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Spot dal mondo dei non luoghi

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di Giancarlo Liviano d’Arcangelo

Buddie aveva fame.
Sentiva il suo stomaco irrispettoso che piagnucolava a colpi di singhiozzo balbuziente, e la tonalità ocracea del cielo disabitato che si perdeva poco più in là della sua massima lungimiranza visiva, era prova inconfutabile che il tempo di nutrirsi era sopragiunto. Si meravigliò del silenzio diffuso nel paesaggio, cactus ingobbiti e cespugli adusti color antracite, un silenzio mostruoso, che in incognito era riuscito ad appropriarsi della duna su cui la sera prima aveva deciso di organizzare l’accampamento parcheggiando con perizia la roulotte di famiglia. Quando Buddie si alzava dalla sua sdraio sgualcita e sondava il panorama con l’attenzione minuziosa di un telescopio di precisione, era come se stesse governando il destino. Il suo, quello dei suoi figli, quello invincibile della nazione che gli aveva regalato una moglie, una famiglia e un lavoro dignitoso nel diligente terziario della contea. Per questo aveva scelto una duna alta e ondeggiata, soffice e rassicurante, un torrione strategico e inespugnabile simile a quelli che ricordava di aver presidiato al cinema, incollato allo schienale per trattenere la crescente emozione provocata da qualche film senza titolo, di quelli che colpiscono in primo grado con il fascino della pellicola consumata, impolverata, utile solo a riportare in vita una valorosa poetica madre di guerre antiche e sconosciute, ordalie collettive combattute da popoli lontani con archi e frecce, con movimenti di fanteria ingegnosamente concordati e la maestosa impalcatura delle catapulte, che sfidavano cieli bui e distanze siderali proiettando nel nero l’eroica scia dei massi infuocati che andavano a bersaglio.
Si meravigliò di non percepire alcuna voce che potesse circoscrivere quell’arcigno silenzio al ruolo più adeguato di comprimario, qualcosa di abitudinario e rincuorante, la radiosa parlantina di sua figlia Ginger, teenager gonfia e lentigginosa, un’anima polemica in perenne disaccordo con qualsiasi contenuto psicofisico che fosse sottoposto dal suo tempo privato alle sinapsi che organizzavano le proprie risorse d’attenzione primaria. O il passo aggressivo di Paul, il figlio maggiore, l’erede maschio, quel tintinnio polveroso che si era alternato per tutto il pomeriggio ai frastornanti scoppiettii degli spari durante l’allenamento.
Bersagli. Concentrazione. Mira. I barattoli perforati che schizzavano via, lontano.
O ancora, il tono di voce connivente e affettuoso registrato nelle corde vocali di sua moglie Jennifer, una modulazione che si riproduceva fedele a se stessa ogniqualvolta il ruolo di madre diveniva predominante nello spazio delle sue attività quotidiane, quando era necessario chiamare Buddie a tavola, quando rimproverava Paul, pescato in flagrante mentre introduceva di soppiatto le lucertole nella roulotte. O mentre si sporcava la camicia appena asciutta e indossata, o quando bisognava ordinare a Ginger di apparecchiare la tavola senza cagionare le solite ossessionanti lamentele. Buddie girovagò a passo lento intorno alla roulotte, sbatacchiando le suppellettili che s’annidavano sul suo cammino.
Sedie e giocattoli. Docili strumenti di quotidianità umana come anticamera di un esplosione di energia incontrollabile. Il barbecue arrugginito su cui era ancora poggiato il sacco della carbonella era immobile, nell’esatta posizione in cui Buddie lo aveva lasciato al momento di scaricare il bagaglio e organizzare gli spazi circostanti.
La sorpresa di non accorgersi della presenza dei suoi familiari occupò completamente la nebulosa brulicante dei suoi pensieri, e il desiderio innato di soddisfare quell’intenso connubio di mistero e curiosità lo spinse ad accelerare il passo, a percorrere in fretta i centottanta gradi di cammino che gli mancavano per completare il cerchio immaginario che cinturava il suo territorio momentaneo. Tutto quello che aveva costruito nella sua vita o che la vita aveva costruito per lui era concentrato in pochi metri quadrati. L’indubitabile. L’esercito programmato che un giorno avrebbe schierato a difesa della sua vecchiaia. Moglie, figli e fucili. Moglie, figli, fucili e tutto l’immaginario di certezze e convinzioni costruite alla meglio in anni di convivenza vicina e distaccata. Pochi metri, ancora pochi metri a passo irrequieto per ritrovarsi nel minor tempo possibile dinanzi alla porta della sua roulotte bianca, decadente, chiazzata di umido come le lenzuola che asciugavano al sole, la casa viaggiante equipaggiata con un telone elasticizzato color arancio che aveva il compito di proteggerli da sole e pioggia, vento e polvere, dal gagnolare straziante imposto dai coyote al crogiolarsi del buio e dal desiderio comune di guadare avanti, oltre il solco trincerato dai reciproci comportamenti comunicativi, per scoprire quanto libera e delicata fosse la voglia di indebolirli.
