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L’altra faccia di Israele (una lista di autori)

(Questa vuole essere una proposta di un dossier dedicato alla dissidenza intellettuale in Israele. Di esso fanno già parte alcuni pezzi postati su NI – qui e qui.)

Di Francesco Forlani, Lorenzo Galbiati, Daria Giacobini, Diego Ianiro, Andrea Inglese, Fabio Orecchini.

È passato più di un mese dalla proposta – pubblicata qui su Nazione Indiana – che intendeva essere un’alternativa sia al pieno sostegno della Fiera del libro di quest’anno sia al suo boicottaggio. Da allora non molto è cambiato se si eccettua l’escalation della violenza fuori e dentro gli incerti confini del Paese ospite della Fiera. Violenza che fa rumore e scuote solo quando raggiunge certi picchi ciclici di mostruosità, ma che lascia generalmente indifferenti nel suo costante – e del tutto asimmetrico – stillicidio quotidiano.

Violenza che giorno dopo giorno ha reso quella proposta anacronistica e, per certi versi, quasi offensiva, se non si finge di considerare il carico di morte e di lutto che un mese e più ha lasciato a un pugno di famiglie israeliane e a decine e decine di famiglie palestinesi, già provate dalla sistematica distruzione fisica e morale della loro esistenza.

Mentre noi si discuteva, si precisava l’azione, a Gaza si crepava trasportando Qassam artigianali a dorso di mulo, perché di benzina non ce ne sta più neanche una goccia. Peggio, si crepava magari solo perché il rifugio scelto era quello sbagliato: ma dove scappare quando si è in una prigione? Circa centodieci vittime civili in un giorno solo non sono poche, in effetti.

Ma non è quello che fa montare la rabbia, che spinge a desistere nelle proposte, nei tentativi di conciliazione – a fronte di un’amarezza soverchiante. Sconfortano i dettagli dell’invasione israeliana di Gaza, quegli eventi sul campo che difficilmente sfondano nei media il muro spettacolare che il sangue delle vittime di morte violenta garantisce sempre e comunque: l’uso delle scuole palestinesi come postazioni militari israeliane, per esempio; la violazione di spazi, cultura, memoria e fiducia dei bambini che si tradurrà giocoforza in odio verso quel nemico alieno in divisa; odio che, in mancanza di esperienze di contatto umano presaghe d’un futuro di pace, sfocerà poi nella corsia preferenziale della vendetta futura.

Qualsiasi entusiasmo verso la nostra proposta è ora destinato a scemare e a spegnersi, per manifesta impotenza nell’opporsi a una catena di eventi che appare ineluttabile e inarrestabile, ma che in verità potrebbe essere fermata se intervenissero i garanti del diritto internazionale in modo appropriato nei confronti delle violazioni dei diritti umani, e dei crimini contro l’umanità, che continuano a perpetrarsi. Quei garanti sono colpevolmente ciechi, sordi e muti – oggi più che mai.

Per continuare a credere a un dibattito a tutto tondo, alla Fiera del libro, sul sionismo, sulla democrazia in Israele, e sulla questione israelo-palestinese, si può mantenere una certa dose di lucidità solo se ci si rende conto che gli eventi dell’ultimo mese non sono l’eccezione ma la norma (in scala più visibile di altre occasioni), e che la nostra proposta avrebbe voluto rompere le regole di questa situazione mettendo in luce chi dall’interno percepisce quanto le radici di questa “normalità” insensata e folle affondino in “equilibri” storici, economici e geo-politici che vanno ben oltre la geografia attuale di Israele e di quella terra sempre più esigua che chiamiamo Palestina.

Avremmo voluto che alla Fiera ci fosse spazio per tutti quei poeti, scrittori, intellettuali e giornalisti israeliani realmente critici nei confronti del sionismo e in grado di riconoscere – fuori dalla propaganda – l’emergenza democratica di uno stato, lo “stato ebraico”, che volendo configurarsi in base a una precisa appartenenza identitaria, tende ad escludere dal pieno riconoscimento di diritti e doveri una parte consistente di popolazione presente sul suo territorio, nonché l’intera popolazione imprigionata su quello che ancora occupa, in spregio al diritto internazionale.

Ma questi autori per lo più non avranno spazio, sopratutto in occasioni ufficiali come le Fiere del Libro, e continueranno ad essere assenti dai dibattiti sulla stampa italiana ogniqualvolta si discute di Israele e si documenta il punto di vista di qualche scrittore o intellettuale israeliano.

Avremmo voluto inaugurare, con il supporto di alcuni redattori/lettori di NI e dei promotori del boicottaggio, la mobilitazione per l’inclusione, nel contesto della Fiera, di tutte quelle voci ebraiche nate, cresciute o residenti in Israele che sono messe a tacere da una precisa strategia di marketing politico che mette in vetrina gli scrittori organici alle politiche sioniste presentandoli, però, come critici dell’operato del governo, e magari anche come progressisti laici e pacifisti, al fine di mostrarci un solo volto di Israele, quello moderno, buono e luccicante di “unica democrazia del Medioriente”.

Gli eventi dell’ultimo mese, e il silenzio della maggior parte dei soggetti che volevamo coinvolgere, non ci hanno permesso di inaugurare la mobilitazione, e crediamo sia troppo tardi, ora, per sperare che si concretizzi.

Però nulla vieta a Nazione Indiana di fare in modo che il presente articolo, con relativa lista di autori, dia il via a un dossier che voglia rendere visibile la letteratura e il giornalismo israeliani critici del sionismo.

Da parte nostra è stato aperto, con l’apporto fondamentale di Hawiyya, un sito per continuare a far luce su questa faccia pochissimo conosciuta, almeno qui in Europa, di Israele, e abbiamo ultimato la lista delle principali personalità che riteniamo avrebbero dovuto essere degne d’attenzione, al pari delle altre ufficialmente invitate, da parte della Fiera del Libro di Torino.

ECCO LA LISTA (e perdonateci per quanto puo’ essere lacunosa.)

Roy Arad
Poeta e musicista israeliano, nato nel 1977. Tra i fondatori del periodico letterario Maayan, ha pubblicato tre libri tra cui “The nigger”. Il suo stile poetico, chiamato “Kimo”, è stato definito “l’adattamento ebraico degli haiku giapponesi”. Autore di una canzone contro la guerra in Libano, Arad è un attivista per i diritti civili dei palestinesi.
Una sua poesia, scritta per l’esposizione dell’artista Michal Helfman alla Biennale di Venezia del 2003, è disponibile in inglese qui.

Gilad Atzmon
Nato a Gerusalemme nel 1963 da famiglia dalle “solide e orgogliose convinzioni sioniste”, Atzmon comincia un lungo e
complesso percorso di “allontanamento” dal sionismo grazie alla musica:
“Scoprire che Parker era nero è stata una rivelazione: nel mio mondo, le cose buone erano involontariamente associate solo ad ebrei. Bird è stato l’inizio del viaggio”.
Nel 1982 si trovò a combattere in Libano durante il servizio militare obbligatorio: l’esperienza maturò nel distacco dal suo paese, che lasciò definitivamente nel 1993, in una sorta di autoesilio. Oggi vive a Londra con la sua famiglia, e si autodefinisce “palestinese di lingua ebraica”.
Atzmon è un sassofonista e compositore jazz di fama internazionale: con il gruppo The Orient House Ensemble ha realizzato sei album, l’ultimo dei quali è uscito a fine 2007. Ma è conosciuto anche come scrittore e attivista politico, una delle voci più critiche nei confronti del governo israeliano e dell’ideologia sionista, al vertice delle “balck list” stilate dai gruppi ultraortodossi (e non solo). Il suo è un attacco frontale all’artificio identitario di cui il sionismo è stato vettore attraverso una rifondazione posticcia dell’ebraismo confessionale:

“Il Sionismo ha fondato una lingua (l’ebraico), ha fornito l’ebreo di una concreta dimensione geografica (Eretz Israel), ha trasmesso l’immagine di una cultura (il nuovo folklore ebraico) ed è riuscito persino a presentare una falsa immagine di una polarizzazione politica ed etica (sinistra e destra). Se i fondatori del Sionismo tentarono di salvare l’ebreo diasporico dalla sua condizione anomala, ebbene dobbiamo ammettere che allora il Sionismo è riuscito nei suoi intenti e ha adempiuto alla sua missione. Il successo del Sionismo non ha nulla a che vedere con l’ideologia, la politica o le sue pratiche devastanti. Ovviamente, non sono molti gli ebrei che comprendono che cosa rappresenti il Sionismo (ideologicamente, politicamente, eticamente e praticamente). Non sono molti gli ebrei diasporici che cedono apertamente alla scuola di pensiero sionista e alla sua prassi amorale. Al contrario, essi aderiscono al “folklore israeliano”, alla bizzarra parola ebraica, al falafel e all’humus che erroneamente identificano con Israele (piuttosto che con la Palestina). Cantano al ritmo di musica israeliana, che si tratti di Hava Nagila, Yafa Yarkoni o Yeuda Poliker. Per quelli che non comprendono, la “cultura israeliana” è un diretto prodotto del progetto sionista. Ovviamente, la cultura ebraica moderna è riuscita a depredare il mondo del simbolismo ebraico. Il Sionismo ha fondato una nuova forma di affiliazione tribale ebraica.” [da Lo Tzabar (Sabra) e il Sabbar (Fico d’india): riflessione su Memoria e Nostalgia, tradotto da Diego Traversa qui].
Atzmon è autore di due romanzi (mai tradotti in italiano) di “satira fantapolitica” dal discreto successo: A Guide to the Perplexed (Serpent’s Tail, 2002), tradotto in molte lingue, e My One and Only Love (Saqi Books, 2004). La versione ebraica di A Guide to the Perplexed fu vietata in Israele poche settimane dopo l’uscita (2001), anche se oggi ne è disponibile una nuova ristampa.
Un’intervista a Gilad Atzmon tradotta in italiano: http://www.kelebekler.com/occ/talens.htm
Il sito ufficiale: http://www.gilad.co.uk

Meron Benvenisti
Nato nel 1934 a Gerusalemme da padre sefardita e madre ashkenazita, è uno scienziato e uomo politico israeliano. Svolse mandati amministrativi a Gerusalemme fra il 1971 e il 1978, con particolare riferimento alla zona Est e alle sue vicinanze arabe. E’ un critico acuto della politica israeliana riguardo la Striscia di Gaza, e più in generale della linea Sharon. Sostiene l’idea di uno stato “binazionale”, scrive per Ha’aretz, The guardian e Le Monde Diplomatique e ha pubblicato diversi libri sul tema: West Bank Data Project: A Survey of Israel’s Policies (1984), Intimate Enemies: Jews and Arabs in a Shared Land(1995), City of Stone: The Hidden History of Jerusalem (1996). L’ultimo è Sacred Landscape: Buried History of the Holy Land Since 1948 (University of california press, 2002) più la recentissima autobiografia Son of the Cypresses: Memories, Reflections, and Regrets from a Political Life (2007).
Con Benny Rubenstein ha pubblicato The West Bank Handbook: a Political Lexicon (1986).
Da un articolo del Manifesto di M. Giorgio (24/11/2006):
“Meron Benvenisti […] punta l’indice contro il pacifismo di maniera. Benvenisti, in un commento su Haaretz, ha accusato Grossman di aver parlato a nome di quella parte della popolazione ashkenazita, laica, nazionalista e vagamente socialista – che continua a pensare che il modello israeliano era perfetto ma si è rovinato dopo l’occupazione di Cisgiordania e Gaza nel 1967. L’intellettuale ha sottolineato che Grossman non ha condannato la decisione del governo Olmert di scatenare una guerra contro il Libano (nella quale peraltro lo scrittore ha perduto un figlio, Uri) ma la sua gestione. «In ciò la sinistra si è unita a coloro che lamentano la perdita della capacità di deterrenza, in modo da preparare Israele per nuovo round di battaglie», ha scritto Benvenisti. «Dove era (nel discorso di Grossman) l’appello alla lotta contro l’ingiustizia provocata dal muro, dall’assedio attuato con posti di blocco in Cisgiordania e contro Gaza, dove era l’appello contro l’uccisione di donne e bambini, la distruzione delle istituzioni dell’Anp, la deportazione di famiglie palestinesi perché prive di documenti?», ha concluso.”

Avraham Burg

Nato presso Gerusalemme nel 1955, sua madre fu tra i sopravvissuti del massacro di Hebron del 1929. Ha ricoperto la carica di Speaker alla Knesset (equivalente pressappoco al nostro Presidente della Camera) dal 1999 al 2003, ed è stato presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele; oggi è parlamentare laburista. Nel 2007 ha scritto Lenazeach et Hitler (Vincere Hitler), testo con cui si “congeda” dal sionismo, sottolineando la contraddizione nel definire uno Stato contemporaneamente “ebraico” e “democratico”, cosa che lo porta a individuare nel paese “la versione contemporanea della Germania degli anni ’30”. Online è disponibile un suo articolo in italiano La morte del sionismo. Dati e commenti in italiano, qui: http://www.metaforum.it/forum/showthread.php?t=1172 .

Uri Davis
Nato a Gerusalemme nel 1943, è un intellettuale e attivista israeliano. I suoi interessi principali sono l’apartheid e la democrazia nel Medio Oriente e in Israele; si è distinto per la lotta a favore dei diritti umani in Palestina. E’ stato vicepreseidente della Israeli League for Human and Civil Rights e ha pubblicato numerose opere di geopolitica, fra cui Israel: An Apartheid State (1987), Citizenship and the State in Middle East (2000) e Apartheid Israel: Possibilities for the Struggle Within (2003). Membro del Palestine National Council, si descrive come “Ebreo palestinese antisionista”. È disponibile online il suo Apartheid in Israele and the jewish national fund of Canada.

Lev Luis Grinberg
Nato a Buenos Aires nel 1953. Sociologo ed economista, è direttore dell’Humphrey Institute per la Ricerca Sociale alla Ben Gurion University. Nel 2004 ha esortato la comunità europea ad intervenire direttamente per fermare il “genocidio simbolico” dei palestinesi e “salvare” Israele da se stesso:
“Incapable of getting beyond the trauma of the Shoah and the insecurity that it caused, the Jewish people, supreme victim of genocide, is currently inflicting a symbolic genocide on the Palestinian people. Because the world will not permit a total elimination, it is a partial annihilation that is going on. As a child of the Jewish people, and as an Israeli citizen, I condemn this abominable act and appeal to the international community to save Israel from itself; specifically, I exhort the European community to intervene in a direct and forceful manner to stop this blood bath. The complex ties between the Jewish people and Europe have not yet been severed, and it is time to act; not because Europe should exorcize its guilt, but indeed because it is also responsible for the future of the world”.
Autore dello studio sulle politiche del lavoro e del mercato in Israele Split Corporatism in Israel (SUNY Series in Israeli Studies, 1991). In Italia è stato pubblicato un suo articolo nel volume Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto (Bollati Boringhieri, 2004).

