Cercare le ragioni della sconfitta della sinistra – Ridere oggi in Italia

di Christian Raimo

Nell’ultimo film di Carlo Verdone Grande, grosso e Verdone, per la prima volta sullo schermo viene rappresentato comicamente un personaggio cardinale della nuova antropologia italiana. Il burino che si atteggiava da Elvis con la spider di Un sacco bello, diventato il coatto che lo “faceva strano” in Viaggi di nozze, qui si è trasformato in Moreno Vecchiarutti, gestore di un negozio di telefonia, che insieme alla moglie Enza cerca di uscire da una crisi di coppia e di ritrovare qualsiasi dialogo con il figlio quattordicenne che vive solo di calcio, e invece di “sì” e “no”, risponde tirando fuori il cartellino giallo e quello rosso. L’elemento che riesce a ritrarre perfettamente Verdone è che Moreno pur avendo cinquant’anni non è un adulto: rispetto al figlio non mostra alcuna differenza generazionale, non ha alcun contenuto educativo da offrirgli, e soprattutto si veste come un ragazzino – ossia (non so se avete presente), come si veste la maggior parte dei cinquantenni volgarotti da maggio in poi in Italia: maglietta attillata, pantaloni corti sotto al ginocchio e ciabatte.
Questa capacità di Verdone di cogliere un aspetto trasversale della società – in questo caso, la volgarità che è infantilizzazione, regressione anagrafica diffusa – e di restituirla rovesciata nel comico, salta agli occhi. Non per nulla è stata notata da Goffredo Fofi, che in una recensione l’ha considerato l’unico erede della tradizione della commedia italiana; e Verdone ha ricevuto quest’anno il premio della rivista Lo Straniero. Ma salta agli occhi soprattutto perché è un elemento su cui forse possono trovarsi a ridere in molti, e oggi questa non è una rarità? Non è vero che in Italia ciò di cui si ride è sempre più diversificato?
Del resto non è difficile rendersi conto che nel 2008 una Italia non esiste, che il senso comunitario è frantumato, che questa frantumazione è qualcosa di più radicale di un conflitto fra classi o di strati sociali, che la mutazione antropologica profetizzata da Pasolini – il passaggio dalla civiltà popolare a quella consumistico-televisiva e la relativa iperindividualizzazione – si è definitivamente compiuta già da qualche tempo.
E se uno vuole di tutto questo può averne un’evidenza sintomatica, analizzando cosa fa ridere gli italiani, per accorgersi di come il comico sia diventato un prodotto di consumo come altri; e, come tutti i prodotti di consumo, si sia differenziato in un reticolo di offerte personalizzate. Chi ride per il Bagaglino, non ride per Vergassola. Chi ride per Sabina Guzzanti, non ride per Proietti.
Cosa diverta milioni di persone nei cinepanettoni con Christian De Sica rimane un mistero per moltissimi altri, come per esempio racconta tra il disarmato e lo snobistico Francesco Piccolo nell’Italia spensierata, il suo resoconto di un 26 dicembre passato davanti a Natale a Miami: “Non rido. Eppure, vi giuro, ero venuto con le migliori intenzioni, divertito dalla situazione, curioso e desideroso di mettere in gioco il mio scetticismo. In fondo Boldi e De Sica saranno simpatici e che sarà mai sto film?, ho pensato decidendo di venire. Invece sento che comincio a essere un po’ triste; in trappola. Diverso, perché sento solo la vibrazione della fila delle poltrone e mi irrigidisco. Perché tutti si divertono e io no. Non mi diverto, questa è la verità”.