Jennifer, Paul e Ginger erano accovacciati insieme, rannicchiati in un metro quadro. Sembrava che stessero aspettando il mortale gettito di gas mortale che sibilava fuori dal tubo arrugginito di una doccia, nella latrina collettiva di un campo di concentramento nazista, in Polonia. Una di quelle eruzioni devastanti ma del tutto inconsapevole del proprio terrorifico effetto.
Erano accovacciati di fronte al piccolo televisore in bianco e nero che avevano portato dietro, e lo coccolavano come se fosse un altro membro di famiglia. Un figlio, un fratello più piccolo, il cane che mangiava, dormiva e scodinzolava alla vista di chiunque. Si bisticciavano il diritto di imboccarlo, di assisterlo e di carezzarlo, perché restituisse affetto sottoforma di immagini chiare e nitide, pulite e compagnevoli. Paul aveva ricevuto da sua madre il compito di sintonizzare i canali durante la seconda metà del loro viaggio, appena dopo la lunga sosta alla stazione di servizio Texaco, stella rossa in campo nero e tariffe convenienti per il fai da te. Era una stazione di servizio ampia e ombreggiata, in modo che i camionisti potessero trovare un luogo accogliente durante il loro percorso solitario, asservito alle necessità delle merci che trasportavano. Era munita di una tavola calda che offriva un menù famiglia piuttosto soddisfacente, hamburger di dieci o quindici varietà, hot dog guarniti con salse e verdure grigliate e in generale una buona qualità del cibo. Buddie aveva imposto quella sosta perché era affamato. Doveva appropriarsi del meritato riposo dopo tanti chilometri. E poi c’erano i regali, ancora centocinque punti Texaco e con soli duecentotrentacinque dollari di conguaglio avrebbero portato a casa una telecamera digitale della Sony. Dalla ripartenza in poi Jennifer non aveva fatto altro che raccomandarsi con Paul di concentrare la ricerca sulle frequenze della Vox Tv, dove di lì poco sarebbe iniziato The Bachelor, lo show in cui un nutrito gruppo di uomini si proponeva per sposare la tipica ragazza della porta accanto.
Quando Buddie li sorprese a trafficare zelantemente con antenne e dispositivi di controllo, ognuno stava trascurando i compiti ricevuti durante il vertice familiare, svoltosi poco prima della partenza. Paul sembrava in grossa difficoltà. La ricezione scarseggiava in quella zona del deserto, savane irrecintabili collocate a uno sputo dalla linea immaginaria che sanciva il confine col Messico, e neppure l’ombra di un abitazione che non nascondesse fantasmi. Nonostante l’aiuto costante della duna che Buddie aveva scelto come fortezza, sullo schermo non si vedeva altro che zampilli digitali indecifrabili, mentre il generatore di elettricità che qualche anno prima avevano acquistato per novantanove dollari e novantanove al Purchase Teleshow, si affievoliva e incalzava a intermittenza, inseguendo sinistramente l’andatura scostante del vento crepuscolare.
Ginger non perdeva occasione per rimarcare l’inettitudine di suo fratello.
– Imbranato. Non sai fare niente di niente. Mamma, Paul è incapace. È meglio che ci provi io, altrimenti stasera ci guardiamo le chiappe a vicenda. Uffa, non capisci niente, spostati idiota. –
Paul sbuffava e armeggiava comandi e transistor, sentiva l’orgoglio ribollirgli come lava, mentre nel petto rigurgitava il suo bisogno ancestrale di smentire le frasi degradanti di Ginger. Armeggiava e minacciava sua sorella, diceva che il regolamento di conti si sarebbe scatenato puntuale non appena Buddie e Jennifer fossero stati lontani o indaffarati, che qualcosa di terribile le sarebbe capitato non appena Ginger avesse commesso la sciocchezza di allontanarsi dall’accampamento, dove la lontananza e i rumori interposti dalla natura avrebbero raggiunto un rilevanza decisiva, tale da impedire che gli urli di dolore cui l’avrebbe costretta potessero risuonare o risultare intercettabili dall’udito di qualsiasi forma di vita o da moderni apparati tecnologici.