Jeff Halper
Jeff Halper, ebreo nato negli Stati Uniti, è stato attivista per i diritti umani sin dagli anni ’60-’70 (contro la guerra del Vietnam) ; si è trasferito in Israele nel 1973, dove oggi vive con la famiglia. Urbanista, antropologo, già docente alla
Ben Gurion University, nel 1997 è il co-fondatore (oggi coordinatore) dell’Icahd, il Comitato israeliano contro la demolizione delle case dei palestinesi. Per questo suo immenso lavoro di raccolta fondi e ricostruzione l’ AFSC lo ha nominato per il Nobel per la Pace nel 2006.
Per saperne di più sull’ ICAHD: http://www.icahd.org/eng/
Nel suo libro più conosciuto, Obstacles to Peace: A Reframing of the Palestinian-Israeli Conflict (Paperback, April, 2005), Halper fornisce un’analisi sul campo di come l’avanzata degli insediamenti israeliani, abitazioni e vie di comunicazione, stia soffocando la vita, le aspirazioni del popolo palestinese, riducendo al minimo la prospettiva di sicurezza nell’area. E al tempo stesso è il superamento della teoria enunciata nel 2003 all’Onu di un solo stato ebraico e palestinese. Di imminente pubblicazione An Israeli in Palestine: Resisting Dispossession, Redeeming Israel (PlutoPress, 2008)

Yitzhak Laor
Yitzhak Laor è nato nel 1948 a Padres Hannah, in Palestina, un anno prima che diventasse territorio israeliano. Si è laureato all’Università di Tel Aviv in Letteratura e Teatro. Lavora e scrive a Tel Aviv, come poeta, drammaturgo, romanziere. È critico letterario del quotidiano Haaretz. Ha pubblicato più di dieci volumi di poesia, commedie e novelle; il suo lavoro è tradotto in più di nove lingue, tra cui l’arabo. Nel 1972 ha scontato sei mesi di detenzione, per diserzione dalle armi (refusing), durante le azioni di occupazione militare. Negli anni ’80 ha scritto una poesia che condanna la guerra israeliana in Libano.
Nel 1985 la censura israeliana ha impedito la diffusione del suo lavoro Ephraim Goes Back to the Army. Laor ha portato il caso alla Corte Suprema dello Stato d’Israele, che disporrà all’istituto Film and Play Censorship Board la cancellazione del provvedimento. Nel 1990 il primo ministro Yitzhar Shamir ha rifiutato di firmare il Prime Minister’s Prize of Poetry, che sarebbe stato vinto da Laor.
Tra i suoi scritti, Reflection on the Study of History è un saggio satirico sul perché i generali responsabili della prima guerra in Libano non dovrebbero più partecipare ad altre azioni militari; il testo è stato scritto nel 2006, quattro mesi prima dell’ultima, devastante guerra di Israele in Libano.

Smadar Lavie
Smadar Lavie si definisce un’ebrea araba residente in Israele. Vive a Tel Aviv dove studia e denuncia gli elementi di discriminazione all’interno dell’ideologia sionista. Nel 1990 scrive un classico dell’antropologia, The Poetics of Military Occupation (University of California Press, 1990) e nel 1996 pubblica, insieme a Ted Swedenburg, Displacement, Diaspora and Geographies of Identity (Duke University Press). Dal 1994 al 1996 tiene la cattedra di Antropologia e Teoria critica all’Università di Denver che abbandona, poi, per questioni personali.
Tornata in Israele è bandita dal sistema universitario che reputa “incompatibili” con le proprie linee interne i suoi studi sul sionismo come sistema discriminatorio basato sull’intreccio di classe, razza e genere. E’ membro della direzione nazionale del gruppo Ahoti, movimento femminista formato da donne ebree arabe di colore (mizrahim) che si battono per il riconoscimento pubblico delle colpe dello stato di Israele contro le comunità immigrate dai paesi arabi, per la parità di diritti tra tutti i cittadini dello Stato, contro ogni discriminazione in base al genere, alla provenienza e al colore della pelle.

Yael Lerer
Yael Lerer nasce a Tel Aviv. Si è specializzata in Storia e Cultura israeliana presso l’Università di Tel Aviv e ha studiato Lingua Araba e Letteratura moderna all’Università Americana del Cairo. E’ stata, inoltre, portavoce ufficiale del filosofo palestinese Azmi Bishara, membro del Parlamento israeliano (Knesset).
Nel 2001 fonda la casa editrice Al-Andalus che si occupa di tradurre in ebraico testi di letteratura araba come quelli della scrittrice libanese Hoda Barakat o del marocchino Mohammed Choukri.
Nel 2006 l’esperieza di Al-Andalus si conclude con due soli successi di pubblico: tremila copie vendute di Bab el Shams, la Porta del Sole di Elias Khouri, e poco più di mille copie per il libro di versi del poeta palestinese Mahmoud al Darwish.
“Da noi vige un apartheid culturale. Un muro delle menti molto più alto di quello di cemento armato che ormai corre nella Cisgiordania e attorno a Gerusalemme”. Y.L.

Gideon Levy
Giornalista israeliano per il quotidiano Ha’aretz, di cui è membro del comitato di redazione. Nato nel 1955 a Tel Aviv, ha dichiarato che da adolescente era membro a pieno titolo dell’orgia religiosa nazionalista del suo paese. E’ stato portavoce di Shimon Peres per quattro anni, dal 1978 al 1982, dopo i quali ha iniziato a lavorare per Ha’aretz, sulle cui colonne, dal 1986, descrive in modo approfondito che cosa significhi per i palestinesi vivere sotto l’occupazione militare israeliana. Il quotidiano francese Le Monde lo ha definito “una spina nel fianco di Israele”.
Levy considera il suo lavoro di informazione come un modesto contributo affinché il popolo israeliano non si trovi nella condizione di dire: “Non sapevamo”. Un tema ricorrente nei suoi articoli è la descrizione della “cecità morale” della società israeliana di fronte alle conseguenze degli atti di guerra e di occupazione militare verso i palestinesi. Levy ha criticato il suo governo per il rifiuto di fermare la costruzione di insediamenti israeliani in terra palestinese, e ha giudicato la sua politica “l’impresa più criminale” nella storia di Israele. Nei suoi articoli, Levy sostiene che nella società e nella stampa israeliane si rifletta un atteggiamento di sistematica disumanizzazione dei popoli vicini a Israele. Come soluzione per la questione israelo-palestinese, Levy ha proposto il ritiro unilaterale dell’esercito israeliano dai territori occupati, senza alcuna richiesta di concessioni:
“Israel is not being asked “to give” anything to the Palestinians; it is only being asked to return – to return their stolen land and restore their trampled self-respect, along with their fundamental human rights and humanity. This is the primary core issue, the only one worthy of the title, and no one talks about it anymore. No one is talking about morality anymore. Justice is also an archaic concept, a taboo that has deliberately been erased from all negotiations. Two and a half million people – farmers, merchants, lawyers, drivers, daydreaming teenage girls, love-smitten men, old people, women, children and combatants using violent means for a just cause – have all been living under a brutal boot for 40 years. Meanwhile, in our cafes and living rooms the conversation is over giving or not giving. . . . Just as a thief cannot present demands – neither preconditions nor any other terms – to the owner of the property he has robbed, Israel cannot present demands to the other side as long as the situation remains as it is. ” (Gideon Levy, ‘Demands of a thief,’ Ha’aretz, 25/11/2007)

Moshe Machover
Nato a Tel Aviv nel 1935, fu uno dei fondatori del Matzpen, la storica “Organizzazione Socialista Israeliana” famosa per il suo antisionismo dichiarato, nel 1962. Attualmente insegna filosofia (e logica matematica) al King’s College di Londra. Con una formazione “matematica”, Machover si occupa di “econofisica”, branca sperimentale della ricerca economica che applica modelli statistici e dinamica non lineare alle scienze politiche, sociali ed economiche. Le sue pubblicazioni in merito sono molto numerose. La sua posizione in merito alla questione israelopalestinese è definita molto bene in questo articolo del 2002. Machover è contro l’ipocrisia della soluzione “a due stati” ritenendo indispensabile la creazione di un solo stato democratico.
Oltre alla sua vasta produzione scientifica, Machover ha scritto alcuni volumi insieme ad Akiva Orr ed un gran numero di articoli sulla politica israeliana e il sionismo. Online è disponibile Israelis and Palestinians: Conflict and Resolution del 2006.
E’ attivista del movimento HOPI, “Hands off the people of Iran!” (http://www.hopoi.org/index.html).

Susan Nathan
Scrittrice israeliana nata in Inghilterra (1949) da padre sudafricano.
Ha dapprima lavorato come counselor dei malati di AIDS, poi, da convinta sionista, nel 1999 decide di andare a vivere in Israele, condividendo così la legge israeliana del diritto al ritorno, l’Aliyah. Nel 2003 si sposta da Tel Aviv a Tamra, città israeliana abitata da soli arabi, per vedere “l’altra faccia di Israele”. Da lì prende forma la sua presa di posizione fortemente critica verso le pratiche discriminatorie della società israeliana nel libro: The Other Side of Israel: My Journey Across the Jewish/Arab Divide (2005), pubblicato in Italia con il titolo Shalom fratello arabo dalla Sperling & Kupfer (2005 e, in versione economica, nel 2007).
In questo testo, Nathan ci fornisce una testimonianza importante su come gli spazi vitali in Israele, già ristretti, siano distribuiti in modo di penalizzare la popolazione araba, a cui spesso sono negati servizi e possibilità. Ma la scrittrice non ha mai smesso di pensare che ebrei e arabi sono figli della stessa terra, e che l’unica strada verso l’armonia sia “riconoscere se stesso nell’altro”. Secondo Rabbi Eliyahu di Gerusalemme, “lei sta mettendo in atto la forma più estrema di giudaismo … il suo comportamento racchiude l’intima essenza della nostra fede”.
Ecco uno stralcio del libro Shalom fratello arabo, in cui la voce narrante è quella di un soldato israeliano: “…Quel mattino a Hebron è arrivato un gruppo piuttosto numeroso, composto da una quindicina di ebrei provenienti dalla Francia, tutti osservanti. Erano di buonumore, si stavano divertendo e ho trascorso il mio intero turno di servizio a seguirne gli spostamenti e a cercare di evitare che distruggessero la città. Se ne andavano in giro raccogliendo pietre e lanciandole contro le finestre delle abitazioni arabe; oppure rovesciavano qualunque cosa capitasse loro sulla strada. Non è successo nulla di orrendo: non hanno dato la caccia a qualche arabo uccidendo o altre cose del genere, ma a disturbarmi era l’idea che qualcuno aveva parlato loro dell’esistenza di un luogo in cui un ebreo può sfogare la sua rabbia contro il popolo arabo e lasciarsi andare ad ogni intemperanza, recarsi in una città palestinese e fare qualsiasi cosa gli passi per la testa, tanto ci saranno i soldati israeliani ad appoggiarli. Perché quello era il mio lavoro, proteggerli e fare in modo che non succedesse loro niente”.

Adi Ophir
Nato nel 1951, Ophir insegna filosofia alla Tel Aviv University.
La sua opera principale è The Order of Evils – Toward an ontology of morals (MIT Press/Zone books, 2005). Ophir ha messo al centro della sua “ontologia della morale” la riflessione sul male, che ha natura sociale e politica. Gli estremi storici da cui si muove il discorso di Ophir sono la Shoah da un lato e l’occupazione della Palestina dall’altro.
Una sua citazione in merito all'”anomalia democratica” di Israele:
“…Questo corrisponde al ruolo ideologico del discorso filosemita: la costruzione di un muro linguistico intorno ad Israele, la sola democrazia – non del Medio Oriente, ma del mondo intero – in cui più di un terzo di quelli che dipendono dal suo governo non ne sono cittadini….” (da “Le nouveau philosémitisme” in De l’autre côté, La fabrique, 2006)

Akiva Orr
Nato a Berlino nel 1931. Scampato alla Shoah, ha combattuto giovanissimo per la costituzione dello stato d’Israele nel ’48. Vive a Tel Aviv dove conserva un vasto archivio di memorie. Marxista nel movimento Matzpen, ha maturato una profonda riflessione sulla democrazia, quella diretta in particolare, poi confluita nel saggio La politica senza i politici (fruibile integralmente in italiano qui: http://www.abolish-power.org/pwp_italy.html).
Autore insieme a Moshe Machover di Peace, Peace and No Peace (1962). Autore di The unJewish State: The Politics of Jewish Identity in Israel (1983) e dello studio Israel: Politics, Myths and Identity Crisis (Pluto Press, 1994). E’ scaricabile online il suo ultimo Revolution, The D.I.Y. Version (2007).

Ilan Pappe
Nato a Haifa nel 1954, figlio di ebrei tedeschi, ha studiato storia all´Università ebraica di Gerusalemme e quindi a Oxford, dove si è laureato con una tesi sulla guerra di “indipendenza” del 1948. Su questo tema ha pubblicato vari studi, sostenendo, contrariamente alla versione canonica del sionismo, che quella guerra fu un’autentica operazione di pulizia etnica, con l´espulsione della stragrande maggioranza della popolazione palestinese dai villaggi distrutti, per guadagnare territori allo Stato d´Israele. In base a quelle ricerche, Ilan Pappe è giunto alla convinzione, duramente osteggiata nel suo Paese, che Israele debba ammettere la responsabilità di quella spoliazione, riconoscendo il “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi come presupposto alla pace.
Docente di storia mediorientale all´università di Haifa, è stato protagonista di uno scandalo per aver aderito al boicottaggio del mondo accademico britannico contro le università di Haifa e di Bar-Ilan, a causa delle vessazioni e discriminazioni dei due atenei ai danni di Teddy Katz, autore di una tesi sul massacro nel 1948 degli abitanti di Tantura (ndr. un villaggio palestinese vicino Haifa). Tanto è bastato ad alimentare forti pressioni in Israele per l´espulsione dello stesso Pappe dall´università. Ma a Pappe è giunto il sostegno degli ambienti accademici europei e statunitensi, dove il suo prestigio ha basi solide (a chi desideri conoscere il suo rigore intellettuale raccomando il suo libro A History of Modern Palestine. One Land, Two Peoples, Cambridge University Press 2004, tradotto in italiano come Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Einaudi 2005). Pappe, attivista del Partito comunista, nel suo libro affianca le narrazioni degli sfruttatori (israeliani) e degli sfruttati (palestinesi) con il suo metodo rigoroso (basato su documenti originali in ebraico e arabo), non mancando di sottolineare che oppressi e oppressori non possono mai essere messi sullo stesso piano. Il suo ultimo libro, che verrà tradotto in italiano quest’anno, è The ethnic cleansing of palestine, uscito nel 2007.
Una intervista in italiano.
Il sito ufficiale: http://www.ilanpappe.org

Nurit Peled-Elhanan
Nata nel 1949 in Israele, scrittrice, attivista per la pace e professoressa di “Linguaggio ed educazione” alla Hebrew University, è diventata una pensatrice critica verso Israele e l’occupazione della West Bank dopo la morte della figlia Smadari, nel 1997, vittima di un attentato suicida palestinese. Secondo Peled-Elhanan sua figlia è stata uccisa a causa dell’oppressione e dell’umiliazione che ogni giorno devono subire milioni di palestinesi sotto occupazione, tanto da reagire con gesti disumani quali gli attentati suicidi, che dal punto di vista morale possono essere paragonati al comportamento di un soldato israeliano dislocato nella West Bank che costringa una donna palestinese a partorire e a perdere il bambino in un check point.
Come docente di Linguaggio ed educazione, Peled-Elhanan ha pubblicato vari studi su come alcuni libri scolastici israeliani dipingano in modo stereotipato e negativo gli arabi o descrivano le colonie in Giudea e Samaria come parti integranti dello stato di Israele.
Nurit Peled-Elhanan ha vinto nel 2001 il premio Sakharov per i diritti umani e la libertà di parola assegnato dal Parlamento europeo.

Danny Rubenstein
Nato nel 1937 a Gerusalemme, è editorialista e membro del direttivo del quotidiano Ha’aretz. Insegna presso il dipartimento di storia mediorientale dell’Università Ben Gurion. Si è dedicato allo studio del mondo arabo-palestinese fin dalla guerra del 1967 e di Arafat quasi ogni giorno negli ultimi trent’anni della sua vita incontrandolo e intervistandolo varie volte, da cui il libro, tradotto in italiano, Il Mistero Arafat (UTET, 2003).
Il 30 agosto 2007 Rubenstein dichiarò, nel corso di una conferenza sponsorizzata dalle Nazioni Unite, che Israele è uno “Stato d’apartheid”.