Nonostante il blocco da immedesimazione raccontato da Piccolo, è vero però che nella maggior parte delle teorie del comico, da Freud a Todorov, il riso ha svolto sempre una dimensione sociale. Riesce a mostrarlo molto bene Alfredo Civita in un suo vecchio saggio uscito per Unicopli nel 1984, Teorie del comico appunto. A partire dallo stracitato saggio sul Riso di Bergson, dove il filosofo francese asserisce che l’inconscio che fa scaturire il riso sta in una profondità sociale e collettiva, anteriore e sovradeterminata rispetto a esperienze sociali e individuali. Addirittura si parla un inconscio biologico, di un inconscio di specie. Che potrebbe far pensare effettivamente alla ragione per cui ad esempio un bambino dello Sri Lanka si sganascia davanti a Stanlio e Ollio o a Mr.Bean tanto quanto un bambino del Quebec.
Così Eugene Dupréèl nel Le problème sociologique du rire, fortificando la visione bergsoniana, dà al riso una funzione ancora più decisiva nella formazione di relazioni forti, a partire dalla citazione di Virgilio che mette in testa al suo saggio, Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem: il bambino inizia a riconoscere sua madre dal riso – il suo rapporto con l’altro. O meglio: il bambino non riconosce la madre dal riso, ma ride, e ride insieme alla madre, in quanto e nel momento in cui la riconosce. Il riso fissa il reciproco riconoscimento tra madre e figlio. E in nome di questo rapporto elementare, il riso – sempre secondo Dupréèl – sancirà non soltanto il riconoscimento elementare ma anche creazione di comunità.
Facciamo finta che stiamo su un tram – è questo l’esempio del sociologo francese – e c’è una goccia di pioggia che cade dal soffitto. Il viaggiatore che sta sotto si bagna e si sposta. Ma la goccia continua a cadere, e gli altri lasciano il posto vuoto. Sale un altro passeggero, e si siede lì, prende la goccia in testa, si cerca un altro posto. A questo punto la situazione si trasforma: quella che era una folla anonima disgregata comincia a configurarsi come gruppo. Ci sono sorrisi d’intesa. Sorrisi che sono al tempo stesso sorrisi di accoglimento e di riconoscimento: quello che è capitato a lui poteva capitare a ognuno di noi perché, appunto, facciamo parte dello stesso gruppo. Quando salirà un altro passeggero ancora, si passerà al riso aperto. “Queste circostanze hanno fatto sì che degli estranei siano passati da uno stato di indifferenza e dispersione ad uno stato di comune attenzione; una stessa previsione li unisce, e quando l’avvenimento atteso si produce, il riso non è fatto semplicemente dalla somma della piccola soddisfazione che ognuno prova per aver previsto giustamente, perché questo effetto sarebbe meno forte; il riso segna in realtà la comunione nella attesa (…). Un gruppo si andava formando, e il fatto che lo consacra, questo avvenimento brusco e anodino, permette a ciascuno, nello stesso istante, di attestarne l’esistenza. Ciascuno lo fa tramite questo riso, riso di accoglimento, mutuo e unanime. Quelli che non hanno riso restano al di fuori”.
Da questa forza aggregante del riso, secondo il Bachtin di Rabelais e la cultura popolare, si ricava addirittura una potenza profondamente trasformativa della società. A quella realtà che nega, il riso contrappone sempre un’antifisica, un mondo che è alla rovescia, ma che nel suo stare alla rovescia, mostra la aspirazione a una diversa organizzazione della realtà fattuale.
Se analizziamo lo stato dell’arte della situazione della comicità in Italia, dobbiamo ammettere però che gran parte di tutto questo pare non ci sia. Sembra effettivamente che sia perso, insieme all’aspetto aggregativo, ancora di più quest’altra capacità, la potenza trasformativa. Quella di aprire uno spazio d’immaginazione, in grado di rinnovare, in teoria ma completamente, il modello sociale in cui viviamo. È questa una perdita che nota Daniele Luttazzi nelle sue splendide Lezioni di comicità (scaricabili in podcast dal sito di Feltrinelli) a commento della sua nuova traduzione della trilogia umoristica di Woody Allen (Rivincite, Senza piume, Effetti collaterali), in cui fa vedere come il gradiente di surrealtà, di immaginazione risulta ridotto dai comici attuali proprio quando pensano di ottenere un effetto immediato: “Vi faccio un esempio. Woody Allen come i veri umoristi non fa mai giochi di parole. Il gioco di parole è tipico del dilettante. Il vero umorista disprezza il gioco di parole. Perché nel gioco di parole, la tecnica retorica è sovrabbondante rispetto all’immagine evocata, e questo rovina la caratterizzazione dei personaggi e la narrazione, che invece sono, al di là della risata, i veri scopi della narrazione. Il sottotesto di un gioco di parole diventa: guardate quanto sono intelligente, ed è terribile. Non basta che la battuta faccia ridere, deve anche caratterizzare i personaggi e far procedere la storia, altrimenti la battuta va buttata. Questo era uno degli insegnamenti più preziosi di Danny Simon, fratello del commediografo Neil Simon, al giovane Woody Allen. Il comico professionista non gioca con le parole, ma gioca con le idee”.
L’eccezione che potrebbe confermare questa regola è Alessandro Bergonzoni, un’altra mosca rara nel conformistico panorama comico italiano, che ha fatto una sua missione quella di riuscire a trasfigurare la comicità prosciugata del gioco di parole in un gioco di idee, utilizzando in modo auto-sorgivo, di flusso – e non sintetico – le gag sulla lingua; come si vede sempre di più negli ultimi due sue libri, Opplero e Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna bambino animale o cosa, più vicini alla letteratura di Queneau che al virtuosismo da cabaret.