Jennifer era lì, solo qualche passo più indietro, sbraitava e cercava dolcemente di farli riappacificare. Con un fiato chiedeva a Ginger di pazientare, rassicurandola sulle capacità tecniche di suo fratello, e con quello successivo consigliava ironicamente Paul di non covare l’idea d’irrealizzabili vendette.
– Concentrati su quello che stai facendo. L’ora dello show s’avvicina. – ripeteva incessantemente.
Quando Jennifer provava ad immischiarsi nei piccoli litigi dei suoi figli, si sentiva inascoltata. Ma nonostante un’incalzante sensazione d’impotenza non smise di provare a interrompere i loro battibecchi. Buddie si avvicino a loro finché non li ebbe imprigionati tutti nel suo cono visivo, li colse di sorpresa e li ascoltò per un lungo attimo commovente, senza farsi notare. Era l’osservatore invisibile, il falco onnipresente. Si sentì come Dio che scrutava il suo manufatto d’argilla senza alcuna voglia d’intervenire su di esso, per l’ennesima volta, nonostante l’evidente necessità di produrre più di una correzione sui bordi, sui manici e sulla struttura portante. Era un dio refrattario persino a riposizionarlo o a regolarlo, neanche poche briciole in più di fratellanza e collaborazione, neppure pochi centimetri più al sicuro rispetto al bordo sgretolabile del burrone su cui lo aveva sistemato sin dalla notte dei tempi, pericolante e malsicuro. Buddie avanzò ancora di un passo o due, curandosi di generare impronte delicate e laconiche, e giusto prima di palesarsi ai dolci astanti attraverso una carezza consolatoria sulla spalla intumidita di Jennifer, adorò l’idea di leggere l’appiccicoso ronzio prodotto dal confuso sovrapporsi di quelle voci domestiche, battagliere come uno scintillante esempio di attaccamento familiare, una sorta di vero e proprio rituale apotropaico tra umani che si fidano di umani. Buddie domandò a Paul come proseguisse la ricerca delle frequenze. Disse a Ginger di apparecchiare la tavola sotto al tendone color mandarino. Chiese a Jennifer a che grado di eccellenza fosse giunta la preparazione della cena. Attese risposte che arrivarono in serie, e una volta ragguagliato, si allontanò imperturbabile.
Aveva fame. Entrò nella roulotte e impugnò il fucile. Salutò la bandiera americana e tornò fuori, in attesa del Chili con carne e dei fagioli neri di Guadalajara, dei burritos e della salsa di pomodoro aromatizzata al tabasco. Tornò di nuovo a sedersi sulla sua poltrona e scrutò l’orizzonte, sfidando il buio e i rumori, il buio e il domani che si sarebbe materializzato in poche ore sottoforma di lancette allineate verso nord, sul quadrante al quarzo del suo orologio da polso.
Mezzanotte. Mezzanotte e uno. Mezzanotte e due. Stelle in fila indiana e vento più flebile, cactus a forma di uomini immobilizzati dal caldo roccioso e ronde noiose quanto necessarie da dividersi con Paul. E ancora, stomaco pieno e whisky a portata di becco, odore di polvere da sparo appena sprigionato e denso come effluvi corporei incontrollati, lo schioccare rasserenante di giunture d’acciaio intorno a un paio di polsi mulatti e impauriti. Così Buddie immaginava le ore che avrebbero incalzato il loro imminente futuro.
I migrantes, i clandestini messicani che volevano superare il confine senza permesso di lavoro, erano là, in fondo, oltre l’orizzonte, nascosti nelle fessure ombrose del buio, da qualche parte, dietro una delle mille rocce solitarie vogliosa di suicidarsi al cospetto imperturbabile del deserto. Oppure in qualche baracca abbandonata, rifugi senza tetto e finestre, con quello strato di polvere protettiva che coibentava i lastroni di pietra che formavano la pavimentazione. Massi affiancati, livellati, consolidati per mezzo dei precisi serpenti di cemento, rifugi architettati da antichi cercatori d’oro, cibo e tesori, all’epoca in cui il deserto dell’Arizona aveva alimentato le piante e i colori, i corsi d’acqua e le gare di velocità disperate tra predatori e prede.
Buddie sapeva benissimo che le ore caliginose che si accodavano al procedere della notte, erano le più propizie per azzardarsi a varcare il confine. Si attendeva scintille nel giro di poche ore, forse minuti. Aspettava con ansia imperante l’arrivo dell’amico Stanley.