Shlomo Sand
Il Prof. Sand insegna all’ Università di Tel Aviv. Il suo libro, Quando e come fu inventato il popolo ebraico? (pubblicato in ebraico da Resling), vuole sostenere l’idea per cui Israele dovrebbe essere “uno stato con tutti i suoi cittadini – ebrei, arabi e altri – al contrario della sua dichiarata identità di stato ‘Ebraico e democratico’.”
Con le parole di Tom Segev (Un’invenzione chiamata ‘popolo ebraico’, http://www.infopal.it/testidet2.php?id=7793 ): secondo lo storico Shlomo Sand “non c’è mai stato un popolo ebraico, ma una religione ebraica, e anche l’esilio non è mai avvenuto – pertanto non ci fu ritorno. Sand rifiuta la maggior parte delle storie sulla formazione di un’identità nazionale della Bibbia, compreso l’esodo dall’Egitto, ancor di più, gli orrori della conquista di Giosuè.
Secondo Sand, i Romani non esiliarono l’intero popolo, e alla maggior parte degli Ebrei fu permesso di rimanere nel territorio. Coloro che furono esiliati erano al massimo decine di migliaia. Quando la regione fu conquistata dagli Arabi, molti ebrei si convertirono all’Islam e si mescolarono con gli invasori. Ne consegue che gli antenati degli arabi palestinesi siano ebrei. Sand non si è inventato questa teoria; trent’anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, fu esposta da David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Zvi e altri.
Se la maggior parte degli ebrei non sono stati esiliati, come mai se ne trovano molti quasi in ogni parte del mondo? Sand sostiene che siano emigrati di loro spontanea volontà oppure, se erano tra coloro che furono esiliati a Babilonia, scelsero di rimanerci. Al contrario di quel che comunemente si crede, l’ebraismo ha cercato convertire seguaci di altre fedi, il che spiega come mai ci siano milioni di ebrei nel mondo.
Come è riportato nel Libro di Esther: “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei perchè il timore dei Giudei era piombato su di loro”.
Sand cita molti studi attuali, alcuni dei quali condotti in Israele ma messi da parte nelle discussioni importanti. Parla molto anche del regno ebraico di Himyr a sud della penisola arabica e degli Ebrei berberi in Nord Africa. La comunità ebraica in Spagna discendeva dagli Arabi, i quali divennero Ebrei e giunsero con gli eserciti che sottrassero la Spagna ai Cristiani e ad altre genti di origine europea che si erano convertite a loro volta all’ebraismo.
Il primo ebreo di Ashkenaz (Germania) non proveniva dalla Terra di Israele e non raggiunse l’Europa dell’Est dalla Germania, bensì divenne ebreo nel Regno di Khazar nel Caucaso. Sand spiega le origini della cultura Yiddish: non fu importata dagli ebrei in Germania, ma fu il risultato delle relazioni tra i discendenti dei kuzari e dei tedeschi che viaggiarono verso l’est, alcuni dei quali come mercanti.
Ha notato poi che un gran numero di persone di nazionalità e razze diverse si è convertito all’ebraismo. Secondo Sand, il bisogno sionista di pensare per queste persone un’etnicità condivisa e una continuità storica ha prodotto una lunga serie di artifici e invenzioni, accanto all’invocazione di teorie razziste. Alcune furono architettate da coloro che avevano ideato il movimento Sionista, altre furono presentate come i risultati di studi genetici condotti in Israele.”
Su Haaretz del 10 ottobre 2000, nell’articolo “To Whom Does the State Belong?”, Shlomo Sand ha scritto: “The very definition of the state as a Jewish state is inherently an anti-egalitarian, alienating factor. It is doubtful that it can sustain a properly functional liberal democracy. Certainly, in the historical conditions prevailing in 1948, three years after the Holocaust, it is understandable why the Declaration of Independence was formulated as the declaration of the Jewish people. However, we must recognize that 52 years later the rigidly Jewish identity of the state has become an anachronistic, permanent and dangerous anomaly. According to this definition, the state belongs to an anti-Zionist rabbi in New York much more than to an Arab member of the Knesset, and even more than to the Druze soldier who died … [in the battle at] Joseph’s Tomb.”

Tom Segev

Nato a Gerusalemme nel 1945. Storico e giornalista israeliano. I genitori lasciarono la Germania nazista nel 1935 e si stabilirono in Palestina, dove il padre fu ucciso nel 1948 durante la guerra tra Israele e i paesi arabi. Segev si è laureato in storia all’Università ebraica di Gerusalemme e ha preso il dottorato all’Università di Boston; fa parte del gruppo di storici di sinistra chiamato “Nuovi storici” (New Historians), che ha prodotto tante pubblicazioni controverse su Israele e il sionismo. Ha scritto vari libri, tra cui il molto discusso The Seventh Million: The Israelis and the Holocaust, (Holt Paperbacks, 2000), l’unico pubblicato in Italia (Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori, 2001), in cui esprime giudizi molto critici verso il comportamento degli ebrei di Palestina durante la seconda guerra mondiale. Il suo ultimo libro è 1967: Israel, the War and the Year That Transformed the Middle East (Metropolitan Books, 2006). Come giornalista, Segev scrive per il quotidiano di sinistra Ha’aretz, dalle cui colonne, durante l’ultima guerra tra Israele e Libano ha così giudicato l’appello che Grossman, Oz e Yehoshua lanciarono per chiedere un cessate il fuoco bilaterale, pur ribadendo la legittimità della guerra da parte di Israele: “I tre scrittori hanno preparato il loro appello come se stessero lavorando nell’ufficio legale del Ministero degli Esteri” (“The three writers worded their ad as though they were working in the legal department of the Foreign Ministry”, Ha’aretz, 2006/08/11, “Someone to fight with” by Tom Segev).

Aharon Shabtai
Nato nel 1939 è uno dei maggiori poeti israeliani contemporanei. Ha studiato Greco e Filosofia alla Hebrew University, alla Sorbona e a Cambridge. Insegna letteratura ebraica all’Università di Tel Aviv. Shabtai, il più accreditato traduttore di drammi greci in ebraico, ha ricevuto nel 1993 il premio del Primo Ministro per la Traduzione. Dal suo primo volume di versi apparso nel 1966, Shabtaï ha pubblicato più di sedici libri di poesia. Influenzato da fonti diverse, come William Carlos Williams e la mitologia greca, è un poeta che ha spesso mescolato reale e irreale. Egli prende ispirazione dalla filosofia, dagli eroi e dall’immaginario erotico greco per esprimere uno dei suoi temi ricorrenti: l’esaltazione e la totalità sono raggiunti attraverso la morte e la profanazione. Traduzioni dei suoi lavori in inglese sono apparsi in numerose riviste, incluse la “American Poetry Review”, la “London Review of Books”, e “Parnassus in Review”; un’ampia selezione delle sue poesie, Love and Other Poems, è stata pubblicata in lingua inglese nel 1997 da Sheep Meadow Press. Nel 2003, per le edizioni New Directions, è uscita la traduzione inglese del volume intitolato J’Accuse, vincitore del premio del PEN American Center. Molte delle poesie contenute in J’Accuse sono state pubblicate precedentemente nel supplemento letterario settimanale del quotidiano israeliano Ha’aretz e hanno provocato lettere di sdegno all’editore e minacce di cancellazione degli abbonamenti. Richiamandosi alla famosa lettera in cui Emile Zola denunciava l’antisemitismo del governo francese durante l’affare Dreyfus, in J’Accuse Shabtai accusa il suo Paese di crimini contro l’umanità, rifiutando di abbandonare la sua fede nei valori morali della società Israeliana e di tacere di fronte agli atti di barbarie. Pur essendo uno dei quaranta scrittori israeliani invitati alla Fiera del libro di Parigi nel 2008, Shabtaï si è rifiutato di essere presente. In un’intervista concessa a Silvia Cattori e pubblicata sul sito francese Free Palestine, Shabtaï afferma: “Questo salone del libro, così come ogni altro tipo di manifestazioni dove lo Stato d’Israele è invitato, non è un mezzo per promuovere la pace in Medio Oriente, né un mezzo per portare la giustizia ai Palestinesi. Si tratta solamente di propaganda, che mira a dare di Israele un’immagine di paese liberale e democratico”. Non è la prima volta che il poeta boicotta una manifestazione culturale israeliana per ragioni politiche. Atteggiamento simile ebbe anche nel 2006, quando rifiutò di partecipare al Poetry International Festival, che si tenne a Gerusalemme. In quell’occasione scrisse pubblicamente: “Io mi oppongo a un festival internazionale di poesia in una città dove gli abitanti arabi sono sistematicamente e brutalmente oppressi”.

Avi Shlaim
Nato a Baghdad nel 1945, ha cittadinanza israeliana e britannica.
Storico appartenente al gruppo dei cosiddetti “Nuovi Storici” (di cui facevano parte Pappé e Morris), scrive regolarmente su The Guardian. Sostiene che attualmente il sionismo sia il vero e unico “nemico” degli ebrei.
Il suo ultimo libro è Lion of Jordan: The Life of King Hussein in War and Peace (2007). In italiano è disponibile Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo (Casa Editrice Il Ponte, 2003), che descrive come l’opzione “muro di ferro” (“secondo la quale ogni negoziato con gli arabi avrebbe dovuto essere condotto da una posizione di forza militare”) sia il filo conduttore di tutte le “trattative” israeliane. A cura di Shlaim il volume La guerra per la Palestina. Riscrivere la storia del 1948 (Casa Editrice Il Ponte, 2004).

Ella Habiba Shohat

Nata in Israele da famiglia di ebrei iracheni. Professoressa alla New York University e autrice del saggio The Mizrahim in Israel. Zionism from the perspective of its Jewish victims ripubblicato in Dangerous Liaisons: Gender, Nation, and Postcolonial Perspectives (University of Minnesota Press, 1997). I suoi studi si concentrano sulla ricostruzione/ridefinizione dell’identità degli ebrei di cultura “araba” (i Mizrahim) nella vulgata eurocentrica apportata dal sionismo all’intero ebraismo. Tra gli articoli scientifici da segnalare: “The Invention of the Mizrahim” del 1999.

Michel Warschawski

Ebreo di origine francese nato nel 1949, Michel (alias Mikado) Warschawski ha ricevuto un’educazione ebrea ortodossa dal padre rabbino. Cresciuto a Strasburgo, nel 1965 va a Gerusalemme, dove studia in un seminario talmudico; nel 1967 è al lavoro al kibboutz Sha Alvin e quando scoppia la “Guerra dei sei giorni”, assiste all’esodo palestinese. Dopo la guerra aderisce a un gruppo di estrema sinistra, “Matzpen”, prima organizzazione israeliana a opporsi apertamente all’occupazione. Completati gli studi di filosofia e scienze politiche, organizza incontri tra universitari israeliani e palestinesi, dal Comité de Solidarité de l’Université Bir Zeit di Ramallah, al Comité anti-guerre du Liban. Diviene poi un attivista di primo piano dell’AIC, Alternative Information Center (www.alternativenews.org), un’organizzazione israelo-palestinese contraria all’occupazione israeliana, che diffonde informazione, ricerca e analisi politica sulle società palestinese e israeliana e sul conflitto israelo-palestinese. L’AIC, inoltre, promuove una cooperazione tra palestinesi e israeliani sulla base della giustizia sociale e della solidarietà, e fornisce sostegno diretto alla popolazione palestinese e ai Refuseniks israeliani. Nel 1988, dopo aver organizzato manifestazioni pubbliche israelo-palestinesi in memoria dei massacri nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, Warschawski viene arrestato dal Shin Beth e, dopo un processo di quattro anni, condannato a 30 mesi di carcere.
Tra i suoi libri tradotti in italiano, ricordiamo: Sionismo e questione ebraica. Storia e attualità (con Moscato Antonio, Taut Jakob), Ed. Sapere 2000 Ediz. Multimediali, 1983; Israele Palestina. La sfida binazionale. Un «sogno andaluso» del XXI secolo, Ed. Sapere 2000 Ediz. Multimediali, 2002; Sulla frontiera, Ed. Città aperta, 2003; A precipizio. Crisi della società israeliana, Boringhieri, 2004.
Da “Israele-Palestina. La sfida binazionale”:
“Il Terzo Millennio vedrà la nascita di uno stato palestinese. La cosiddetta Seconda Intifada non è altro che la guerra d’indipendenza palestinese, così come la violenza commessa dall’esercito israeliano e dai coloni non è che l’espressione sanguinaria dell’odio coloniale e vendicativo di fronte ad una rivoluzione di cui ben conosciamo gli inevitabili risultati. E non è la prima volta in mezzo secolo che una forza occupante si rivela sconfitta”.

Shmuel Yerushalmi
Nato a Bila Tserkva in Ucraina nel 1972, vive in Israele dal 1988. Yerushalmi è coinvolto nel “foro Civile” di Hadash, mirante a sollecitare la nascita di un’identità civile non-sionistica israeliana (da Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Hadash). Scrive e pubblica poesie in ebraico, gestisce un sito personale: http://www.kvistrel.page.tl/.

Oren Yiftachel
Dal 1994 è professore di geografia e politica pubblica alla Ben Gurion University del Negev a Beer-Sheva, in Israele. Autore di svariate pubblicazioni scientifiche, tra le quali Planning a Mixed Region in Israel: The Political Geography of Arab-Jewish Relations in the Galilee (Avebury, Gower Publishing Limited, Aldershot, Hampshire, UK, 1992) e Ethnocracy: Land, and the Politics of Identity Israel/Palestine (PennPress – the University of Pennsylvania, 2005). Un suo saggio, “‘Etnocrazia’: la politica della giudaizzazione di Israele/Palestina”, fa parte del volume collettaneo PARLARE CON IL NEMICO. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto, curato da Jamil Hilal e Ilan Pappe (Bollati Boringhieri, Torino 2004, pagg. 96-131). Ha insegnato presso la Pennsylvania University e la Columbia University, negli Stati Uniti. Dal 1999 al 2003 e’ stato preside del Dipartimento di geografia della Ben Gurion University. Ha fondato e dirige la rivista “Hagar/Hajer: International Social Science Review”. In Etnocrazia, l’autore propone lo studio comparato dei regimi etnocratici, ossia quei regimi che fanno prevalere l’appartenenza etnica sulla cittadinanza, e che subordinano a tale appartenenza la distribuzione di risorse e potere. I regimi etnocratici risultano dalla combinazione di tre elementi: il colonialismo, l’etnonazionalismo e la logica etnica del capitale. Regimi di questo tipo si trovano in Estonia, in Sri Lanka, e in Malesia. Anche il caso di Israele illustra questo processo di fabbricazione di uno stato etnocratico, attraverso il lungo processo di giudeizzazione del territorio.
Alcune pubblicazioni online qui: http://www.geog.bgu.ac.il/members/yiftachel/papers.html

Benny Ziffer
Nato a Tel Aviv nel 1953 da famiglia di origini turche. Ha studiato letteratura francese e scienze politiche, è l’attuale responsabile della rubrica letteraria del quotidiano Ha’aretz. Ha scritto un volume di poesie, Tsipor Mekanenet Ba-bait (“A bird nests at home”, Martef 1978), e tre romanzi: Marsh Turki (Am Oved 1995), Tziffer U-Bnei Mino (“Ziffer and his Kind”, Am Oved 1999) e The Literary Editor’s Progress (2005). Nei suoi romanzi affronta il tema dell’omosessualità nella società israeliana. Tra i principali attivisti contro la costruzione del muro nel villaggio palestinese di Bil’in, è autore di numerosi articoli estremamente critici nei confronti della politica e della società israeliana.

Moshe Zuckermann

Nato a Tel Aviv nel 1949, insegna sociologia e storia all’Università della stessa città. Dal 2000 al 2005 ha diretto il dipartimento di Storia Tedesca. Zuckermann studia da anni le forme e le modalità di costruzione dei miti identitari, nello specifico del caso israeliano, per comprendere come si sia potuta creare una “etnocrazia colonizzatrice e segregazionista”. Uno dei suoi ultimi lavori, Zweierlei Holocaust (“Il doppio Olocausto”, Göttingen 1998) affronta di petto il tema della Shoah nella sua doppia qualità di memoria mitica e sapere storico, incrocio che lo pone al di là dell’analisi “razionale” e che spinge all’indifferenza verso altri tipi di sofferenza (quella palestinese).
La maggior parte dei suoi testi principali sono pubblicati in tedesco, come Gedenken und Kulturindustrie. Ein Essay zur neuen deutschen Normalität (Berlin u. Bodenheim b. Mainz 1999). In italiano è pubblicato l’articolo “Aspetti dell’Olocausto nella cultura politica israeliana” nel volume collettivo Parlare con il nemico (Bollati Boringhieri 2004).