Ma a un Bergonzoni e a un Luttazzi che guardano a modelli comici non italiani si contrappone una massa non critica di comici assolutamente italo-referenziale, il cui destinatario è un pubblico ben preciso: un pubblico il cui contesto di sicuro riferimento è la televisione stessa su cui i comici si esibiscono, come se la società che fa da sfondo sparisse dietro la sua rappresentazione.
Forse è questo il motivo per cui potenza trasformativa si è ridotta al lumicino nella comicità italiana? Se prendiamo una qualunque delle puntate di Zelig dell’ultimo anno vediamo che la situazione in cui prendono corpo si svolgono i monologhi comici, da quelli vecchi di Gabriele Cirilli e di Paolo Migone a quelli nuovi di Geppi Cucciari e Giuseppe Giacobazzi e Pino Campagna
, non ci presenta un rovesciamento della nostra realtà, ma al massimo un’ammiccante ridicolizzazione delle nostre abitudini: paranoie da shopping nei centri commerciali, prese in giro degli spot, e soprattutto, soprattutto, soprattutto parodie televisive, le piccole risse di Maria De Filippi e del Grande Fratello preferite ad ogni cosa.

Il rovesciamento della comicità non riesce, non vuole, non sa prescindere dalla civiltà del rituale dei consumi e dell’addiction televisiva?
Ma non è forse nemmeno questo l’elemento più significativo forse della qualità della comicità italiana, quanto una caratteristica meno scoperta. Soprattutto ciò che sembra aver subito una forte involuzione è la struttura retorica del meccanismo della risata, diventato un dispositivo che funziona sempre di più come un automatismo al consumo. Ovvero: invece della narrazione, della creazione di personaggi, della comicità di situazione, lo schema che viene proposto nella maggior parte dei casi dai comici nostrani è quello della barzelletta, del tormentone, del tic ripetuto.
La creazione di una tensione che si va a sciogliere attraverso la risata – quello che Freud nel suo saggio sul Motto di spirito definiva come un procedimento di accumulo di energia nell’inconscio che si va a scaricare (e che oggi in modo anche analogo la neurofisiologia descrive come un processo di rilascio di endorfine nella corteccia cerebrale) – può diventare un mero stimolo a reazione pavloviana.
Si genera così una reazione pavloviana di massa. Una tendenza per cui è stato seminale probabilmente il modello della televisione berlusconiana per eccellenza, il Drive in. Con le risate finte replicate a intervalli di circa 5, 6 secondi, e l’infinita teoria dei tormentoni e non-sense, lo stimolo primario dei jingle e delle tette esibite a ogni pausa, e – al di là di tutto – l’assoluta autoreferenzialità televisiva. Se c’è un mondo da rovesciare è quello del piccolo schermo; avverrà in un altro mondo strampalato, ma sempre nel piccolo schermo. Ciò crea riconoscimento nell’unica comunità che sembra possibile: quella di spettatori televisivi.