Stanley, quel marpione. Burbero e severo quanto l’inverno. Era rinforzi, Stanley. Era vettovaglie. Birra glaciale. Stanley era il capo, l’organizzatore, il vero ideatore del progetto Minuteman, il programma di vigilanza capillare contro l’immigrazione che incalzava incontrollata sulla linea di confine col Messico. Era il morale delle truppe che si solleva fino alle nuvole grazie al semplice arrivo di una lettera da casa. Stanley sarebbe arrivato a Tombsville molto presto, e avrebbe portato con sé un altro fucile, un modello italiano di carabina C4 Storm Beretta, ergonomica e interamente realizzata in materiali polimerici, un arma moderna e costosa, ad alto livello di precisione anche con l’otturatore chiuso. Avrebbe gestito ogni cosa con l’esperienza sul campo guadagnata in Iraq nel 1991, deserto e identici bersagli mulatti, la risolutezza esperta di chi aveva combattuto contro nemici veri in una guerra effettiva, trapassi repentini dalla vita alla morte e viceversa, il passo fiero e autoritario, quel pizzico di spocchiosità da veterano, la regale saccenza dell’eroe che aveva ucciso vite e coscienze per la libertà di figli e nipoti. Libertà. Futuro migliore. Cinquanta o sessant’anni di risorse energetiche a disposizione del governo, che avrebbero permesso a tutti di vivere liberi e produttivi.
Paul intanto ricercò con successo le frequenze di Vox TV, suscitando in Jennifer e Ginger sensazioni amorevoli e rilassate. Si allontanò senza dire una parola, consapevole di aver ripagato in modo laconico e signorile la mancanza di fiducia di sua sorella. Si avviò sul retro e riprese a sparare. Aveva il suo premuroso daffare quotidiano. E ogni qualvolta s’accorgeva di aver centrato in pieno il cilindro di latta ammaccato e tagliente che rappresentava la sua finalità mistica e perpetua, il suo microuniverso fidato, si sentiva accarezzato da un senso di autocompiacimento assorbente, profondo, e colmo di fervore si fiondava a conteggiare i colpi andati a segno incidendo piccoli graffietti su di un’asse di compensato. Cercava la massima precisione anche in quel semplice gesto. Scriveva e sorrideva, impugnando il suo coltellino multifunzionale modello Adventure One, quello che suo padre gli aveva regalato per il compleanno dopo estenuanti preghiere, quello che aveva rapito la centralità assoluta dei suoi desideri grazie ad una straordinaria pubblicità.
Paul se la ricordava benissimo mentre seghettava il pezzo di legno. Quella donna, così bella e bagnata. Così naturale nel trasudare sex-appeal, truccata di nuance naturali, sabbia e polveri color deserto. Inchiodata all’asfalto irregolare della Route 66, inginocchiata dinanzi alla sua Honda Hornet sfavillante. Quell’uomo, così muscoloso e vissuto, così esperto e ammiccante. Lui le passa accanto con la Dodge decappottabile, nera e maledetta. La guarda, rallenta di qualche miglio all’ora, la vede, se ne innamora, si ferma. Capisce che il suo amore è ricambiato. Scende a terra con un balzo energico e rassicurante, non sente neppure il bisogno di aprire lo sportello. Si maschera il volto con un sorriso tracimante e a passo deciso irrompe tra la donna e la Hornet. Estrae il suo Adventure One dalla guaina nascosta nei suoi stivali pitonati. Manico bordò e dicitura Adventure One in corsivo, snella e dorata. L’uomo si china, aggiusta qualcosa, ingranaggi, cinghie, candele, forse l’albero di trasmissione. Il sole si alza, il vento si ferma. Una diffusa atmosfera d’eternità pervade il territorio, come se tutti gli amori sbocciati, consumati, invecchiati e deperiti durante l’esistenza del genere umano fossero racchiusi in quei pochi metri quadrati di ciglio stradale. Il caldo sfuma i contorni degli oggetti circostanti. L’uomo si restituisce alla naturale nobiltà, s’innalza, e imprime un colpo perentorio al pedale dell’accensione. La Hornet romba come mai le era capitato, nemmeno un minuto dopo essere uscita dalla catena di montaggio radiosa e imballata. Ma la cosa essenziale non è che la Hornet sia ripartita. La donna è rapita, è come ipnotizzata. Sa bene cosa vuole. Si avvicina all’uomo di passaggio e lo bacia stringendogli con forza il bavero della camicia. Poi lo spintona e si dirige verso la motocicletta accesa. La scalcia, una, due, tre volte, la spinge con il piede finché quella non si accascia su di un lato come un elefante ferito, vinta e sottomessa. E mentre la ruota posteriore perde visibilmente energia mostrando l’intersecarsi geometrico dei sui raggi d’acciaio, la donna accelera il passo e si scaglia sulla Dodge, bacia il suo salvatore con impeto surreale ancora una volta e, insieme, partono alla conquista del West.
