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Processo a Dio

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di Giuseppe Rizzo

Capelli di donna. Biondi, scuri, grigi, secchi. Ossa. Femori, clavicole, crani. Denti. Di adulti, di bambini. Valigie. Vestiti. Scarpe, libri, collanine, anelli. Centinaia di lettere mai spedite. Fascicoli. Schedari, numeri. Report di esperimenti. (Tagli coscia destra, soggetto morto per dissanguamento. Ripeti).
Questo è il mondo del padiglione 41 del campo di concentramento nazista di Lublino-Maidanek fino al momento della liberazione. Un secondo dopo, è un’aula di tribunale dove il catalogo di aberrazioni diventa materia di accusa. Vi si aggirano Elga Firsch, altri quattro sopravvissuti alla soluzione finale, e un unico imputato. Elga Firsch sostiene l’accusa; il rabbino Nachman, la difesa; i vecchi saggi Solomon e Mordecai sono i giudici e il giovane Adek è l’estensore degli atti del processo. L’imputato è il comandante delle SS Rudolf W. Reinhard. Dio. Così come si era definito lui stesso quando il campo era ancora in mano ai nazisti.
Quando Stefano Massini scrive le prime righe di “Processo a Dio” è a lui che pensa. Ha trent’anni. La morte, la solitudine, l’incomunicabilità e la follia sono stati i punti di fuga della sua prospettiva teatrale. Oltre che, ovviamente, anche le lenti attraverso cui guardare il mondo. Non fosse così, “La fine di Shavuoth”, “Memorie del boia”, il premio Tondelli 2005 “L’assordante odore del bianco” – le tre opere che assieme a “Processo a Dio” compongono la quadrilogia pubblicata da Ubulibri – non sarebbero tra le opere più politiche (e feroci e dirette e dure) degli ultimi anni. In ognuna di loro, per di più, Massini non si interroga solo sulla vita e sulla morte, ma ritorna di volta in volta sul ruolo dell’arte e dell’artista. I protagonisti della trilogia sono: Kafka, Honoré de Balzac e Vincent Van Gogh.
In “Processo a Dio”, la protagonista, si è detto, è Elga Firsch. Una donna. Un aspetto nuovo rispetto alle altre opere della quadrilogia ma coerente con la linea poetica finora seguita da Massini. Basti pensare alla sua collaborazione con il “Teatro delle Donne” di Calenzano, alla regia di “Norma 44” di Dacia Maraini, e all’omaggio ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa per i suoi articoli sulla cecenia, in “Donna non rieducabile”. In tutte queste opere, la figura femminile diventa viatico per esplorare la violenza che domina il mondo e, allo stesso tempo, esempio per fronteggiarla. Tutte le protagoniste dei testi di Massini sono infatti aspre, sole, ma anche dure, forti, audaci. Mai come in questo spettacolo, però, così vicine alle ansie dell’autore stesso.
Umorale e isterica – così per come richiedeva il personaggio – Ottavia Piccolo indossa i panni di Elga Firsch ma porta anche la maschera di Massini. È un’ex attrice deportata. È una figlia del teatro come lui. A lei quindi lo scrittore affida la ricerca di risposte che non ha trovato nelle pagine di Elie Wiesel, Primo Levi, dei fiolosfi Hans Jonas e Theodor Adorno e di moltissimi altri ancora. Risposte a domande che echeggiano da molto tempo nella storia del ventesimo secolo: che valore ha la vita ridotta a pattume? Che significa morire sotto il tacco di qualcuno? Che sapore ha l’annullamento? Che luogo occupa Auschwitz nella geografia celeste? Su ogni domanda, Massini aveva deciso di costruire un capo di accusa nei confronti di Dio. Poi, però, a testo concluso, aveva infilato tutto in un cassetto. Troppo duro, troppo fragile. Troppo asciutto, troppo retorico.
