forse o mia zia, discutendo con mia madre, disse di stare molto attenta perché qualcuno di loro avrebbe potuto venire a prendere la piccola, cioè qualche uomo nero mi avrebbe portato via da mia madre. Orrore e terrore. Per molto tempo vedendo un uomo nero venirmi incontro ho pianto disperatamente attaccandomi alle gambe di mia madre. Qualche istituzione scolastica rimproverando mia madre ha formulato teorie antiche e banali come rifiuto delle mie origini più deboli, accusando mia madre di essere razzista e incapace di educare la figlia. Mia madre non se ne curò, per fortuna, intuendo i miei motivi mentre io sola sapevo che era paura, semplice paura di essere strappata via dalla mia unica certezza. Poi alla paura viscerale dettata da quella frase si è aggiunto un timore razionale: gli uomini e le donne di al di là del deserto mi sentiranno sempre diversa e mai mi accetteranno perché il colore della pelle non basta a farti parte di una comunità. La presenza di mia figlia ha scatenato una necessità impellente di una completa accettazione di me, del mio passato per poter costruire un futuro che non è più solo mio. Per accettare il passato ho però bisogno di scoprirlo e conoscere una parte di me che anni fa è stata messa in silenzio. Assopita, l’ho allontanata dalla mia vita, costruendomene una nuova proprio sul vuoto che aveva lasciato. Forse è arrivato il momento di risvegliare quella parte ancora offesa, che per anni mi è sembrata il lato oscuro delle mie origini, la faccia della luna che non si vede e che più si teme. Forse il mio compagno prima di me ha visto quella faccia e ne ha avuto paura. Forse ora vedendoci davanti alle porte automatiche del gate, avvinghiate una all’altra, ha visto le due figlie, si è ricordato del noi prima di lei e ha visto lei senza di noi. Forse per questo togliendosi gli occhiali mi ha sussurrato che non nessuno, che è lei e basta e che noi siamo noi Appena esco dal velivolo accendo il telefono aspettarmi il messaggio della compagnia telefonica annuncia che ho cambiato nazione e quindi gestore, a inviare un messaggio al mio compagno e a tranquillizzarli sullo stato della bambina. Non avendo bagaglio mi dirigo al ristorante dove abbiamo fissato l’appuntamento. Lui di certo riconoscerà, ma io sarò in grado? Scruto in tutte con uno sguardo che malgrado il mio tentativo ansioso. Finché una voce al mio fianco non pronuncia nome.

Dopo quattro ore ho preso quel volo.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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