Paul era eccitato. Immaginava con quale energia e con che straordinaria qualità avrebbero scopato al primo motel, per quanto sozzo e fatiscente fosse stato. E tutto grazie al suo Adventure One. Per quel motivo incideva tacche con polso da chirurgo, e non vedeva l’ora di mostrare a suo padre e a Stanley quanto fosse diventato preciso con il fucile.
Jennifer mescolò il chili per l’ultima volta, lo assaggiò e lo trovò non troppo piccante. S’affannò per cercare dell’altro peperoncino tra le cianfrusaglie portate da casa che nel pomeriggio aveva sistemato in modo frettoloso e disordinato. Ne trovo una punta e la sbriciolò nel tegame. Mescolò ancora e avvisò Buddie, Stanley e i ragazzi che la cena era pronta, in perfetta concomitanza con l’inizio di The Bachelor.
Can’t help falling in love, la sigla. Che bei ricordi. Paul fu ghermito dalla sigla, come incantato. Si esaltava per gli scontri, per le immagini delle bombe e degli edifici che saltavano in aria, cercava di coinvolgere il padre e Stanley nel suo delirio sensazionale, lasciava partire gemiti e grida d’approvazione proprio come se stesse ricevendo un bel pompino di quelli di cui tutti gli uomini si vantano, ma che per davvero lo hanno ricevuto solo quelli che frequentano le battone. L’adrenalina cresceva in lui come la voglia di impugnare di nuovo il fucile, si alzò per prenderlo, per caricarlo con cartucce che profumavano di polvere e terra e maneggiarlo un po’, ma Buddie lo richiamò all’ordine dicendogli che prima bisognava finire la cena messicana. Ginger si coprì gli occhi con i palmi delle mani, disse che quelle immagini le mettevano paura e che non aveva più molta fame, ma ogni volta che Paul amplificava la portata estetica di ciò che si vedeva, con fischi e ululati goduriosi, la curiosità la spingeva ad aprire sottili fessure divaricando le dita, in modo che potesse sbirciare anche lei. E allora sobbalzava. Sobbalzava ad ogni impatto distruttivo tra armi, oggetti o esseri umani.
Jennifer portò il cibo in tavola e chiese a Paul di alzare il volume. Stanley cercava di smorzare gli entusiasmi di Paul dicendo che quello che mostravano le sequenze era solo un antipasto rispetto a ciò che aveva vissuto lui in Medio Oriente, che la guerra vera era molto più poetica e adrenalinica di quanto lui potesse pensare, e che solo chi aveva davvero ammazzato un nemico con le proprie mani poteva comprendere la vera essenza di ogni guerra. Conquista. Strumentalizzazione della forza alla propria volontà. Conservazione della propria condizione attraverso l’annullamento di chi rappresenta una possibile insidia. Il bisogno di cibo, la caccia andata a buon fine. L’onore di prefissarsi una serie di obiettivi momentanei che come un domino si susseguono fino al concretizzarsi dello scopo finale. Il feticistico sentore di sentirsi ogni giorno più temprati, vigili, esperti, immortali e superiori al proprio nemico.
Buddie lo ascoltava, e il trasporto che ne conseguiva era quasi più fanciullesco e imperterrito di quello di Paul. Quella era la prima volta che aveva portato la sua famiglia a caccia di migrantes, e desiderava che tutto andasse per il meglio.