Questa oggi sembra essere l’unica koiné della comicità: se uno non vede la televisione non capisce la maggior parte delle battute che si fanno non solo in televisione, ma anche al cinema, a teatro. E questo capita anche in quello che è il migliore esempio di comicità nell’ultimo anno in Italia, la sit-com per il satellite Boris, scritta egregiamente da Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, recitata altrettanto bene da alcuni tra gli attori comici migliori che abbiamo in Italia: Paolo Calabresi, Francesco Pannofino, Ninni Bruschetta… In Boris l’ambientazione è quella di un set di una fiction televisiva – e in parte sua forza comica deriva proprio dal fatto di giocare su una dimensione di meta-rappresentazione.

Però, va riconosciuto, Boris è un’eccezione, sia nel novero delle sit-com italiane, sia soprattutto rispetto a quello che è l’offerta di comicità televisivo/cinematografico/teatrale, molto spesso appunto ricalcata, o derivativa di quella televisiva, la quale si basa su un riconoscimento seriale di personaggi che si muovono sempre secondo lo stesso copione, secondo un modulo che ha piccole variazioni, e che funziona finché appunto non si usura definitivamente. Come un qualsiasi normalissimo prodotto di consumo.
Eppure questo stile seriale (attesa per una battuta > battuta > scioglimento – nello stesso identico contesto narrativo, settimana dopo settimana con minime modifiche) non è l’unico possibile in una trasmissione televisiva, non è determinato necessariamente dal mezzo di comunicazione tv. All’inizio degli anni ’70 in Inghilterra sulla BBC i Monty Python realizzarono uno show rivoluzionario dal punto di vista della comicità, il Flying Circus: un programma fatto solo di comicità di situazione, di possibilità surreali di ridescrizione del reale, di sregolata destrutturazione delle abitudini piccolo borghesi del ceto medio inglese. Ma la straordinaria novità stava anche e soprattutto nella liberazione retorica del meccanismo comico, in un’ottica che andava a contrastare la modalità consumistica nella fruizione dello sketch. Fregarsene del senso d’attesa del pubblico, rovesciarlo, sovvertirlo – questo, ricorda Graham Chapman, era l’obiettivo della comicità dei Monty Python. Oppure, come scrive Terry Gilliam in The Pythons Autobiography of the Pythons: “Credo che fossimo d’accordo fin da subito su quello che volevamo nel nostro programma, ma anche e soprattutto su quello che non volevamo. Cercavamo di procedere seguendo un filo completamente libero, un flusso di coscienza. E questa cosa funzionò così fin dall’inizio. Una delle cose che tutti avevamo notato, guardando Peter Cook e Dudley Moore e tutti i programmi del genere, era che avevano sempre bisogno della battuta finale. Riuscivano a costruire questi sketch grandiosi, tutti questi personaggi, ma c’era sempre questa battuta finale che era debole e ti lasciava una specie d’amaro in bocca soprattutto quando lo sketch era perfetto. Così decidemmo ok, sbarazziamoci della battuta finale e freghiamocene. È tutto un unico flusso di coscienza. Non abbiamo bisogno di battute finali. Andiamo avanti finché la cosa regge e poi passiamo a qualcos’altro”.

Osare dal punto di vista retorico è la vera sfida della comicità: azzardare cosa possa far ridere e creare riconoscimento. Nel 2001 la BBC ha mandato in onda la prima puntata della sit-com The Office. La comicità di The Office, stravolgendo una serie di elementi base di una sit-com classica (ambientazione calda, risate registrate, personaggi che non vorrebbero far ridere e invece risultano buffi), svela ed estremizza certe tendenze della comicità contemporanea: il protagonista della serie, David Brent (interpretato da Ricky Gervais) è un capoufficio che cerca per tutto il tempo di risultare affabile, divertente con i suoi dipendenti, non riuscendoci mai, e anzi creando uno stato di persistente imbarazzo.