Bisogna ringraziare Sergio Fantoni, autore, attore, doppiatore, traduttore e regista teatrale, se quest’atto unico ha potuto vedere la luce – visto che è stato lui a tirarlo letteralmente fuori dal cassetto di Massini. Sulle sue pagine ha lavorato per spogliarle di ogni possibile forzatura retorica – per cui non una parola sembra in più nello spettacolo –e riuscire a disegnare una geometria narrativa classica, senza però costringere il pubblico a una pièce risaputa.
È un atto unico con un inizio forse un po’ troppo lento, ma esaurita la parte iniziale della preparazione al processo, della sua giustificazione, la messa in scena diventa tesa come un arco. Ogni freccia è scagliata per colpire un bersaglio preciso e inchiodare Dio alle sue colpe. I monologhi della Piccolo sono serrati, crudi, dominati dall’emozione ma controllati da ogni possibile eccesso. La difesa del rabbino Nachman è talvolta sconsolata, talvolta impotente. Alle accuse di tradimento, di schiavitù, di miseria, di barbarie a cui sono stati costretti i deportati non può che rispondere con la voce rotta dal dubbio, gli occhi bassi, l’anima sfinita. E se si perde in allegorie, discorsi fumosi, prediche, c’è suo figlio Adek che alza gli occhi dagli atti del processo che sta compilando per ricordargli di limitarsi ai fatti, di portare prove concrete, se ne è capace, dell’esistenza (e dell’innocenza) di Dio.
I caratteri dei due personaggi stridono il più delle volte, creando una tensione scenica potente. Adek vorrebbe farla finita subito con Reinhard e con Dio, piazzando una pallottola in fronte al primo per dimostrare la sua rabbia verso il secondo; il secondo ricorda che non è la prima volta che gli uomini si imbarcano in una tale impresa. “Da più di cinquemila anni – dice – gli ebrei processano Dio”. E a Elga cerca di far capire che non ci si può domandare dove lui fosse quando milioni di persone venivano annichilite, senza chiedersi anche dove fosse l’uomo.
In questa battaglia dialettica, lo sostengono (e allo stesso tempo lo fronteggiano) i due saggi ebrei interpretati meravigliosamente da Silvano Piccardi e Olek Mincer. Sempre sull’orlo del baratro, lì lì per sprofondare nello sconcerto di scoprirsi illusi da un Dio che non esiste, Solomon e Mordecai mostrano sui loro volti e nelle loro parole i morsi del dubbio. Meno convincente, accanto alle loro interpretazione, sembra essere quella di Francesco Zecca nei panni dell’ufficiale SS. Troppo impostato, troppo rigido, anche se regala al pubblico un meraviglioso climax narrativo quando, in una serie di scambi feroci con la Piccolo, ammette di aver provato dei brividi nel sentirsi Dio, padrone della vita e della morte altrui.
Da questo momento in poi, anche lui prende consapevolezza di essere un sopravvissuto. Il dramma si allenta per un po’, prende fiato e si dirige verso la sua conclusione. Tutti si muovono ora sul palco come dei derelitti. Sordi e austeri, come i rumori e le musiche di Cesare Picco – suoni di spari, sirene, brani di vecchi valzer viennesi; poveri, come le scene e i costumi di Gianfranco Padovani – due tavoloni, una carrucola, qualche residuo dell’inferno che era stato il campo prima della liberazione: le valigie dei deportati, gli indumenti, i loro resti.
In questo quadro, non c’è tic o sospiro o gesto che non arrivi al cuore senza far male. L’ultimo è una pistola puntata da Elga alla testa di Reinhard-Dio. È la fine dello spettacolo e del processo. Ogni accusa si è abbattuta come una scure sul capo di chi conserva nel proprio animo la fede in un creatore. Ma i colpi di pistola non si sentono. O forse sì. Massini ha preferito che ognuno trovasse una sua risposta. Certo è che quando il sipario cala sulla scena, le luci si spengono, i rumori si placano, ognuno sente il proprio cuore ricominciare a battere.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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