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47 Commenti

  1. […] Mi sembra giusto sottolineare che solo pochi autori tra quelli critici del sionismo sono stati invitati nello stand di Israele: Pappe, Michael e Shabtai a Parigi, Pappe e Michael (non sappiamo se altri a Torino, ma è difficile). Certo è che poi questi autori hanno scelto il boicottaggio. Ma la situazione è ancora più complessa… […] quattro dei nostri autori sono stati invitati a uno stand delle edizioni lafabrique per un dibattito su Israele e Palestina. Pappe ha detto no, gli altri non lo so. Come ricordava Ziffer:

    “Un autore potrebbe rifiutare di partecipare al padiglione ufficiale dello Stato d’Israele, però venire al Salon du Livre come invitato da uno dei numerosi altri stand o da un editore? Lei non potrebbe venire per esempio sullo stand del Centre national du livre, o delle edizioni Gallimard?»
    Benny Ziffer: «Sì, certamente. È quello che hanno fatto taluni autori, per lo scrittore palestinese di lingua ebraica Sayed Kashua, che non è nello stand ufficiale, ma sarà presente come invitato delle éditions de l’Olivier. Numerosi saggisti e giornalisti saranno ugualmente presenti ma non ufficialmente nel padiglione israeliano”

    […] Si vedano in proposito le interviste a Shabtai e Ziffer, e la dichiarazione di Pappe. Alcuni autori, però, hanno scelto di accettare l’invito da parte di alcuni editori, e pertanto a Parigi erano presenti in stand diversi da quello di Israele. Restiamo in attesa di vedere quel che accadrà a Torino.

  2. Vergogna. Andatevi a leggere cosa propone l’OCI a Dakar.
    Siete in grado di fare anche una propaganda peggiore.
    Dhimmi.

  3. Hai visto Galbiati? Esattamente come ti dicevo, ma sono riuscito ad anticiparlo ;)
    gné gné gné

  4. Dove sta l’occultamento? Nelle contraddizioni, nei condizionamenti, nella costruzione di una immagine della storia islamica, e del suo presente, apparentemente pacifica, ma che in definitiva si basa sulla stessa contrapposizione tra “noi” e “loro” che a suo tempo denunciò il professor Said. Sappiamo che l’inventore dell’Orientalismo si riferiva all’imperialismo, al colonialismo e al paternalismo dell’Occidente che, sentendosi ‘superiore’ all’Oriente, aveva costruito un’immagine stereotipata dell’Islam. Sembra che oggi le cose si siano capovolte. L’OCI restituisce una immagine speculare dei rapporti tra la civiltà islamica e quella occidentale, in cui viene rimossa l’essenza del Jihad, che, va ricordato, è stata, ed è, anch’essa una storia di guerra (perpetua), fatta di conquiste e devastazione, mentre si cerca di far passare l’idea del Dialogo interculturale, il mito andaluso e mediterraneo della convivenza, scaricando sugli occidentali la responsabilità del terrorismo. Secondo l’OCI, dopo l’11 Settembre gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati, hanno anteposto la difesa della Sicurezza alla questione dei Diritti umani, rifiutando il multiculturalismo in un rigurgito di razzismo e xenofobia. Capito? Per fortuna che ci sono l’OCI ed Hamas a difendere i fondamenti della società civile che l’America e l’Europa non rispettano più, eh?

    “La critica di Said acquisterebbe maggiore credibilità se includesse un’analisi della teoria islamica del ‘dar al-islam’ (noi, i musulmani) e del dar al-harb (loro, i non musulmani), e del sistema di relazioni internazionali e sociali che essa genera tramite il jihad e la dhimmitudine”. I nipotini di Said occultano l’intero sistema teologico di separazione e discriminazione tuttora vigente nel mondo islamico, come fa il premier indonesiano Yudhoyono quando parla di democrazia islamica e “Jihad pacifico” dimenticando che nel suo Paese, l’Indonesia, il più popoloso stato musulmano, con più di 230 milioni di abitanti, centinaia di chiese cristiane sono state attaccate e distrutte tra il 1996 e il 2002, alla faccia del dialogo tra musulmani e cristiani.

    Il Dialogo è solo da una parte. Tutta fuffa. Propaganda pura. Gli intellos che boicottano Israele accettano servilmente questo status quo. Un boicottaggio culturale che fa il paio con quello economico-politico imposto dall’Unione Europea negli ultimi decenni, per guadagnarsi petrolio e sicurezza nelle grandi periferie metropolitane che bollono di razzismo occidentalista. Ma i popoli europei hanno risposto picche a questo progetto. La Francia e l’Olanda si sono rifiutate di accettare questa costituzione senza spina dorsale, alla facciazza di Prodi, Zapatero e della “Alleanza delle Civiltà”. Resta un solo nemico, un Unico nemico, prima che il piano dell’Oci si compia. Indovinate un po’ chi è? Che schifo. Che vergogna sentirmi ancora di sinistra.

  5. Strano che un antropologo di valore come Vereni, del quale lessi e apprezzai un bel saggio sull’identità macedone raccolto in “Vite di carta” (Ancora del Mediterraneo mi pare), scriva con tanta sicurezza e semplicità “sono infatti convinto che l’antisionismo sia la forma moderna dell’antisemitismo e da questo provenga come emanazione diretta”.
    Ma ho il sospetto, semplicemente, che non abbia idea di come sia la situazione sul campo, su quel campo, quando dice “anche del nascente Stato di Palestina”. Orsù, e dove/come starebbe nascendo, e grazie a chi? E su quale territorio?
    Mi sembra una presa di posizione a partire da pochi elementi, e non verificati. Ma ne parlerò al più presto con l’autore stesso, che m’interessa.

  6. Questo post ha un obiettivo chiaro, quello di fornire una lista di autori israeliani estremamente critici con la politica dei loro governi e anche con alcuni assunti ideologici largamente condivisi nel loro paese. Se si vuole discutere del conflitto tra Israele e Palestina, non si puo’ fare a meno di considerarli. Se si vuole discutere della cultura e della letteratura israeliana attuale, pure.

    Personalmente conoscevo pochissimi degli autori presenti in questa lista, e di quei pochi avevo letto molto poco. Ora ho un orizzonte molto più ampio di riferimenti, a partire da testi accessibili in rete e testi tradotti in italiano.

    Tutto cio’ ovviamente non ha nulla a che fare con l’Organizzazione della Conferenza Islamica o Hamas.

    Ad Andrea R.,
    La pura e semplice affermazione che “l’antisionismo è l’equivalente dell’antisemitismo”, mi sembra immediatamente confutata da quegli intellettuali israeliani che sono radicalmente critici nei confronti del sionismo. A questo punto avrebbe senso, appunto, sentire cosa loro hanno da dire sulla questione. Ossia informaris sul dibattito che loro hanno aperto in Israele.

    In secondo luogo, Vereni ha perfettamente ragione quando ricorda che ogni stato moderno e nazionale è nato attraverso la violenza contro le minoranze. E da questo punto di vista Israele non è un’eccezione. Dopodiché non seguo Vereni nell’equiparare la minoranza altoatesina italiana alla popolazione palestinese. Il salto di scala impedisce ogni semplice equivalenza. E cio’ ovviamente ribadendo (se ce ne fosse bisogno) un assunto che reputo indiscutibile: non è certo in questione l’esistenza di Israele, ma la possibilità che esista anche un vero stato palestinese.

  7. Ma come mai nella vostra lista non c’è Uri Avnery?
    E’ il padre di una Israele senza sionismo che contenga tutti.
    Ha scritto un libro formidabile: Isareal without Zionist, Israele senza sionisti, tradotto anche in Italia da Laterza, negli anni Settanta
    Ok è nato nel 1924 ma, a quanto ne so, mica è morto:-)
    geo

  8. simpatico pietro vereni, finisce l’articolo con le parole del simpaticissimo Yehoshua:

    Quest’anno, in occasione del sessantesimo anniversario della sua fondazione, sarà Israele l’ospite d’onore al Salone del Libro di Torino. L’augurio è che l’anno prossimo lo sia la Palestina, in occasione del primo anniversario della sua nascita. Noi, scrittori e poeti israeliani, parteciperemo a quell’evento con gioia e con convinzione

    Yehoshua dice le stesse cose di Biondillo :-). Ma a parte che non c’è nessun pericolo, perchè purtroppo non credo che nel 2009 sia nato alcun stato palestinese, ma anche fosse … chi glielo spiega all’Egitto (e soprattutto a El Sebaie) che deve posticipare un’altra volta il suo turno? ;-)
    geo

  9. “Le péché originel d’Isral”, di Dominique Vidal
    La grande rimozione del 1948

    Yehuda Lancry Vicepresidente della Knesset Ex ambasciatore in Francia
    Ai”nuovi storici” israeliani, di cui tratta il libro di Dominique Vidal (1), si deve riconoscere, come minimo, il merito di aver contribuito a liberare la storiografia sionista dal giogo di un pensiero unico. Attaccando la versione ortodossa della nascita di Israele, la sostituiscono con una versione rivista e corretta. La posta in gioco della tenzone fra vecchi e nuovi storici sta nella lettura, la decifrazione e la trascrizione della guerra civile israelo-palestinese, poi israelo-araba, del 1947 e del 1949. Per Benny Morris, Avi Shlaim o Ilan Pappé, si tratta di portare alla luce, sulle orme del loro precursore Simha Flapan, la verità sull’esodo palestinese, una verità a lungo occultata sotto le scorie delle tesi ufficiali. La loro disamina vaglia con inflessibilità il racconto ufficiale israeliano della tragedia palestinese e lo mette in difficoltà e in imbarazzo. Alla luce della loro indagine, il grande rimosso del sionismo si svela: la rinascita di Israele ha generato una catastrofe nazionale per i palestinesi. Con l’esodo palestinese, così rivisitato, il sionismo non può più apparire nelle sue vesti immacolate. La rinascita di Israele, peraltro giusta in se stessa, è stata in parte ottenuta a spese dei palestinesi.
    Abraham Yehoshua, scrittore di sinistra e appassionato militante per la pace israelo-araba, non riconosce forse al popolo ebreo un diritto morale”a prendersi, anche con la forza, una parte di Eretz Iraele (2)”?.
    La storia dell’espulsione palestinese che, suffragata dagli archivi israeliani, emerge da una colossale rimozione collettiva, mostra la parte di responsabilità che spetta a Israele e ai suoi padri fondatori. Senza un piano globale né una premeditata politica di espulsione, ma con la deliberata volontà di espellere la popolazione araba e di distruggere i suoi villaggi, Israele, secondo Benny Morris, avrebbe incoraggiato e provocato l’esodo massiccio. Il suo collega, Ilan Pappé, convalida, nel fuoco della polemica con i vecchi storici, l’esistenza in Ben Gurion di una strategia globale di espulsione e, persino, di una ideologia di transfert.
    E’ il percorso di questi ricercatori che ci viene proposto dallo studio minuzioso, solidamente strutturato e documentato di Dominique Vidal. Partendo da una irrefutabile presentazione dei fatti storici, l’autore ha vinto la sfida di proporre una brillante sintesi del contributo dato dai nuovi storici israeliani, assai poco conosciuti in Francia. In sintonia con queste recenti ricerche, l’autore si applica con metodicità a dar voce alla tesi di una entità sionista superdotata, che alla vigilia dell’indipendenza aveva più risorse, sul piano politico e militare, del nemico arabo, chiuso nelle maglie di un mondo disorganizzato e disorientato. E, tuttavia, è capace di mostrarsi critico rispetto ad alcune conclusioni e incoerenze di Benny Morris. Inoltre, per spirito di imparzialità, Vidal dà spazio ai rappresentanti della storiografia sionista ufficiale, Shabtay Teveth in testa.
    In questa tenzone fra vecchi e nuovi è anche in gioco l’ethos di Israele e della sua identità in gestazione. Forgiato per lunghi anni dalla minaccia di annientamento, l’essere israeliano deve necessariamente aprire il suo racconto e i suoi miti fondanti al confronto col racconto dell’Altro, palestinese e arabo. E’ in questo incrocio di racconti, nella loro interpretazione, nei loro scontri e nella loro catarsi complemento indispensabile del riconoscimento reciproco negoziato a Oslo che deve inscriversi il discorso della pace e della riconciliazione. Dominique Vidal, con la collaborazione intelligente di Joseph Algazy, svolge con la sua opera un’importante funzione di pace.note:
    (1) Dominique Vidal (con Joseph Algazy), Le Péché originel d’Israæl, l’Expulsion des Palestiniens revisitée par les”nouveaux historiens” israéliens, Editions de l’Atelier, Parigi 1998, 206 pagine.
    (2) Cfr. Repenser Israæl, a cura di Ilan Greilsanier, Autrement, Parigi 1993, p. 96.

    Da qui: http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Maggio-1998/pagina.php?cosa=9805lm10.03.html&titolo=La%20grande%20rimozione%20del%201948

    Si direbbe che Vidal abbia parlato di questi temi al salone parigino con Dieckhoff, Hass, Shlaim, Zertal, Warschawki, ma non nel padiglione israeliano, nel quale gli autori israeliani non sono stati invitati, bensì in quello occupato dalle edizioni La Fabrique:

    DÉBAT AU SALON
    Soirée-débat au Salon du livre salle Haïm Nahnan BIALIK

    organisée par les éditions de l’Atelier, Buchet Chastel, La Découverte, La Fabrique et Fayard

    le mardi 18 mars de 19 h 30 à 21 heures

    Vingt ans de « nouvelle histoire » : Israël face à son passé

    avec Alain Dieckhoff, Amira Hass, Ilan Pappé, Avi Shlaim, Idith Zertal et Michel Warschawski

    débat animé par Dominique Vidal

    Da qui: http://www.lafabrique.fr:80/chronique.php3?id_article=82

    Pappe ha rifiutato l’invito da parte dell’editore La Fabrique, sostenendo il boicottaggio totale:

    Tuesday, March 04, 2008
    Ilan Pappe e il Salone del Libro di Parigi

    Cari Amici,
    come certamente sapete, il Salone del libro di Parigi, quest’anno, è dedicato al sessantesimo anniversario di Israele. Supponevo, e speravo, che le manifestazioni organizzate dalla casa editrice “La Fabrique” non rientrassero tra le iniziative di questo Salone. Avevo torto, e mi ha rattristato apprendere che ne fanno parte integrante. La decisione di associare il Salone del libro, quest’anno, alla celebrazione dei sessanta anni d’indipendenza di Israele ha portato molti autori e artisti progressisti, palestinesi e più generalmente arabi, a ritirarsi, e boicottare questa manifestazione. È fondato supporre che le ultime aggressioni genocide di Israele contro la Striscia di Gaza possano soltanto indurre molti loro colleghi a fare la stessa cosa.
    In tali circostanze non posso, per quanto mi riguarda, partecipare a
    questo Salone, né da vicino, né da lontano.
    Suggerisco di decidere insieme una nuova data, lontana da quella del Salone del libro, per non essere associati alla celebrazione dell’indipendenza di Israele, come pure al suo totale rifiuto della Naqba palestinese.
    Tuttavia, se le edizioni “La Fabrique” e altri partecipanti non dovessero condividere questa posizione, mi ritirerò – personalmente – da queste celebrazioni.
    Cordiali saluti
    Ilan Pappe, 2 marzo 2008
    http://www.lafabrique.fr/chronique.php3?id_article=82
    [Grazie a Silvia Cattori per la segnalazione e la traduzione]

  10. Georgia,
    a proposito dell’articolo di Vereni, due battute: personalmente non replico più a chi si prodiga nella caccia alle streghe del nuovo antisemitismo, trovandolo in chiunque non apre bocca per difendere Israele; su Yehoshua: è sempre facile trovare il coraggio per dichiarare la propria partecipazione a un evento che sai non ci sarà, ed è facile + ridicolo = ipocrita, gongolarsi nella gioia che si proverà nel farlo (per i letterati palestinesi credo che leggere queste dichiarazioni sia come una beffa).