Jennifer si emozionò molto alla vista di John Oberman, il conduttore. Sottolineò quanto fosse elegante e signorile vestito in quel modo e quanto fosse magnificente e costosa la scenografia. Si emozionò per la passerella della protagonista e si augurò di sentirla cantare Dreamlover di Mariah Carey, la canzone che più l’aveva fatta sognare nei rari momenti romantici che la vita le aveva riservato. Poi le criticò il vestito e il naso aquilino, disse che con tutti i suoi soldi avrebbe potuto aggraziarsi, e subito dopo corse a controllare lo stato di cottura dei burritos. Stanley e Buddie, invece, s’inferocirono quando videro l’altro ospite del programma, Zacharias Massaoui, il condannato all’ergastolo come unico colpevole rimasto in vita dopo gli attentati dell’11 settembre. Jennifer gli diede del porco assassino. A tutti sembrò strano poter ammirare il demonio così da vicino, in un contesto così neutro e familiare, e furono spaventati di cogliere in lui un aspetto umano, di sentirlo parlare in un contesto così docile, di percepire proprio in quell’umanità così sommessa ed educata la caratteristica più terrificante di tutta la faccenda. L’umanità così ostentata disarma. Quel saluto così pavido, l’orrorifica ripetitività dei suoi gesti normali, la camminata, il modo di gesticolare, il sorriso formale che aveva mostrato al conduttore, il modo di accavallare le gambe una volta seduto sul divano. La normalità aveva privato l’ex affiliato ad Al Quaeda della sua conoscibilità, aveva smorzato i suoi tratti distintivi, aveva smussato e complicato il suo carattere rude e spietato, li aveva quasi fatti dubitare che un all’apparenza uomo così debole e compassato avesse potuto commettere crimini orrendi come quelli che gli s’imputavano. Il nervosismo di entrambi aumento a dismisura e Stanley fu il primo a palesarlo con un vituperio pregno di odio, rabbia e paura.
– Figlio di puttana. C’era da scommettere. Adesso è diventato un fenomeno d’avanspettacolo. Bastardo figlio d’un cane, avremmo dovuto prenderti tanti anni fa, quando ti hanno fato entrare in America. Farti inculare da qualche portoricano di merda in una cella di massima sicurezza. O farti fuori. Avremmo potuto accopparti. Invece ti abbiamo lasciato libero dopo averti puntato una pistola alla nuca. Ti avrei sparato volentieri, lo sai cane bastardo che non sei altro? –
Buddie aggiunse altri insulti. Poi tutti mangiarono il chili e i burritos. Ebbero appetito e sul tavolo non rimase nulla. Ginger si commosse nel vedere la passerella dei concorrenti innamorati, e subì la rabbia di Stanley, il veterano, che la riprese con fervore nazionalista, con un tono che persino a Buddie sembrò troppo duro, anche se non così duro da spingerlo ad intervenire contro il suo vecchio amico a difesa della figlioletta. A Buddie non piaceva interpretare il ruolo del padre protettivo e permaloso.
– Sono solo avanzi di galera. Falliti
Mentre andava in onda il video di Nancy e Ronald, Buddie si voltò di scatto verso il buio e chiese a Paul di abbassare il volume, suscitando le lamentele di Jennifer.
– Ho sentito dei rumori – sussurrò. – Passi e voci. –
– Erano i migrantes – rispose Stanley.
– Li ho visti – disse Paul. – Mi sembra fossero tre, forse quattro. Corrono verso Nordovest. Andiamoli a prendere papà. –
Il chili, i burritos e i fagioli erano finiti ma Buddie aveva più fame di prima.
Abbrancò il polso di Paul e gli disse di correre ad impugnare il fucile. Stanley scolò l’ennesimo sorso di birra e si gettò sulla sua carabina italiana di precisione. Buddie prese il coltello a serramanico, una torcia che sembrava un riflettore del Madison Square Garden, e una pistola. Insieme si bagnarono del buio e lo squarciarono in spicchi di magma non conoscibile, sprigionando fasci di luce tetra e funeraria. Si allontanarono di qualche centinaio di metri dall’accampamento fino a scorgerne solo il presentimento, e circa cinquanta passi dopo Paul riuscì a scorgere un tugurio semidistrutto ai piedi di una duna. Si avvicinarono con cautela. Si fermarono e Stanley consigliò di spegnere la torcia. Disse che conveniva sparpagliarsi e procedere strisciando nel misto di sabbia, pietre e sterpaglie, perché i migrantes potevano essere armati o pericolosi. Jennifer prese per mano Ginger e si precipitò ad avvisare i cacciatori degli accampamenti vicini, in modo che si spargesse la voce. Poi tornò a The Bachelor, arrivando in tempo per godersi le ultime parole della confessione di un culturista con i capelli color ossigeno, che piangeva dopo essere stato escluso.
