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Turritani

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di Giovanni Cossu

Anche se a dire la verità, non tutta la vita di Titto trascorreva tra la casa e la mescita.
Anche lui coltivava le proprie lattughe, come si sarebbe detto, con espressione idiomatica, in quella terra, Turritania, chiusa, a sud, tra gli orti che circondavano il ricco capoluogo, Tattari, il cui nome sembrava trarre significato, a detta di alcuni, da un’originaria occupazione del luogo da parte di certe popolazioni tartare, ma che in seguito, per un’inopinata civilizzazione, a detta di altri, si era trovato a perdere, stando almeno alla lettera, assieme all’originaria fierezza, anche la r, e, ad est, le vigne di male amati cugini, di cui si diceva che non tanto per ragioni storiche, e attualmente economiche, coltivassero quella pianta dagli oscuri quando non del tutto chiari e rigogliosi grappoli, ma per poter nascondere, dietro gli indubitabili effetti di una non moderata ingestione dei succhi fermentati di questi, una loro genetica mollezza di cervello, escogitando a questo fine la stessa denominazione del paese, che proprio con la determinata rimozione dell’articolo – determinato o indeterminato che fosse, ma piú indeterminato che determinato nella sua assenza – lasciava intendere, nella sua reiterata affermazione letterale: Sorso… Sorso… Sorso…, esattamente quello che speravano gli altri bevessero, e cioè che in quello, e solo in quello, si trovava il segreto dell’idiozia collettiva di cui da sempre era stati accusati da parte dei circonvicini parenti.

Ad ovest invece, da una vera e propria terra di desolazione, affidata alle incurie dei pochi contadini che avevano avuto il coraggio di andarvi ad abitare, e il cui aspro dialetto, unito a un comportamento scostante e ad atteggiamenti altezzosi, del tutto giustificati, a parer loro, da un’indomita primitività di carattere, sembrava servire solamente ad eludere ogni tipo d’indagine che li riguardasse. Indagine comunque pericolosa per loro, e tale da poter mettere in forse la loro stessa sopravvivenza, segnalando allo Stato le loro effettive condizioni di vita, per poi pretendere, in tasse, piú di quello che loro tutti riuscivano a mettere assieme in un’intera annata. Poiché a precisa domanda sui loro possidenti rispondevano in modo ossessivamente indistinto: nulla. Che nella forma precisa della loro parlata prendeva tono di: nurra. Termine che a causa della laconicità stessa del loro comunicare era diventato, poi col tempo, ed essendo l’unico da loro pronunciato, quello che designava la terra stessa. Con quale gioia, c’è da immaginarselo, da parte di quei poveri contadini, che si videro imporre immani balzelli da parte di solerti funzionari statali che sempre piú assiduamente presero a frequentare le loro miserevoli case. Facendo sempre la stessa domanda e ricevendo sempre la stessa risposta.
Fatto di cui ancora non riescono a capacitarsi, ma non del tutto nuovo nella storia dell’uomo e delle terre e degli animali, perché anche a lasciar perdere quello che aveva in mente Adamo, quando questi nominò in presenza del Signore nel Paradiso Terrestre, ben piú vicino a noi era capitato ad un certo esploratore, che difettando di conoscenza, e volendo appurare di che razza fosse quello strano animale che scorrazzava per le deserte pianure australiane, nient’altro di meglio aveva trovato che chiederlo, con insistenza, ai primitivi del posto, ricevendone sempre la stessa risposta: kanga roo, ma che non tanto ‘canguro’ significava quanto ‘capisco no’.