    Su Uri Avnery hai proprio ragione: ci è sfuggito! lui e Sami Michael e tanti altri…
    Ma facciamo sempre in tempo a rimediare.
    Peraltro, mi pare di ricordare un bel dialogo tra lui e Pappe in cui Pappe sosteneva lo stato binazionale come soluzione di pace e giustizia mentre Avnery propendeva per due stati. Ricordo male?
    Lo cercherò in rete!

    Buona serata.

  11. La verità… per quanto mi riguarda
    è che a me Avnery non piace. Per niente. Per questo l’ho evitato fin da subito. Il suo battere continuamente sulla “soluzione a due stati” non solo mi sa di miope, ma – sotto la facciata “pragmatica” e “realistica” – di estrema malafede per come la imposta.
    Comunque senza tediarvi ulteriormente, vi segnalo un link al dibattito tra Pappe e Avnery relativo al “dilemma” stato unico/doppio stato.
    Quello che dice Avnery qui:
    “L’idea della Soluzione-Uno-Stato può attrarre persone che disperano della lotta per l’anima di Israele. Lo capisco. Ma è un’idea pericolosa, soprattutto per i Palestinesi.
    Statisticamente gli Ebrei Israeliani, costituiscono, al momento attuale, la maggioranza assoluta tra il mare e il fiume. A quello, si deve aggiungere un altro dato importante: la media delle entrate annue di un Arabo palestinese è di circa 800 dollari, quella di un Ebreo israeliano e di circa 20.000 dollari – 25 volte (!) più alta. L’economia israeliana cresce di anno in anno. I palestinesi sarebbero “spaccalegna e portatori d’acqua”. Questo significa che se l’immaginario Stato unico venisse alla luce, gli ebrei eserciterebbero il potere assoluto. Naturalmente userebbero il loro potere per consolidare il proprio dominio ed impedire il ritorno dei profughi.”
    sarebbe certamente vero in caso di mantenimento di una non-costituzione su base identitaria, quale in effetti è ora.
    Ma chi si propone lo stato unico lo sa, e sa che la via per lo stato unico è solo una costituzione democratica da porre in essere prima dell’inclusione di un territorio.
    E Avnery non è sicuramente così miope da non arrivarci da solo. Dunque?

  12. avnery è sempre stato per due stati ma federati, ad ogni modo voi da quello che ho capito fate una lista dei dissidenti interni e non di quelli che vi piacciono come fotocopie ;-) beh avnery è sicuramente un dissidente, e da sempre.
    geo

  13. Comincio con il contestare la bucolica immagine dei razzi qassam portati dai somarelli, visto che negli attacchi di inizio marzo si sono usati anche razzi di probabile fabbricazione iraniana e che esperti iraniani di armi sono stati individuati e arrestati a Gaza nel 2007 dalla polizia palestinese prima che Hamas espellesse Hamas dalla Striscia.

    Trovo discutibile il criterio di selezione degli intellettuali che rappresentano l’altra faccia di Israele, a partire dalla esclusione di Amnery perchè “non piace”. Se l’ambizione è quella di proporre punti di vista alternativi su Israele, è radicalmente sbagliato definire a priori un criterio di inclusione come ad esempio l’accettazione del principio di un solo stato per arabi e ebrei, anzi mi sembra dannatamente settario e in conflitto con qualsiasi criterio di confronto sereno e aperto.

    Un’altra osservazione riguarda il fatto che gli intellettuali identificati sono perlopiù cattedratici in università israeliane o collaboratori di Haaretz, che è tra i quotidiani più prestigiosi e diffusi di Israele e che è con qualche approssimazione assimilabile a Repubblica in Italia. Di sicuro non si tratta di intellettuali emarginati o perseguitati e in più di un caso la corte suprema di Israele si è pronunciata in loro favore. Quando alle vicende di Pappé che ha lasciato l’Università di Haifa e alla tesi di dottorato di Teddy Katz, vi invito a cercare qualche informazione in più.

    Mi pare poi che vengano toccati dai vari autori citati due punti essenziali, cioè il concetto di identità nazionale e le vicende che portano alla nascita di una nazione.

    La disamina fatta da Shlomo Sand su come sia nato il concetto di popolo di Israele è seria e argomentata, ma applicata con lo stesso rigore a qualsiasi insieme di persone che è definito o si autodefinisce popolo porterebbe a negare la possibilità di qualsiasi identità nazionale, ivi compresi i popoli che godono di una terra e di una nazione e quelli che non ne godono (curdi, armeni, tamil …). Applicato puoi al di fuori del contesto della cultura europea, quella che nell’800 si è inventata la nazione, il concetto di popolo perde poi qualsiasi significato storico, visto che molte delle nazioni asiatiche e africane nascono dalle casuali segmentazioni geografiche definite dalle potenze coloniali e che un concetto di popolo siriano, libanese, giordano, palestinese non è mai esistito nel periodo ottomano. Su quale criterio di omogeneità si base una nazione? Etnico, religioso, linguistico, culturale, storico? Sul risiedere in una certa terra da un certo tempo? Da quanto tempo, poi, si sa che i popoli, volenti o costretti, si muovono. I popoli che sono fuggiti in seguito a eventi bellici hanno diritto a ritornare nelle loro terre? Bene, allora chiediamo che i 150mila italiani esuli da Croazia e Slovenia dopo il 1945 tornino nelle terre in cui vivevano da secoli e che i quasi due milioni di tedeschi che hanno abbandonato Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia dopo il 1945 possano rientrarvi e tornare in possesso delle loro case e dei loro beni allora confiscati Ditemi se Danzica e Konisberg sembrano città tedesche, salvo per il fatto che non ci sono più residenti tedeschi a partire dal 1945. Si tratta di vicende del periodo 1945-1946, quasi contemporanee alla Nabqa, perché a loro dovrebbe essere negato il diritto al ritorno? Ma ci sono fatti che risalgono agli anni 90, quindi per coerenza riportiamo le etnie slave alla situazione pre 1989, costringendo la Croazia a riprendersi i Serbi delle Kraine e la Serbia i Croati espulsi.

    Se concordiamo sul fatto che i concetti di popolo e nazione non hanno alcun fondamento storico, allora una possibile soluzione al problema della Palestina potrebbe essere quello di costruire un unico stato fatto da due popoli che si sono fatto la guerra in modo pressoché continuativo per sessant’anni (stima per difetto). Eppure mai nella storia umana una cosa del genere è accaduto, se non nel caso di imperi sovranazionali, se mi sbaglio portatemi qualche esempio. E intanto nel mondo nuove guerre covano sotto la cenere o dilagano palesemente sempre in nome dei concetti di popolo e di nazione.

  14. @Georgia & Sebastian
    Criticare un lavoro di selezione lungo, frutto di ore e ore al pc, per quello che non si è messo, è una cosa che francamente mi irrita.
    Trovo davvero scorrette le critiche alle persone per quello che NON fanno, per quello che NON hanno inserito in una lista che, per contenere tutti i “dissidenti”, sarebbe interminabile.
    Tutti erano invitati a fare parte di questo lavoro, redattori di NI e lettori. Pochi hanno dato la loro disponibilità. Non tutti quelli che si sono resi disponibili hanno poi effettivamente contribuito.
    E chi si è impegnato ha dovuto sforzarsi sempre di mediare e trovare un accordo per arrivare a soluzioni condivise, non ultima l’articolo di introduzione a questa lista, costato parecchio in termini di stesura e di impegno nella comunicazione interpersonale, e terminato con Andrea Inglese che si è visto arrivare le mie ultime news sugli autori israeliani a Parigi (gli “estratti” del primo commento) poco prima che lo postasse – o forse ad articolo già postato.

    Volevate una lista con Avnery?
    Accomodatevi.
    Fate voi una scheda su Avnery.
    Sebastian, hai altre informazioni su Pappe?
    Hai nomi e notizie di intellettuali meno noti, non cattedratici, più “dissidenti”?
    Prego, siamo tutto orecchi.
    Davvero, senza ironia.
    Qui non c’è nessun criterio di selezione. Se io avessi voluto fare la scheda di Avnery, l’avrei fatta. Ma non ci ho pensato.
    Diego ha solo detto la sua opinione su Avnery, che personalmente condivido solo in parte. In ogni caso, nessuno ha deciso una linea nel selezionare gli autori, un criterio preciso, se non quello di rappresentare l’altra faccia di Israele, quella realmente critica, quella per lo più oscurata in Europa. Fossimo stati di più e con più tempo da dedicare, la lista sarebbe stata più lunga e forse avrebbe incluso anche arabi israeliani. Ma già quella che abbiamo redatto, con tutti i suoi difetti e le sue lacune, mi sembra un risultato importante.

    Abbiamo fatto, stiamo cercando di fare informazione, o controinformazione, partendo da scrittori, giornalisti, storici, intellettuali realmente critici verso Israele, il sionismo.
    Come ha scritto Andrea, per tutti noi è stata in buona parte una scoperta, questa lista; abbiamo conosciuto il lavoro di molte persone che prima ignoravano, e probabilmente saremo spinti ad approfondire, a leggere alcune delle loro opere.

    Sarebbe utile, intelligente, serio, confrontarsi su quanto questi autori hanno da offirci, anche perché nessuno di loro la pensa esattamente nello stesso modo né si comporta allo stesso modo, tant’è vero che a Parigi, al confronto aperto nello stand di La Fabrique, Pappe non è andato, schierandosi per il boicottaggio, ma è lecito pensare che Shlaim e Warschawski siano stati presenti – se trovate notizie di segno opposto, segnalatele.
    In questo senso mi fa piacere la parte finale del commento di Sebastian: la discussione su “due popoli due stati” o “uno stato binazionale” è tutt’altro che scontata, e contiene risvolti su cui in Europa non siamo abituati a riflettere.
    Personalmente dico subito che preferirei la soluzione di uno stato binazionale, sembrandomi più laica, democratica e, se capite cosa intendo, più “etica”; ma le variabili in gioco sono molte e credo ora sia difficile dire quale delle due soluzioni sia più realista.
    Forse oggi, vista la situazione catastrofica in cui versa la Palestina, qualsiasi soluzione che offra una pace fondata sulla giustizia è irrealistica… fantascientica.

  15. Vorrei innanzitutto pregare Lorenzo di abbassare i toni e di non irritarsi ad ogni pié sospinto. Come mi piacerebbe che si uscisse da una semplice logica di scontro. La proposta di una lista di autori, non è la proposta di una serie di sentenze veritative su Israele o Palestina. E’ innanzitutto una proposta di lettura di quanto dicono questi autori.

    Sulla lista. E’ scritto nero su bianco che questa lista puo’ essere lacunosa, e quindi si accettano tutte le integrazioni. Ed è anche giusto che vengano inseriti intellettuali dissidenti, che non per forza rispecchiano le medesime posizioni. Mi sembra assurdo che ognuno faccia la propria lista.

    a sebastian:
    “Un’altra osservazione riguarda il fatto che gli intellettuali identificati sono perlopiù cattedratici in università israeliane o collaboratori di Haaretz, che è tra i quotidiani più prestigiosi e diffusi di Israele e che è con qualche approssimazione assimilabile a Repubblica in Italia. Di sicuro non si tratta di intellettuali emarginati o perseguitati e in più di un caso la corte suprema di Israele si è pronunciata in loro favore.”
    Nel testo del post, non mi sembra che si enfatizzi la persecuzione o la marginalizzazione di questi intellettuali. Si sottolinea, semmai, come essi sono poco conosciuti qui da noi, almeno al di fuori di dibattiti strettamente specialistici. Doppdidiché ogni storia è diversa, e essere intellettuali dissidenti non è mai facile in nessuno democrazia, e a maggior ragione in una democrazia che in stato di guerra permanente. Alcuni di questi intellettuali hanno pagato a caro prezzo la loro dissidenza, basta leggere.

  16. Ho detto a me Avnery non piace, e lo sottolineo nouvamente qui: non ho imposto a nessuno il veto su quest’autore, o su qualsiasi altro. Non solo, ma in quella lista ci sono pure alcuni “sionisti” dichiarati. E’ permesso avere dei gusti personali?
    #Sebastian
    Sui Grad ti risponderò quando avrò più tempo (avevo già intenzione di farlo ma nn mi ricordo in riferimento a quale post), e magari in una sede più adatta di questa.
    Poi
    >I popoli che sono fuggiti in seguito a eventi bellici hanno diritto a ritornare nelle loro terre?
    ebbé, se metti in dubbio questo (e fai bene) metti in dubbio anche l’esistenza di Israele (che è un caso ancora più “vago”, in termini di espropriazione/ritorno)… capisci perchè non ha più senso affrontare la questione in questi termini?
    >E intanto nel mondo nuove guerre covano sotto la cenere o dilagano palesemente sempre in nome dei concetti di popolo e di nazione.
    Non vedo perchè accettare passivamente questa prassi… immaginati l’opportunità di un laboratorio… di un enorme exemplum in nome della “pace” (ah!) e a scapito della parte meno intima dell’identità ;)
    Anteporre l’essere “persona” all’essere (ritenersi) “ebreo” o “mussulmano” o “israeliano” o “palestinese” non mi sembra un’idea così malvagia… Atzmon per esempio spiega molto bene il criterio con cui l’identità, vera o presunta, viene a definirsi nei limiti di un folklore recentissimo e di consumo, quasi assente nella generazione dei nonni, o dei bisnonni. Atzmon lo spiega, se ti fai una camminata a Tel Aviv lo vedi dal vivo.

  17. sempre Sebastian
    >Pappé che ha lasciato l’Università di Haifa e alla tesi di dottorato di Teddy Katz, vi invito a cercare qualche informazione in più.

    se sei già a conoscenza di queste “informazioni in più”, e se sono effettivamente interessanti, perchè non ce le riporti qui?

  18. Ancora una cosa. Sulle parole di Yehoshua citate da Vereni, sono perfettamente d’accordo con Lorenzo Galbiati. E’ una frase che suona del tutto derisoria, per chi abbia una minima consapevolezza della realtà.

    Io credo che partire da quanto dicono questi intellettuali israeliani è indispensabile per alcuni ragioni.

    Non è più tollerabile l’ipocrisia che regna su stampa e media generalisti, quando si tratta di Israele: gli eufemismi, l’attitudine giustificatoria, ecc.

    Non è più tollerabile il razzismo, sempre su stampa e media, che relega in 20esima pagina, e in un trafiletto, 40 morti palestinesi, e mette in prima pagina, con illustri editoriali, tre morti israeliani.

    Non è più tollerabile che si presentino le voci, almeno dalla guerra in Libano in poi, di scrittori come Yehoshua, Oz, Grossman, spacciandole per delle voci critiche e “oggettive” nei confronti delle politiche israeliane. Le voci critiche esistono, ma sono ben altre.

    Non è tollerabile che ogni forma di critica non eufemistica e ipocrita all’occupazione israeliana sia considerata un atto di antisemitismo.

    Detto questo, sono conscio di un pericolo. Questa volontà di giustificare e attenuare le colpe di Israele sulla nostra stampa, rischia di creare in chi non è per nulla “ingannato”, una sorta di moto uguale e contrario: ossia la demonizzazione di Israele. Israele diviene allora l’incarnazione del male. Ma quando questo succcede, si scivola dal terreno dell’analisi e della denuncia politica al terreno della condanna “religiosa”, contro l’incarnazione del Male.