Frattanto Stanley, Buddie e Paul procedevano strisciando come cobra travestiti da soldati dei reparti speciali. Si mimetizzavano e avanzavano, lenti ma costanti, distanziati ognuno a un paio di metri dall’altro. Paul fu il primo a distinguere il grigio rovinoso dei lastroni di pietra diroccati che delimitavano lo spazio vitale della casupola in cui si stavano rifugiando i clandestini messicani. Alla roulotte Jennifer non sembrava per nulla preoccupata. Teneva Ginger sulle ginocchia e osservava il succedersi degli sproloqui spocchiosi di Oberman, i volteggi del corpo di ballo, i sopralluoghi dell’inviato speciale nelle case dei concorrenti. Il vociare confuso dissipato dagli altri membri del programma Minuteman che si organizzavano per assistere suo figlio, Stanley il marine e suo marito era l’unica entità irrequieta che riusciva a suggestionarla. Quell’agitazione eccessiva le trasmetteva una sensazione di pericolo che le sembrava esagerata, e l’azione più istintiva che le venne in mente fu quella di alzare il volume del televisore per coprire l’angosciante ronzio. Stanley, accovacciato ai piedi di una delle pareti, adocchiò una finestra e disse a Buddie di posizionarsi sotto di essa senza far baccano. Si rivolse a lui col tono autoritario che avrebbe usato per rivolgersi al suo caporale di battaglione quando ancora si trovava a lavorare per l’esercito effettivo, in Iraq. Gli ordinò di tenersi pronto a sporgersi verso l’interno della baracca e a puntare la torcia verso la porta d’ingresso che si trovava esattamente di fronte a quella finestra, in modo da illuminare con un solo movimento l’intero spazio circostante. Poi chiese a Paul di caricare il fucile e avvicinarsi continuando a strisciare vero le finestre laterali, aggirando la casupola dal lato destro. Lui avrebbe fatto lo stesso a sinistra, e al suo segnale, il fischio cupo e spettrale della civetta, avrebbero fatto irruzione e arrestato quei dannati criminali contemporaneamente all’accensione della torcia elettrica. Quando tutti furono appostati, Stanley lanciò il suo maniacale cinguettio.
Tutto andò come previsto. Lui e Paul entrarono nel tugurio con le armi da fuoco in avanscoperta, protezioni agghiacciate e robotiche, e non fu difficile per loro scorgere due persone dalla pelle mulatta e impolverata che si accovacciavano nell’angolo più vicino all’ingresso, un uomo e una donna scarni e inginocchiati che sembravano portar male poco più di vent’anni. Terrorizzati, stringevano al proprio petto una bambina che di anni ne aveva al massimo cinque.
Li puntarono e avanzarono lentamente. Stanley gridò loro di alzare le mani e restare immobili. La ragazza piangeva e pregava. Il migrante obbedì e tremando cominciò a sbiascicare parole sgomente.
Por favor senor, no vas a matarnos. Por Dios, no vas a matarnos, estamos lindos, no querimos hacer nada de malo. Por favor –L’adrenalina furibonda di Stanley fu diluita in riflessione dallo sguardo della bambina, una creatura dagli occhi grandi e tonituranti. La guatò e la vide incolpevole. Si avvicinò ai due adulti e disse a Paul di tenerli sotto tiro. Li perquisì e si assicurò che fossero disarmati. Li ammanettò citando a memoria i loro diritti secondo la costituzione americana, e poi prese in braccio la bambina, che d’istinto gli gettò le mani la collo respirandogli agitazione viva nelle orecchie impolverate di sabbia. Uscirono dalla baracca e Buddie si unì a loro. Lentamente s’incamminarono verso la roulotte, e di fronte a loro, poco lontano dal loro peso, si poteva vedere un folto gruppo di cazamigrantes che finalmente li aveva cercati nella giusta direzione. Stanley avvistò un cactus sulla sua sinistra e diede la bambina in braccia a Buddie.
Devo andare a pisciare – disse – arrivo subito. Dategli qualcosa da mangiare, sembrano stanchi e provati. Date dei biscotti alla bambina. Non fategli del male. Ora ci facciamo dire da dove vengono e domani gli rispediamo al mittente. – Poi fece venti o trenta passi e si abbassò la cerniera lampo.
Paul era fiero di sé. La caccia era stata propizia e le prede camminavano a zampe legate proprio davanti a lui, ammanettate e impotenti, vegliati dall’occhio dispotico e minaccioso del suo fucile. Non potevano fare nient’altro che camminare senza girarsi. La sua missione era compiuta. Le aspettative che aveva costruito nei giorni appena precedenti alla partenza per Tombsville, realizzate appieno.