Tutta la comicità di The Office è una comicità di secondo grado: il riso è la reazione che possiamo provare di fronte a una serie di gaffe senza soluzione di continuità, oppure di fronte a un cabarettista che si ostina a cercare di farci ridere senza arrendersi di fronte al nostro gelo e ci chiede: “Ok, è vero, questa non faceva ridere, ma sentite la prossima”. In questo modo la meta-comicità va a inibire di continuo l’automatismo della battuta, prolungando il tempo della tensione fino a farlo diventare insostenibile e a provocare il nostro riso per estenuazione in un momento che non possiamo predeterminare. (Un po’, non so se avete presente, le risate registrate fuori tempo nell’ultimo film di David Lynch, Inland Empire).

In Italia quali sono i comici che lavorano sull’innovazione, sulla torsione dei meccanismi retorici della comicità? Se prendiamo quelli che sono i nostri migliori talenti come battutisti, ossia Roberto Benigni, Beppe Grillo e Daniele Luttazzi, performer capaci di reggere monologhi con un ritmo altissimo di battute (dalle 200 alle 250 all’ora), possiamo constatare negli ultimi tempi la direzione che sono stati costretti a prendere loro come molti altri comici è quella di rinunciare parzialmente alla potenza di rovesciamento. Di fronte a una società, come quella italiana dove l’inammissibile trova sempre più facilmente spazio, il comico si trova spiazzato. Se, per usare le categorie di Rabelais, l’inversione carnevalesca è la quotidianità, quale sarà lo spazio del comico, che cosa andrà a rovesciare? Comici come Benigni, Luttazzi, Grillo, ma anche Sabina Guzzanti, o Paolo Rossi, o Maurizio Crozza, o Paola Cortellesi, o un out-sider come Bergonzoni stesso, hanno scelto in parte di rinunciare alle armi retoriche della comicità che sono quelle dell’allusione, del paradosso, dell’immaginazione appunto; e affrontare lo stato di emergenza – l’entropia del rovesciamento –, diventando letterali, o meglio: didascalici. Roberto Benigni ha cominciato a commentare Dante, indicando nella Divina Commedia, esplicitamente, quella possibilità di mondo rovesciato come era 700 anni fa. Grillo e Luttazzi in vario grado hanno dato sempre più spazio all’invettiva, indicando un mondo rovesciato violento rispetto alla finta consolazione del mondo pervaso di ironia inutile che ci circonda; e hanno accentuando – soprattutto Luttazzi, se pensate a vari momenti della trasmissione Decameron – quella caratteristica di perturbazione che Freud associava al riso. Paola Cortellesi alterna parodie estreme con teatro civile. Crozza fa il comico-commentatore a Ballarò. Sabina Guzzanti ha semplicemente rinunciato a fare la comica.
Esistono però in Italia alcuni personaggi che cercano – nonostante l’uniformazione dei linguaggi ai ritmi televisivi, al comicità di consumo – di lavorare sui tropi stessi del comico? Possiamo citare Gene Gnocchi, che soprattutto nella sua ultima trasmissione Artù, dove è solo e libero e ha reinvestito una parte consistente nel deturnamento comico, anche se quasi sempre circoscritto a un universo di riferimento catodico. Abbiamo Antonio Rezza, sicuramente, un attore per cui la capacità perturbativa del comico dev’essere portata all’eccesso, e non per nulla è scomparso dalla televisione: in un’idea di inversione del reale che si rifà direttamente ed esplicitamente ad Artaud. Ma un altro personaggio da tenere presente è Maurizio Milani, che di Gene Gnocchi fu autore agli inizi della carriera, e che da quindici anni, dai fantastici monologhi di Cielito Lindo, sembra l’unico in Italia a di coniugare a) la capacità che ha il comico di riportare tutto l’universo morale a una datità fisica (questa è un’altra delle definizioni di Bergson) con b) un’assoluta eccentricità rispetto ai tempi del consumo comico. Maurizio Milani non soltanto se ne frega della battuta finale, ma molto spesso interrompe a metà il monologo, non finisce la battuta, si perde, comincia da un’altra parte – come se il principio di riconoscimento che volesse portare fuori in noi spettatori è uno stato di quieta e sana condiscendenza a un disordinato flusso di idee che assomigliano ai pensieri di uno psicotico. Quello che in definitiva oggi è il vero carattere italiano.