    Perché questo non accada, gli interlocutori che non sono dei semplici apologeti della politica e del colonialismo di Israele, dovrebbero innanzititto riconoscere le colpe di Israele, e non giustificarle alla luce di colpe altrui (ma i russi con i ceceni, ma i cinesi con i tibetani, ecc.).

    Ora, in queste colpe, non si puo’ certo mettere la nascita tragica delo stato di Israele. Ma tra quella nascita e le politiche che ad essa sono susseguite fino ad oggi passa una bella differenza.

  19. @Lorenzo e @Diego
    Ho avuto la sensazione che Avnery sia stato escluso per la sua non condivisione dell’ipotesi di due popoli – una nazione. Dalle vostre repliche posso derivare che la mia sensazione fosse errata e non ho problemi a ritirare la mia obiezione con tutte le scuse del caso.

    @Diego
    La tesi di Katz esamina un massacro nel villaggio arabo di Tantoura durante la guerra del 1947-1948. Essa è stato oggetto di contestazioni e di cause legali, durante le quali Katz ha prima ritrattato il contenuto della sua tesi per poi sconfessare la sua ritrattazione. Pappé, pur non essendo il relatore di Katz, si spese parecchio in suo favore.

    Riguardo l’abbandono da parte di Pappé dell’Università di Haifa, la versione ufficiale non parla di revoca dell’incarico, ma del fatto che il rettore abbia fatto ooservare l’incongruenza tra l’appoggiare da parte di Pappé il boicottaggio delle relazione accademiche con le università israeliane operato ad esempio da alcuni atenei inglesi e il lavorare per una università israeliana.

    @Andrea
    Il tuo commento richiede una una replica articolata che esige un poco di tempo. Per il momento posso dire che, per il poco che conta la mia opinione, una critica a Israele non è necessariamente sintomo di antisemitismo. E’ altrettanto ovvio che certe critiche lo sono e che il discriminante tra le due situazione dipende molto dalla sensibiità di ognuno.

  20. Volevate una lista con Avnery?
    Accomodatevi.
    Fate voi una scheda su Avnery

    Intanto gradirei non essere affiancata a sebastian (che non sa neppure chi sia avnery) … ma questo è il meno …
    Poi …ma lorenzo sei impazzitoo cosa?
    Siamo già a questo punto solo per un post? :-)
    La mia non era una critica, era solo una curiosità per l’esclusione del primo antisionista israeliano, ad ogni modo me ne frego altamente su chi ci sia nella lista o non ci sia …ma figuriamoci, mica volevo criticare.
    Se sei già li a lamentarti per il lavoro che hai fatto, solo dopo il primo post con l’elenco … beh … :-)))))
    Arrivederci, buon lavoro e … sono grata al mio fiuto che mi ha tenuto lontana dal tutto ;-)
    geo

  21. Inglese!
    Approvo ogni singola parola del tuo ultimo commento, specie questa parte, da incorniciare:

    “Detto questo, sono conscio di un pericolo. Questa volontà di giustificare e attenuare le colpe di Israele sulla nostra stampa, rischia di creare in chi non è per nulla “ingannato”, una sorta di moto uguale e contrario: ossia la demonizzazione di Israele. Israele diviene allora l’incarnazione del male. Ma quando questo succcede, si scivola dal terreno dell’analisi e della denuncia politica al terreno della condanna “religiosa”, contro l’incarnazione del Male.”

    E’ una cosa troppo vera, una sensazione provata troppe volte. Chi mi conosce (molto) bene lo sa, quando si affronta l’argomento, le volte in cui incappo nella negazione dell’evidenza da parte dell’interlocutore con mia conseguente impotenza ostensiva, e sono io il primo a perdere lucidità. Magari uno scivolare che si traduce non in termini “religiosi”, ma complottistici. Rabbiosi, sicuramente.
    E si finisce per fare il gioco delle vittime, e di chi le vuole tali.

  22. A proposito, c’entra poco con l’argomento ma forse di più con la mia ultima frase.
    E’ uscito questo, l’ho sfogliato oggi in libreria e mi sembra decisamente interessante.

  23. condivido questa iniziativa: scintille di luce oltre il muro e il confine..la futura terra è in mano a loro ai palestinesi che condividono lo stesso percorso, secondo me. I “traditori” solcano nuovi spazi spero Ciao

  24. Condivido quanto detto da Andrea perché ha espresso effettivamente quelle che sono state l’energia e l’impegno presi collettivamente. Inviterei inoltre georgia, sebastian e altri a raggiungere quello che potremmo definire piuttosto un forum che un post (posizione) propriamente detto.
    Discutendo con una persona a me molto cara mi si faceva questo tipo di osservazione: ma allora che fate, ritornate sui vostri passi a proposito del boicottaggio della fiera del libro? Io gli ho risposto che nazione Indiana aveva espresso posizioni molteplici e ch tale molteplicità non andava interpretata come contraddittoria. esattamente come in questa occasione che vede tra i firmatari sia persone contro il boicottaggio della fiera del libro di Torino, come me, che persone favorevoli. Quello che mi turba, nei blog, è quella che si potrebbe definire sindrome di Custer, o dell’accerchiamento. E invito tutti a considerare che il blog si chiama Nazione Indiana, e gli indiani si sa, almeno in quell’occasione erano dall’altra parte dell’accerchiamento.
    Volevo in altri termini invitare tutti a non farsi prendere dal leone di tastiera che sonnecchia in ognuno di noi e a farsi, nei limiti del possibile, portatore quanto più “equilibrato” di posizioni e di proposte che da qualsiasi lato le si prendano credo che convergano in uno stesso ed unico punto, pace e libertà per tutti, israeliani e palestinesi.
    Buona Pasqua per chi ci crede e per chi non ci crede buona pasqua.
    effeffe

  25. Georgia,
    non capisco se sei arrabbiata o meno dato che dopo ogni frase metti il sorriso.
    Cmq, la mia provocazione era intesa per ribadire che siamo un gruppo aperto di cui chiunque poteva (e può, I guess) far parte – e quindi anche tu. E ammetterai che la tua curiosità iniziale su Avnery – che non considero il primo antisionista israeliano – si è trasformata presto in un giudizio sul nostro operato: “da quello che ho capito fate una lista dei dissidenti interni e non di quelli che vi piacciono come fotocopie ;-)” , sulla base di opinioni personali di Diego – che poi ha chiarito.
    Io sono molto contento di essermi impegnato in questo lavoro, e dei risultati che sta dando. Ho sottolineato soltanto il sudore che ci è costato. Del resto è passato più di un mese dall’articolo di Diego che è alla base di tutto.
    So che hai seguito il nostro percorso e so anche che sei molto preparata sulla questione in esame, tanto che mi spiace tu non abbia voluto essere dei nostri. Ma puoi esserlo con i contributi che dai nei commenti.
    Quindi non hai scuse da accampare per dirci bye bye ;-))
    (poi libera di fare quel che vuoi, ovviamente)

    Detto questo, si potrebbe fare una scheda su Avnery o discutere del suo pensiero in uno dei post successivi.

  26. Anch’io credo che Andrea con il suo ultimo commento abbia centrato in pieno molti bersagli.
    Mi soffermo solo sulle parti su cui faccio distinguo.

    1) Il pericolo di identificare Israele con il Male per la rabbia scaturente dal filoisraelismo dei media credo sia alquanto remoto, ma il commento di Diego in qualche modo gli dà credito.
    Personalmente non ho mai avuto questa tentazione, evitando per mia prassi di usare assoluti. E semmai sono più propenso a considerare Israele come stato satellite degli USA, un riflesso del “male” delle politiche americane internazionali del dopoguerra, anzi dal 6 agosto 1945 in poi.
    Ma parlare di “male” e di “Male assoluto” ha sempre poco senso nella storia. Evito queste espressioni anche per la Shoah, che secondo me non è il Male assoluto, insuperabile, inspiegabile, che diventa quasi un evento metastorico, simbolo di un punto di non ritorno nella storia dell’umanità.
    Le evito perché credo sia un controsenso parlare di male assoluto per l’uomo, come se ci fosse una soglia di male oltre la quale non si possa andare: non è vero, non esiste tale soglia. E tutto quello che è successo con la Shoah è perfettamente umano, nel senso che risiede nelle pieghe più recondite – malvagie, diciamo pure – dell’uomo. Non v’è nulla di trascendente. Non ha senso invocare una sua non spiegabilità perchè spiegare la Shoah sarebbe un po’ come giustificarla – così dicono, temono alcuni. La Shoah è un fatto storico inerente l’uomo e la natura dell’uomo. Non l’uomo malvagio per natura – e quindi in qualche modo l’uomo snaturato, degenerato, malato. L’uomo come noi. E non vedo validi motivi per considerare la Shoah un caso a sè stante rispetto agli altri genocidi dell’umanità – tra i quali il più grave in termini assoluti e relativi resta quello degli indios durante la Conquista dell’America.
    Ogni evento storico, ogni genocidio è unico. Certo, c’è una unicità qualitativa della gravità della Shoah e risiede nell’organizzazione e nella pianificazione del genocidio, e anche nel ritmo con cui avvenuto. E questo fa di essa un evento storico che costituisce una cesura nella storia moderna europea e mondiale. Ma non un fatto storico in assoluto inspiegabile, trascendente, quasi con valore teologico, come se l’idea che abbiamo di Dio debba fare i conti con l’evento della Shoah. Non dico cose strane. Per Primo Levi c’era la Shoah, quindi non poteva esserci Dio. Che poi è sempre l’argomento secondo cui si nega Dio perché c’è il male – e la Shoah sarebbe appunto il Male assoluto.

    Ho divagato.

    2) Volevo aggiungere un secondo distinguo.
    C’è una differenza a mio avviso tra il sostenere la non legittimità dell’esistenza di Israele, e il sostenere che la sua nascita sia stata un “male” o comunque una cosa ingiusta in senso etico.
    Personalmente credo vi siano molti stati o confini nati in modo ingiusto. Per l’Italia per esempio dubito assai che l’annessione dell’Alto Adige fosse cosa giusta. Così come dubito della giustezza dei confini del Friuli Venezia Giulia, di Nizza e della Corsica. Ma ovviamente non mi sognerei ora di fare una campagna per ridefinire questi confini.
    Veniamo al 1947-48. Insieme a Israele, si formava anche l’India e il Pakistan. E’ stato un “bene” che i musulmani indiani volessere costituire per loro, invocando anche la guerra civile, la “Terra dei puri”? Era più giusta la posizione di Jinnah, ateo morente, che ha voluto fortemente uno stato religioso come il Pakistan o quella di Maulana Azad, musulmano fervente che si batteva con Nehru e Gandhi per una India unita, laica, non confessionale, fatta da indù, musulmani, sikh, cristiani, ebrei, buddisti e chi più ne ha ne metta?
    Io credo sia stato un tragico errore, un “male” che l’India si sia divisa, e la storia per nulla democratica del Pakistan nonché i rigurgiti integralisti dell’India di oggi mi sembrano una conferma.
    Detto questo non mi sentirei certo di dire che sono contro l’esistenza del Pakistan o che mi auguro la sua distruzione.
    E quindi, potrò dire la stessa cose di Israele? Potrò avere il sospetto che sia stato un tragico errore per gli ebrei cercare una patria loro, uno “stato ebraico” per “diritto naturale” in cui ogni ebreo possa rifugiarsi (autoghettizzarsi? ci han messo anche il muro) per principi di legge che trovano la giustificazione ultima nella Bibbia, senza venire accusato di non considerare legittima (o peggio: che sono contro) l’esistenza di Israele? o di antisemitismo?
    Questo scriveva Gandhi:
    “Ho ricevuto numerose lettere in cui mi si chiede di esprimere il mio parere sulla controversia tra arabi ed ebrei in Palestina e sulla persecuzione degli ebrei in Germania. Non e’ senza esitazione che mi arrischio a dare un giudizio su problemi tanto spinosi. Le mie simpatie vanno tutte agli ebrei. In Sud Africa sono stato in stretti rapporti con molti ebrei. Alcuni di questi sono divenuti miei intimi amici. Attraverso questi amici ho appreso molte cose sulla multisecolare persecuzione di cui gli ebrei sono stati oggetto.[…]. Ma la simpatia che nutro per gli ebrei non mi chiude gli occhi alla giustizia. La rivendicazione degli ebrei di un territorio nazionale non mi pare giusta. A sostegno di tale rivendicazione viene invocata la Bibbia e la tenacia con cui gli ebrei hanno sempre agognato il ritorno in Palestina. Perche’, come gli altri popoli della terra, gli ebrei non dovrebbero fare la loro patria del Paese dove sono nati e dove si guadagnano da vivere?

    La Palestina appartiene agli arabi come l’Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia appartiene ai francesi. È ingiusto e disumano imporre agli arabi la presenza degli ebrei. Cio’ che sta avvenendo oggi in Palestina non puo’ esser giustificato da nessun principio morale. I mandati non hanno alcun valore, tranne quello conferito loro dall’ultima guerra. Sarebbe chiaramente un crimine contro l’umanita’ costringere gli orgogliosi arabi a restituire in parte o interamente la Palestina agli ebrei come loro territorio nazionale. La cosa corretta e’ di pretendere un trattamento giusto per gli ebrei, dovunque siano nati o si trovino. Gli ebrei nati in Francia sono francesi esattamente come sono francesi i cristiani nati in Francia. Se gli ebrei sostengono di non avere altra patria che la Palestina, sono disposti ad essere cacciati dalle altre parti del mondo in cui risiedono? Oppure vogliono una doppia patria in cui stabilirsi a loro piacimento?

    […] Ma messo anche che essi considerino la terra di Palestina come loro patria, e’ ingiusto entrare in essa facendosi scudo dei fucili . Un’azione religiosa non puo’ essere compiuta con l’aiuto delle baionette e delle bombe (oltre tutto altrui). Gli ebrei possono stabilirsi in Palestina soltanto col consenso degli arabi. […] Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della nonviolenza per resistere contro quella che giustamente considerano un’aggressione del loro Paese. Ma in base ai canoni universalmente accettati del giusto e dell’ingiusto, non puo’ essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie.” M. K. Gandhi, Harijan, 26 gennaio 1938

    A parte alcune approssimazioni, come il non considerare che di ebrei in Palestina ce n’è sempre stato un buon numero, e il vedere come religioso il loro volerne il possesso, mi sembra una posizione condivisibile.
    Credo che questo peccato d’origine spiegherebbe tutti i mali che ne son venuti per arabi, ebrei stessi e resto del mondo (complice in un modo o nell’altro).
    Ma non mi interessa considerarmi antisionista. Israele c’è, ora, e non si può tornare indietro. Mi sembra talmente naturale considerare legittima la sua esistenza che non vale la pena perdere tempo a discuterne; anche perchè, dal punto di vista etico, sarebbe un “male” e un’ingiustizia insensati, molto maggiori di quelli avvenuti con la sua nascita, chiedere ora che Israele scompaia.

    Resta aperta la questione di dare una terra o uno stato ai palestinesi. L’ideale sarebbe uno stato binazionale con gli israeliani, ma questo non è contro il presupposto stesso del sionismo? il voler dare una patria agli ebrei, il creare lo “stato ebraico”? Perchè se è ebraico i palestinesi non potranno che essere minoranza e non comandare. Quindi avere uno stato unico binazionale significherebbe perdere la connotazione ebraica, snaturare l’identità di Israele, contraddire le ragioni per cui quello stato è nato. In qualche modo distruggere l’Israele stato ebraico in favore di un Israele non identitario. O sbaglio?
    Questo mi sembra un grande problema su cui discutere.