C’era solo un problema: non aveva sparato. Non aveva ancora dimostrato a Buddie e a Stanley che era in grado di colpire anche corpi in movimento, non soltanto barattoli inanimati. Elaborò la decisione in un secondo, a bruciapelo. Si fermò fingendo di allacciarsi una scarpa. Permise loro di avvantaggiarsi di qualche metro. Poi prese la mira, ritenendo logico puntare sulla schiena dell’uomo. Ci fu il successivo cinguettio, più simile allo scoppiettare di un tuono, e subito dopo il finale. Il migrante abbattuto si accasciò al suolo, dissolvendosi nell’opacità delle tenebre.
Il tuono fu improvviso e del tutto inaspettato. Stanley si pisciò sugli scarponi e cominciò a correre. Buddie si fermò impalato e strinse al petto la bambina che chiuse gli occhi e appoggiò le proprie mani sulle orecchie, aspettando la seconda razione e il primi scroscio di pioggia. Il gruppo di cazamigrantes che arrivava dalla direzione opposta s’inchiodò al terreno. Paul tirò fuori il suo Adventure One e con la solita meticolosa maniacalità intagliò la prima indimenticabile tacca sull’impugnatura cromata del suo fucile.
Jennifer, al campo, non si accorse di nulla. La distanza, l’oscurità, e il volume onnivoro dell’apparecchio coprirono il boato dello sparo. Lei e Ginger continuarono a godersi lo spettacolo ignare e assuefatte, innocenti e ossequiose. Rinchiuse nella gelosa contemplazione di un intimo segmento di solitudine mascherato con le tonalità variopinte delle immagini e dei jingle. Prigioniere dello stanco e sconclusionato monologo recitato dai mille canali che s’accavallavano uno sull’altro, producendo frasi insensate e obbedendo a una sintassi subdola e ricattatoria. Distratte in modo irreparabile dal baricentro del loro misero frammento di realtà. Straniate dalla morte taciturna di un fantasma che nessuna troupe aveva filmato, e che di certo non avrebbe guadagnato neppure un coccodrillo, una lacrima, né tantomeno una frammentaria ricostruzione durante il telegiornale delle sette, quello che informava tutta quanta la contea. Una morte ombreggiata, periferica, così impalpabile da insinuare nelle mente di Buddie, di Stanley e dello stesso Paul, il dubbio che fosse mai avvenuta per davvero.

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6 Commenti

  1. premesso che uno spot dovrebbe essere più breve, la fantasia non manca!
    e questo è già molto!:-)

  2. @ cappuccetto
    devi vedere che fantasie imbastisce in Andai, dentro la notte illuminata.

    buddy è davvero un bel soggetto e “fessure ombrose del buio” un bel fiordo di senso.

    ‘notte
    chi

  3. Consiglierei una cura dimagrante e possibilmente mirata, in modo da dimagrire nei punti critici, che qui mi sembrano soprattutto gli aggettivi. (anche se sento che l’autore gli è particolarmente affezionato)

  4. uno spazio ogni tanto, tra i paragrafi?

    buoni spunti, anche se i non-luoghi ci hanno un po’ stufato. non luoghi, che espressione sociological-accademico-milanés.

  5. Poco sopporto, ad essere sincero, gli scrittori italiani che ambientano storie e personaggi in america. O, peggio, che non danno neanche una locazione precisa alla storia. Semplicemente, forse, credono che Anna e Marco non siano nomi abbastanza trendy per i protagonisti di un racconto, romanzo o qualsiasi cosa scrivano. Ma sorvoliamo.
    Ho letto il romanzo di questo autore e devo dire che non mi è dispiaciuto, a differenza di questo racconto, che ho letto a fatica nonostante sia tanto breve. A fatica perchè qui le divagazioni stilistiche sono diventate francamente eccessive, le descrizioni rococò e a tratti fuori luogo, le frasi cge girano intorno dando la sensazione netta di allungare semplicemente il brodo. Tanto che se si salta qualche paragrafo il risultato cambia, perchè migliora.
    Il soggetto di base potrebbe essere interessante, se non fosse che dopo avere letto il romanzo le tematiche di base incomincino a essere ripetitive. Mi chiedo allora se non fosse sufficiente averne parlato con abbondanza nel libro. Soprattutto visto il risultato.

  6. A tratti ridondante. Ma se non fosse così, non sarebbe lui. Geniale il programma Minuteman, in una delle frontiere più calde e agghiaccianti di questi anni. Trovare lo spazio di una storia, lì, non deve essere stato facile. Ma era necessario farlo. La parte sulla tv…direi intermittente, nel senso che a tratti sembrava di rivedere spunti e immagini del libro. Per chi l’ha letto, ovviamente.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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