Ultimo limite di Turritania, a nord, era il mare. Al centro di uno splendido golfo dal quale la pressoché totalità della popolazione traeva i propri sostentamenti, scarsi. Alcuni con la pesca, gli altri caricando e scaricando quel poco che c’era da caricare e scaricare nelle e dalle poche navi che vi si avventuravano per poi approdare, e poi ancora, volgendo le poppe davanti alle facce stuporose dei pochi misantropi che dopo averci lavorato tutto il giorno ne facevano del porto anche meta della passeggiata serale, andarsene, verso il tramonto, immergendosi in quella liquidità luminosamente rosata e struggente che non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di dilacerare l’anima del ragazzetto, Me Lasso, ma non ancora, essendo di là da venire, Gio’condo, capitato a due passi da quelli, seduto sul ciglio della banchina, a tentare con esca e amo gli ultimi
ritardatari sparaglioni, e sparato lui stesso in qualcosa che ancora non avrebbe saputo come definire, quando il numero giusto di gabbiani, spargendosi in quelle due mezze corone di cielo e di mare, nella sua giustappunto ancorché disarmonica dispersione, non lo metteva in contatto con qualcosa di simile a quello che, solo piú tardi, avrebbe trovato descritto nell’ultima cantica della ‘Commedia’ di Dante.
Decidendo pertanto, per quanto fosse da decidere, che il suo destino, oltreché di poeta, sarebbe stato quello di un affermato, e rispettato, titolare di azienda di costruzione di ascensori elettronici, multiuso e montacarichi, e che quindi, a suo tempo, la scelta obbligata sarebbe stata quella di una facoltà meccanica.
Ma ancora il tempo per questo era da darsi.

[…]

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4 Commenti

  1. Nulla sapevo di Giovanni Cossu e di Turritania. Apprendo da questo, che sembra il frammento di un insieme più vasto, che la Turritania anela a una qualche prossimità con il Parapagal, e che Cossu bramerebbe una parentela con Gadda. La parentela, se c’è, va posizionata su un legame di sangue più che su di una affinità somatica. Comunque, da quel po’ che se ne intuisce, più degno lo pseudo-Parapagal che non tanti altri luoghi pseudo-letterari alla moda. Sono sorpreso che i commenti restino prossimi a zero.

  2. Come sappiamo c’è una Sardegna trasfigurata che da qualche anno spunta da tutte le parti nella narrativa italiana (con tutto il suo corredo di fantatoponomastica, lingua e dialetto, arcaismi e banditismi, sogni e bisogni). Recentemente, con Capitta, l’ultimo Soriga e il bravo De Roma, si sconfina nella contemporaeità e molti autori stanno pubblicando anche in Francia, con Gallimard e altri editori.
    Perciò, dopo questo esiguo assaggio, cercherò di sapere qualcosa di più del mio concittadino (credo) Giovanni Cossu (la sua Tattari/Sassari invece, e il suo creolo dialetto, mi circonda da cinquant’anni).
    Saluti all’autore e a tutta NI
    Antonio

  3. Stamane, le cose hanno iniziato a farsi divertenti.
    Niky Lismo le infila tutte in un sol colpo.
    Anche se necessitano precisazioni.

    1. Che Gadda sovrasti è indiscutibile [un saggio sulla letteratura italiana del ‘900, di cui purtroppo non ricordo né autore né titolo lo presentava così:”più in alto e discosto da tutti”]. Ma è “Turritani” che mi ci fa arrivare. Alcuni capitoli di questo che è un lungo racconto sono infatti incorniciati da epigrafi tratti dalla “Cognizione”. E furono allora frutto di letture che inaugurarono una ormai più che ventennale frequentazione
    del “Sublime C.E.”

    2. E’ impreciso però dire che Turritania aneli a una qualche prossimità col
    Parapagàl. La verità è che Parapagàl e Maradagàl sono, loro, già all’origine Turritania.
    Nemmeno Emilio Manzotti se n’è accorto nel suo pregevolissimo commento della “Cognizione del dolore”.
    Ne fanno fanno prova – che la Sardegna rappresenti il terzo strato misconosciuto della costruzione, con Brianza e Sud America – certi nomi
    come Iglesia. Ma in modo decisivo “le aragoste di Forte de Rey”, che nelle “Lettere alla sorella” trovano la loro precisa collocazione: Carloforte
    – meta di una gita di Gadda nel settembre 1920 – prima, per la provenienza, ma mangiate poi a Cagliari.

    Mi meraviglia che mai nessun sardo si sia presa la briga di ricostruire puntualmente i mesi vissuti da Gadda, nel 1920, tra Cagliari e l’Iglesiente. Io l’ho fatto parzialmente, in mancanza di documenti e solo sulla scorta del pubblicato, ma sono sicuro – e l’ho scritto in poche pagine che circolano da tempo tra i miei pochi amici lettori – che la Sardegna per la genesi della “Cognizione” sia molto più importante del Sud America.

  4. Dimostrare, per deduzioni o per approssimazioni, che nella Cognizione stia scritta la Sardegna, vale una “ragione di vita”. Auguro a Cossu di spenderci l’esistenza: mi pare una dedizione affascinante.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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