  27. La mia posizione sulla possibilità di “scivolamento” nella rabbia, come riflesso della frustrazione conseguente al modo in cui è ridotta l’informazione che copre l’area mediorientale (e non solo, ovviamente), non credo sia affatto in contrasto con quanto Galbiati esprime nei suoi due punti: riconoscere i torti e le ragioni “storiche”, ricostruire i rapporti causali con fermezza e senza concessioni alle mezze verità è diverso dall’andare gridando alle manifestazioni “Palestina libera – Palestina rossa”, cosa che intimamente detesto. Cosa voglio dire con questo: che a volte, nonostante la forza delle proprie argomentazioni, basate su fatti reali e toccati con mano, spesso in prima persona e non per delega televisiva, capita di cedere allo “scontro aperto” con il “nemico”, tralasciando tutte le sfumature del caso: è da qui che nasce il fantasma del “male assoluto” come affermava Inglese. Cosa che è anche (e soprattutto) un errore tattico. Io non nascondo che quando Atzmon dice “per me il sionismo è il male assoluto”, intimamente sono con lui. Però in effetti così si corre il rischio di destoricizzare un “fenomeno” al pari di quello che si fa con la Shoah, come giustamente sottolineava Galbiati, specialmente se si usano simili aperture tranchant in contesti “divulgativi”.
    Ora, Galbiati dice giustamente: “Israele c’è, ora, e non si può tornare indietro. Mi sembra talmente naturale considerare legittima la sua esistenza che non vale la pena perdere tempo a discuterne”. Sappiamo tutti che questo ci viene contestato spesso sia da chi è “a favore” di Israele, che tende ad estrapolare dai nostri discorsi ogni possibile assunto che tradisca la non legittimità di Israele, soprattutto quando ci sprechiamo in ricostruzioni storiche che sottolineano come questa fondazione sia avvenuta in maniera non del tutto limpida (come però succede per qualsiasi organismo statale, ovviamente in modi diversi), sia da chi è (tra virgolette) contro Israele, che vedendoci affermare una frase come quella automaticamente ritrova in noi la giustificazione dello staus quo in cui si ritrovano i palestinesi, ovvero in gabbia e senza alcuna “qualifica” da parte della comunità internazionale, anzi, da questa screditati al rango di “umanità di serie b” (nb: non provate a contestarmi questo perchè è inutile prendersi per il culo, almeno qui cerchiamo di non farlo – giochiamo a carte scoperte please).
    Israele c’è, ora, e non si può tornare indietro. Almeno non senza guerra “aperta”, che in questo momento (ma anche sempre) sarebbe perduta.
    Israele può essere visto come un’opportunità e un esempio se si dotasse di una costituzione, e se questa fosse davvero democratica. Per esserlo, la clausola “ebraico” dovrebbe sparire dalla definizione di quello Stato. Questo significa avere una visione “antisemita” delle cose? Significa voler prevaricare il sentimento identitario di una comunità? Io (dico io eh, e penso di essere – entro i miei limiti – nel giusto) non credo: si può essere ebrei nella terra dei padri senza doverlo imporre al resto del mondo, e soprattutto senza dover autoconfinare pubblicamente l’identità ebraica ad un pezzo di terra. E’ riduttivo vincolare il modo in cui la mia (sofferta) storia mi definisce a dei criteri di classificazione che lasciano il tempo che trovano. E non capisco come questa semplice constatazione debba essere sempre interpretata in cattiva fede.
    Certamente, come notava ancora Galbiati, contestare a Israele la clausola “ebraica” significa “snaturarne” i motivi fondativi. Tralascio qui le considerazioni relative al fatto che quei “motivi fondativi” nascono in un contesto più “artefatto” di quanto non ci venga più e più volte raccontato in una ricostruzione mitica della storia: per spiegare quegli avvenimenti al di là del barocchismo eroico dei primi sionisti ci hanno già pensato alcuni degli autori indicati nella lista.
    So che ora contestare quella qualifica “identitaria” (e faccio un abuso di questo termine perchè è ormai impossibile parlare di “etnica” o “confessionale”) alla definizione dello Stato di Israele – che allo stesso tempo si qualifica, contraddittoriamente, democratico – mi appare come l’unica, e sottolineo unica, possibilità di allontanare il conflitto da quella regione. Senza dubbio è la meno ipocrita delle possibilità. Alternative non ne vedo.

  28. I firmatari non appartengono ad un’unica fede e partito, ma sono persone che hanno storie e percorsi diversi, e che hanno voglia di ragionare su una questione importante. Peccato che tanti scrittori e intellettuali, dopo l’agitazione mediatica pro- o contro- Fiera, siano svaniti come neve al sole.

  29. “Israele c’è, ora, e non si può tornare indietro. Almeno non senza guerra “aperta”, che in questo momento (ma anche sempre) sarebbe perduta.”

    Da pacifista, tendo a non amare la guerra ed i nazionalismi. Da persona abituata a spaccare in quattro il capello, però, proprio perché sono un pacifista questa frase non mi convince. No alla guerra aperta, perché sarebbe perduta? Io avrei scritto no alla guerra, né aperta né a bassa intensità, perché è sbagliata. E se fossi stato nei palestinesi, invece che con la guerra, la demonizzazione e la violenza avrei cercato di far valere sin da subito le mie ragioni con i mezzi di Gandhi. Oggi la situazione sarebbe diversa, e entrambe le parti avrebbero uno stato.

    Quell’altra persona che si chiede se gli ebrei una volta ottenuto lo stato nazionle per questo sarebbero disposti a rinunciare alle loro cittadinanze europee, si chieda se sarebbe giusto porre alla nota popstar Madonna Sciccone o al notissimo attore Roberto De Niro quell’opzione. Ora avete l’Italia: ve l’abbiamo liberata noi dal nazifascismo. Ooop sù, fate i bagagli e tornate a casa vostra. Invece, in molti stati esiste l’istituto della doppia cittadinanza. E comunque porre il problema nel modo più sopra significa stabilire un criterio per il quale gli ebrei, in quanto potenziali cittadini di Israele, sono effettivamene già tutti cittadini di Israele. Gheddafi espulse tutti i libici di religione ebraica proprio seguendo quel ragionamento.

  30. A scanso di equivoci, e per non sentirmi eventualmente rispondere su questo e non nel merito, la questione della doppia cittadinanza per gli ebrei viene furi da un brano citato di Gandhi. Il fatto che venga citato, credo, lascia supporre che chi lo cita sia d’accordo. Ho hanche sbagliato l’ortografia di Madonna Ciccone, non “Sciccone”. Grazie per l’attenzione.

  31. #itzik
    I “mezzi di Gandhi” e la Palestina.
    Circa due anni fa, qualche mese dopo la vittoria (scontata) di Hamas alle politiche, al Prof. Michelguglielmo Torri (ordinario di storia moderna e contemporanea dell’Asia all’università di Torino, e autore di una “Storia dell’India” molto nota e ristampata di recente da Laterza) venne detto, in una lista di discussione sul medio oriente, che le conclusioni da trarre in merito alle “strategie dei palestinesi” fossero le seguenti (cito integralmente):

    a) la lotta non violenta è, per i palestinesi, il metodo migliore per avviare le trattative;
    b) la non accettazione del metodo non violento da parte di Hamas rende impossibile l’avvio delle trattative e, oggettivamente, gioca a favore dei falchi israeliani;
    c) Hamas, nel non accettare il metodo non violento, di fatto tradisce i palestinesi, che vogliono la pace «anche se il ritorno alle frontiere del 1967 è un’utopia».

    La risposta del professore fu talmente puntuale e lucida che decisi di pubblicarla su un mio blog: se vuoi, puoi leggerla ancora qui.
    Corrisponde più o meno a quello che penso, ancora oggi, in merito alle strategie non violente, ovvero:
    1. che queste sono già state utilizzate dai palestinesi
    – […] i palestinesi hanno già fatto ricorso alle strategie non violente. Perché credo che nessuno possa negare che, per una ragione o per un’altra (in altre parole, non in seguito ad una teorizzazione lucida, come quella alla base della non violenza gandhiana, ma costrettivi dalle circostanze, come i patrioti indiani al tempo del movimento swadeshi), i plaestinesi dei territori occupati basarono la prima intifada su tecniche d’azione non violenta. Il che, quindi, significa che la domanda di Zinni e la proposta di Secco Suardo hanno già avuto una risposta concreta a livello storico. Qual è questa risposta. La risposta è che l’azione non violenta dei palestinesi suscitò sì un’ondata di simpatia nei loro confronti in Occidente e creò sì delle fratture interne nella stessa diaspora ebraica, ad incominciare da quella americana, ma che questo non comportò nessun vantaggio per i palestinesi. La verità è che il governo israeliano continuò la propria repressione, affinò le proprie tecniche e, di fatto, intorno al 1990 represse la rivolta (come, del resto, avevano sempre fatto gli inglesi nei confronti dei movimenti non violenti gandhiani). –

    2. che, allo stato attuale delle cose, sono inutilizzabili e inefficaci così come tutte le strategie di attacco
    – […]dati alla mano, in questo momento storico, i palestinesi non hanno nessuna possibilità di difendere i propri diritti, né con il ricorso alla violenza (che è fallita), né con il ricorso alla non violenza (che, di nuovo, è fallita), né con il ricorso alle trattative (dato che per trattare – cosa in sé non facile – bisogna essere in due, mentre i palestinesi sono sempre stati da soli). –

    Consiglio a tutti la lettura integrale di quella vecchia, ma ancora valida, risposta di Torri.

  32. Prendere a sassate delle persone diventa violento a partire da quale dimensione del mattone? C’è anche da dire che la prima Intifada avviene in territori occupati militarmente dagli israeliani in seguito ad una guerra, e che nello stesso momento lo statuto dell’OLP (che rivendicò la guida di quel movimento) prevedesse la distruzione dello Stato di Israele. Quindi, forse le autorità mlitari, che in genere non sono solite ragionare in maniera sottile, non si accorsero della natura nonviolenta degli scontri.

    Vorrei anche mettere in contesto temporalmente quel momento, con un prima di guerre ed un dopo di guerre. O adesso si vuole dire che da sempre l’atteggiamento arabo nei confronti di Iraele ia stato nonviolento, e Israele ha fatto finta di non vedere?

  33. >O adesso si vuole dire che da sempre l’atteggiamento arabo nei confronti di Israele sia stato nonviolento, e Israele ha fatto finta di non vedere?

    Nessuno ha detto questo, così come l'”atteggiamento arabo” di quel passato non collima con l’eventuale “atteggiamento palestinese” degli anni ottanta.
    Per maggiore chiarezza, non basarti sulle citazioni di quella risposta che ho riportato, comunque strappate al contesto nel quale Torri le aveva inserite. Leggiti, per favore, il testo integrale prima di trarre conclusioni che includano peso, colore e gittata dei mattoni.
    Poi, per favore, tutto questo prende una deriva decisamente OT rispetto alla nostra lista: cerchiamo di rimanerci almeno un po’, in tema dico.

  34. assolutamente, ho letto già e ci sarebbero altre cose che vorrei dire, ma finiremmo OT. Se ne potrà parlare un’altra volta, e di nuovo grazie per l’attenzione.

  35. ISRAELE RIGETTA IL MONDO ARABO

    Intervista a Michel Warschawski
    di Geraldina Collotti – il Manifesto
    Pubblicato mercoledì 16 Agosto 2006

    Raggiungiamo a Gerusalemme l’analista politico Michel Warschawski, 57 anni, uno dei maggiori esponenti della sinistra radicale israeliana.

    D. Lei è stato fra i primi israeliani a rifiutarsi di prestare servizio militare fuori dai confini e per questo, durante la guerra in Libano dell’82 è stato più volte in carcere. Qual è la sua analisi oggi?

    R. Non si può comprendere questa guerra d’aggressione contro il Libano, né l’accanimento contro i palestinesi, in particolare a Gaza, fuori dal contesto della guerra permanente e preventiva intentata dai neoconservatori di Washington a livello mondiale e fatta propria da Tel Aviv. L’obiettivo è quello di imporre l’egemonia nordamericana nella regione a scapito di regimi come Siria e Iran e organizzazioni politiche di massa come Hamas e Hezbollah, identificate come terroristiche. Ma questa guerra è stata anche un laboratorio, in termini di strategia, tattica, e sperimentazioni di armi che Israele ha ricevuto in questi anni da Washington: anche armi sconosciute, come abbiamo appreso dal manifesto.

    D. Nell’82, in Israele ci fu un forte movimento di opposizione alla guerra. Qual è invece la situazione oggi?

    R. Anche oggi il movimento contro la guerra è attivo, ma purtroppo è minoritario, non riesce a esercitare egemonia. Al massimo mobilita 5-6.000 persone. Al suo interno, ci sono forze di sinistra o di estrema sinistra. La maggioranza ha meno di 25 anni. Sono quelli che si sono mobilitati nel corso di questi ultimi anni contro l’occupazione, che non hanno creduto alla propaganda secondo cui il processo di pace sarebbe fallito per colpa del ‘terrorismo palestinese’, che hanno compreso la strategia di neocolonizzazione messa in atto dal governo. Sono quelli che si sono opposti alla costruzione del muro, alla repressione nei territori occupati, e che oggi costituiscono la colonna vertebrale del movimento antiguerra. Ma fra questi giovani e la mia generazione, quella dei militanti che si sono opposti alla guerra in Libano nell’82, c’è un buco generazionale. Il movimento contro la guerra, che era riuscito a farsi sentire davvero nell’82 e anche nell’88, durante la prima intifada, in gran parte oggi sostiene ufficialmente la politica del governo: sostiene quella che percepisce come una guerra di autodifesa. Il discorso secondo cui c’è una minaccia del terrorismo islamico che incombe sulla democrazia, è ormai maggioritario, ha distrutto quella grande opposizione alla guerra, la sua efficacia e la sua capacità di produrre egemonia in Israele. Oggi la maggioranza della società vede nell’esercito l’ultima difesa contro un nuovo giudeocidio. Alcune delle unità combattenti più prestigiose, assomigliano ormai agli squadroni della morte, specializzati come sono nelle cosiddette uccisioni mirate, ma la domanda per entrare a farne parte è altissima.

    D. Perché la società israeliana ha voltato le spalle alla pace? Le rivolgo una domanda che ricorre nei suoi ultimi libri: Sulla frontiera, edito da Città aperta; Israele-palestina, edito da Sapere 2000; A precipizio, Bollati Boringhieri…

    R. Da anni è in corso in Israele una massiccia campagna per convincere la società che la pace è un’illusione e che occorre tornare al cosiddetto spirito del ’48. Una vera controriforma su tutti i piani (culturale, ideologica, giuridica e istituzionale), che, dopo l’11 settembre, ha incontrato e inglobato la teoria dello scontro di civiltà e la retorica della guerra al terrorismo. Alle ragioni geostrategiche di controllo del territorio e di annessione continua dell’intera Palestina storica, si è aggiunto un altro elemento: a partire dell’11 settembre, anche la stragrande maggioranza della sinistra moderata, quello che per voi è il centrosinistra, pensa che ci sia una civiltà minacciata dai barbari e che occorra difendersi. Si crede l’avamposto della civilizzazione nel cuore del mondo arabo, l’ultimo baluardo in seno alla barbarie: questo è il discorso che è passato.

    D. E non riscontra un atteggiamento speculare anche in certi settori dell’islamismo radicale?

    R. Non sono d’accordo. Ascolto con molta attenzione Nasrallah e, come altri commentatori in Israele, constato che i suoi discorsi sono pacati e di grande responsabilità: tutto il contrario dell’occidente che si pretende baluardo di civiltà e che invece trasuda retorica fondamentalista. Sembra di assistere a un capovolgimento di valori: il campo laico che si abbandona al fanatismo, e quello religioso che, anche se parte da una diversa concezione, fa di tutto per non pronunciare discorsi confessionali.

    D. Nei suoi libri lei parla di disumanizzazione dei palestinesi e degli arabi da parte di Israele. Cosa intende?

    R. Con l’11 settembre c’è stata una svolta. Fino ad allora, i palestinesi venivano percepiti come nemici con cui si aveva una divergenza profonda, soprattutto per via della violenza, ma si dava per possibile che la questione potesse essere affrontata, che si dovesse arrivare a una qualche trattativa concreta. Aver assunto il discorso dei neoconservatori americani, ha spinto Israele a un cambiamento qualitativo: da nemici che erano, i palestinesi si sono trasformati in minaccia. E una minaccia non è più identificabile in un contenzioso concreto e in un nemico concreto, incombe e basta e ci si deve difendere. “Israele è una villa nel cuore della giungla”, ha detto qualche anno fa Ehud Barak. Si può mai intrattenere rapporti con la giungla? Questo discorso domina e guida la politica israeliana e la gran parte dell’opinione pubblica.

    D. Scomparsa l’Unione sovietica, si ha bisogno di un altro Impero del male?

    R. E’ evidente che con la scomparsa del nemico globale che minacciava il cosiddetto mondo libero, e cioè l’Urss, e con l’azzeramento del processo di pace con i palestinesi, si è dovuto rimpiazzare il vuoto con una minaccia apocalittica. Non a caso, riferendosi ad Al-Qaeda si parla di nebulosa: un mostro immateriale. Una guerra, quindi, che non si può mai vincere perché il nemico è un fantasma che non può essere identificato. Solo che la guerra è reale e fa disastri concreti. Anzi, innesca un meccanismo difficilmente controllabile, capace di creare da sé la minaccia ancora prima che si presenti. In Israele, questo meccanismo si innerva su un inconscio collettivo marcato da un genocidio che è ancora recente, perché sono passati appena 60 anni, e che rapidamente traduce ogni problema politico concreto in minaccia esistenziale. Non è infatti razionale credere che qualche razzo di Hezbollah possa preoccupare davvero una grande potenza militare come Israele, al massimo può portare a un certo livello di destabilizzazione, ma certo non minaccia l’esistenza del popolo ebreo come ha sostenuto il primo ministro israeliano. Però, la propaganda porta a leggere il presente e la storia come un immenso pogrom che continua da millenni e per cui non ci si può mai fermare: una dinamica di guerra infinita. Siamo sull’orlo del baratro e ne stiamo avendo un assaggio.

    D. Il suo libro A precipizio, La crisi della società israeliana, è dedicato a due comunisti tedeschi, trasferitisi in Israele per fuggire al nazismo. Due militanti anticolonialisti. Perché ha fallito quella generazione di comunisti in Israele?

    R. Micha e Trude hanno trovato rifugio in Palestina un po’ loro malgrado, pensavano di tornare indietro dopo la liberazione dal nazifascismo, ma poi sono rimasti. Da loro, impermeabili a ogni forma di trialismo, ho appreso che l’internazionalismo e l’impegno comunista sono maniere di essere cittadini del mondo. Erano migliaia i comunisti che, prima del ’48, si sono scontrati con una realtà coloniale che gli ha lasciato poco spazio: non erano aggrappati all’identità ebraica, ma non erano arabi. E gli arabi, anzi, li identificavano col campo avverso. E’ la logica perversa dei conflitti nazionali. Ti ritrovi tuo malgrado nei quartieri bombardati dagli arabi, o viceversa: ci vuole una grande convinzione per prendersi le bombe e dire: io sono altro da questo.

    D. Lei pensa in questo modo, ma continua a vivere a Gerusalemme. Perché?

    R. Ancora di recente, durante una manifestazione contro la guerra, sono stato aggredito dagli estremisti religiosi. Ma ogni cedimento sarebbe una tragedia per i nostri figli. La politica di guerra dei dirigenti israeliani porta alla catastrofe, e chiude le porte alla possibilità di una coesistenza nazionale con i palestinesi. Ci fanno odiare dagli arabi perché, pur vivendo in una regione araba, Israele rigetta il mondo arabo. Bisogna essere pazzi per credere che possiamo imporre la nostra esistenza in questa regione e contro il mondo arabo.

    D. In un volume edito da Sapere 2000, Israele-Palestina, la sfida binazionale, lei – riferendosi a lontane esperienze intercomunitarie tra ebrei e musulmani, auspica un nuovo sogno Andaluso per il XXI secolo. Che cosa intende?

    R. Una comunità può vivere e pensarsi in relazione con l’ambiente umano che la circonda, oppure in autarchia. Io penso che tutto ciò che è autarchico impedisca ogni sviluppo e marcisca. Accade così a Israele, che ha scelto di vivere in autarchia, in una specie di ghetto armato in pieno Medioriente, cioè in opposizione al contesto. Uno dei compiti degli intellettuali – che oggi, purtroppo, sono completamente preda della sindrome da assedio – è di far capire questo alla gioventù israeliana, insegnare nelle scuole che le più belle pagine degli ebrei nel mondo sono quelle in cui hanno arricchito e si sono arricchiti della cultura del posto. In particolare, in Andalusia, in quella che chiamiamo l’età d’oro degli ebrei, quando la cultura musulmana e quella ebraica, e in misura minore quella cristiana, convivevano in un dialogo proficuo che ha portato al massimo sviluppo il Medioevo. E’ stata poi la Riconquista che, dopo la caduta di Granada nel 1487 ha distrutto tutto. Le pagine di questa storia non si insegnano in Israele, farle conoscere, invece, serve a dimostrare che la convivenza tra giudei e musulmani è stata possibile e reciprocamente feconda.

    D. Cosa dovrebbe fare Israele per invertire la rotta? R. Intanto, applicare le numerose risoluzioni dell’Onu, tutte disattese. Mettere fine all’occupazione. Costruire legami di coesistenza con i palestinesi e con la regione in cui si trova, non fare l’apripista per le politiche nordamericane. Sul piano politico, dovrebbe trasformarsi da stato ebraico a stato di tutti i cittadini, separare religione e Stato, statalizzare la terra e finirla con le discriminazioni etniche. Sostituire la Legge del ritorno con una legislazione che consenta il ricongiungimento familiare e l’immigrazione di tutti, a cominciare dai profughi palestinesi. Prevedere forme di autogestione che garantiscano l’espressione delle diversità, in primo luogo quella dei palestinesi.

    D. Nei suoi libri, lei paragona il processo di Oslo a una sorta di compromesso storico che non ha funzionato. Quale via rimane oggi ai palestinesi?

    R. Siamo in un complicato periodo di transizione. Se mi avesse posto la domanda qualche anno fa le avrei detto: qualunque sia la soluzione a lungo termine, a breve termine, deve passare per la costruzione di uno stato palestinese e la fine dell’occupazione, la decolonizzazione della Cisgiordania, uno stato palestinese a fianco di quello israeliano, e un lavoro per arrivare a una forma di coabitazione più stretta. Ma ora, dopo la distruzione sistematica nei territori occupati, che da cinque anni Israele persegue, e l’accanimento degli ultimi mesi contro il popolo palestinese, ho molte difficoltà a rispondere. Cosa fa la l’Europa perché i palestinesi abbiano una terra? Cosa fa l’Italia ora che c’è un governo di centrosinistra? Molto meno di quanto facevano i governi democristiani. Per ora, quindi, vedo un unilateralismo totale che mira a chiudere la partita con una seconda nakba. Secondo la politica dello stato israeliano, esiste un solo popolo, quello ebreo, e un problema: quello palestinese.

  36. Posto anche qui la risposta che ho dato a diego nel mio blog sulla polemica dei veti ecc. ecc.

    diego l’ironia in rete non è cosa semplice, spesso arriva più violenta che ironica, è cosa che sappiamo bene tutti anche se non sempre siamo in grado di controllare lo strumento. Ad ogni modo la categoria *mi piace*, *non mi piace* è abbastanza puerile (più che ironica) ed è difficile farla passare per parametro culturale o politico ;-).
    Detto questo veti o non veti, incrociati o allineati, la vostra iniziativa, come ho detto fin dall’inizio, mi lascia alquanto perplessa.
    E’ interessante perchè serve a far circolare molti intellettuali israeliani non sempre conosciuti dal grosso pubblico, anche della rete (anche se in rete, alcuni sono abbastanza inflazionati), quindi seguo con interesse e curiosità la vostra iniziativa, però non ne capisco ancora l’utilità legata ai due saloni del libro.
    Il vero problema è l’esclusione della cultura palestinese (sia interna ad israele, che nei territori, che nella diaspora) e non dei dissidenti israeliani. La cultura è cosa importantissima per l’identità e la sopravvivenza di un popolo (soprattutto quando questo è privo di strutture statali), e non esiste dissidente esterno che la possa sostituire, quindi è sulla cultura palestinese che va accentrato l’interesse, soprattutto in occasione di questi due saloni altamente discriminatori.
    I palestinesi hanno sviluppato in questi anni (dalla nakba in poi) una cultura di alto livello, che viene totalmente silenziata, perchè mai risarcirli solo facendo parlare le voci, anche se dissidenti, dei soli israliani? Insomma ‘sto popolo che deve mettere i propri risparmi nelle banche israeliane, usare la moneta israeliana, essere sottomesso ai governatori israeliani, ecc. ecc. perchè mai deve affidare anche la propria identità culturale alle sole voci degli israeliani?
    E’ cosa che proprio non capisco, anche se non ne nego l’utilità.
    Molto più utile far circolare la poesia di Darwish (e molti altri) che rendono veramente grandi i palestinesi. Dice Darwish: nessuno popolo è più piccolo del suo poema.
    Più grande sarà il poema e più grande diventerà il popolo. Questa è la grande resistenza dei poeti palestinesi in nulla minore (anzi direi di gran lunga maggiore) di quella politica.
    geo

  37. Salve Georgia,
    se vuoi continuare una polemica – per me – inesistente non sarò certo io ad impedirtelo.
    >Ad ogni modo la categoria *mi piace*, *non mi piace* è abbastanza puerile (più che ironica) ed è difficile farla passare per parametro culturale o politico ;-)

    Oltre al “non mi piace” ho spiegato proprio qui perchè io (e sottolineo “io“, cioè solo io, senza imporre nulla ad alcuno, non avendone né mezzi né voglia per farlo) non ho incluso, tra gli autori che mi sono scelto, Avnery. Non vedo perchè dovrei ripeterlo ancora: la mia è stata una specifica infelice/inutile/fuori luogo? Ho voluto mettere in chiaro la mia posizione su quell’autore (e indirettamente sulla questione doppio/unico Stato), anche per sottolineare come a me non fosse sfuggito: ho citato, linkato e riportato spesso articoli di Avnery, che è comunque una persona che stimo, su un mio vecchio blog, ma no l’ho voluto includere tra gli autori che mi sono scelto per quanto spiegato sopra. Poi se avere gusti personali, oltre ad averli motivati anche dal punto di vista “politico”, è da considerarsi “puerile”, ben venga. Non so davvero che dirti.

    La seconda parte di quello che scrivi qui poi mi sfugge ancora di più, specie se riferita a me personalmente: mi ribadisci cose assurde come se io (io!) volessi “ignorare” gli scrittori o la cultura palestinese! Come ben sai, questa lista nasce da un proposta: se hai letto quella proposta, saprai anche qual’è il motivo strategico per cui è stata fatta questa selezione – che avrebbe avuto senso solo selezionando autori israeliani.
    Tu mi dici una cosa del genere:
    – i palestinesi hanno sviluppato in questi anni (dalla nakba in poi) una cultura di alto livello, che viene totalmente silenziata, perchè mai risarcirli solo facendo parlare le voci, anche se dissidenti, dei soli israliani? Insomma ’sto popolo che deve mettere i propri risparmi nelle banche israeliane, usare la moneta israeliana, essere sottomesso ai governatori israeliani, ecc. ecc. perchè mai deve affidare anche la propria identità culturale alle sole voci degli israeliani? –
    implicitamente accusando me/noi di ignorare questo fatto, ma in realtà sembra un gioco tra sordi: la proposta nasceva proprio dal cercare una nuova posizione da cui far arrivare una problematica in un luogo apparentemente ideale per farlo… in cui però non sarebbe mai arrivata (e nel quale comunque non arriverà)!.
    Se non si è capito questo, che dirti, ho fallito. Nessuna pretesa da parte nostra di “affidare anche la propria (dei palestinesi) identità culturale alle sole voci degli israeliani”: sono israeliani che parlano di israeliani, delle contraddizioni interne ad Israele, non (solo) dei palestinesi! Era proprio, anzi, per evitare di strumentalizzare ancora i palestinesi che s’era fatta questa scelta, oltre al motivo prettamente strategico.
    Per quanto riguarda me (me!) poi, aggiungo e chiudo, il discorso fatto sull'”identità culturale” israeliana vale anche per quella palestinese: sarei disonesto a fare altrimenti.
    E, non ti nascondo – anzi devo dirtelo – tutto il resto mi sembra solo grassa retorica.
    Saluti.

  38. ok, ok, ok
    Credevo si fosse capito che non volevo continuare una polemica personale che NON mi interessa poi molto, ma parlare di cose molto più serie :-) … che tu definisci grassa retorica (sic) … ad ogni modo …
    … su una cosa hai perfettamente ragione tu: è un discorso fra sordi, anche perchè le mie orecchie quando sentono “motivo strategico” si chiudono automaticamente :-)
    buon lavoro vi seguirò con immutato interesse
    geo

  39. Sfogliando il blog di arial mi sono imbattuto in un’altra autrice che andrebbe inserita nella lista: mi riferisco a Idith Zertal, storica israeliana “revisionista” di cui è di recente uscito un libro per Einaudi, “Israele e la Shoah”.
    Sulle tracce della Arendt, la Zertal analizza il ruolo effettivamente fondativo che la Shoah ha avuto nel processo di genesi dello stato Ebraico.
    In una bella recensione di Enzo Traverso su il manifesto, il nocciolo del testo viene esposto così:
    – Israele, spiega Zertal, è l’erede della Shoah, non foss’altro per il fatto di aver offerto un rifugio ad alcune centinaia di migliaia di superstiti del genocidio nazista. Nel corso degli anni, tuttavia, esso ha ridefinito la sua identità facendosi di volta in volta rappresentante, difensore e, in ultima istanza, redentore delle vittime dell’Olocausto. L’evento tragico che ne ha permesso la nascita è diventato la sua principale giustificazione storica e, una volta inscritto nel disegno provvidenziale del suo messianismo, il pretesto inattaccabile costantemente invocato per legittimarne gli atti sia politici che militari. L’Olocausto, in altre parole, è stato oggetto di una costruzione della memoria che ne ha fatto la matrice di una religione politica: il nazionalismo israeliano. –
    E’ da notare come il titolo originale del testo (Death and the Nation) fosse molto più incisivo rispetto a quello scelto per la versione italiana.
    L’ultimo libro pubblicato dalla Zertal, in collaborazione con il giornalista Akiva Eldar, è “Lords of the Land: The War for Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007”, uno studio sull’illegalità delle colonie nei Territori Occupati.
    Non ho idea se l’autrice sia stata o meno invitata alla fiera.

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Kwibuka. Ricordare il genocidio dei Tutsi.

di Andrea Inglese
Ieri, 7 aprile, si è tenuta a Kigali la trentesima commemorazione dell’ultimo genocidio del XX secolo, quello perpetrato tra il 7 aprile e il 4 giugno del 1994 da parte del governo di estremisti Hutu contro la popolazione Tutsi e gli oppositori politici Hutu.

Sulla singolarità. Da “La grammatica della letteratura”

di Florent Coste
Traduzione di Michele Zaffarano. I poeti, così drasticamente minoritari, così lontani e così persi nelle periferie di questo mondo, come si collocano, i poeti? Contribuiscono con forza raddoppiata al regime della singolarità o, al contrario, operano una sottrazione basata sulla riflessione e resistono?

Benway Series

Risposte di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli
... ci concedemmo la possibilità di cercare altre scritture c.d. “di ricerca” consimili, soprattutto al di là della lingua italiana, e di pubblicarle in Italia in un contesto che non era così ricettivo rispetto a tali opere.

Da “I quindici”

di Chiara Serani
Allora le Barbie cominciarono a lacrimare sangue rosso pomodoro (Pantone Red HTK 57, It's Heinz!) come una Madonnina qualsiasi.

Collana Adamàs, La vita felice editore

Risposte di Vincenzo Frungillo
Continua la nostra inchiesta sull'editoria indipendente di poesia. Si parla della collana Adamàs.
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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