Print Friendly, PDF & Email

18 Commenti

  1. Interessante.
    Ma grande, davvero grande assente fra le mosche bianche

    Antonio Albanese

    perfetta sintesi fra battuta, détournement surreale, lavoro sul linguaggio, idee, dimensione sociale, lavoro sul corpo del personaggio, sul baricentro fisico della comicità di tutti i suoi personaggi.

    Dal tenero Epifanio al pescecane Ing. Perego.
    Ed ovviamente Cetto La Qualunque

    ,\\’

  2. Il problema fondamentale mi e’ sempre parso l’eccesso di analisi, l’eccesso di punti di partenza e successive divagazioni dei discorsi, che portano ad un eccesso di stasi. Voglio dire: i problemi sono complessi, ma un’azione, qualsiasi essa sia, interviene e in qualche modo incanala il problema (es. immigrazione/sicurezza: interminabili discussioni da una parte e la bossi-fini dall’altra), permettendo un avanzamento. Il compiacimento nel rito della parola mai realizzata, che quasi mai centra davvero le questioni e neppure le approccia nella sostanza effettuale, ha infine estinto il dinosauro. Farne sempre un argomento di lotta di classe al contrario (noi “superiori”, loro “inferiori”), e’ sintomo finale di uno scollamento forse irrimediabile fra astrazione e prassi.

  3. Preciso.
    Anch’io ho avuto la tentazione di andarmi a vedere Natale a Miami (o era Natale in Crociera?), per verificare se riuscivo a ridere (la cosa inquietante è che, nel trailer del film in apertura a un altro film la gente inizia a ridere forte non appena compare la faccia di De Sica o di Boldi – che peraltro non sono più insieme, giusto?), però non ho avuto il coraggio. Riproverò il prossimo Natale.

    E quindi mi resta la domanda: cosa collega il riso collettivo di Bergson/Dupréèl con l’incapacità di ridere di Francesco Piccolo? Non fa parte del gruppo? Quello del pubblico è un riso indotto, coatto?

    Poi aggiungerei Cornacchione, perché eredita una certa comicità anni ’70, Catenacci di Bracardi per esempio:

    http://www.youtube.com/watch?v=ckYZ8z_KwYQ
    http://www.youtube.com/watch?v=1PY2iPXJGaM

    il quale eredita a sua volta la tradizione della macchietta, cioè l’estremizzazione di un personaggio collettivo, operando il suo ribaltamento.

  4. Con immensa vergogna mi tocca ammettere che il video qui presentato di Boldi, io l’ho trovato, in fondo, divertente.

  5. Bello. Il problema coi Vanzina, IMHO, è che fanno la fotografia sociale del pubblico in sala. Chi si riconosce ride (perché non riconosce davvero sé, ma “mio cugino è così, è così, davvero!”), chi no è atterrito, vorrebbe poter uscire dalla foto. Di classe.
    Immagino che temesse parimenti il Pantalone della commedia dell’arte il commerciante colto che voleva distinguersi da questo stereotipo, mentre chi di fatto gli assomigliava lo riconosceva come tipo sociale, e per riderne bene così, senza problemi.
    Ricordiamoci che il comico parte per definizione basso; peccato che troppo spesso oggi si fermi lì.

  6. Beh, io sono molto contento che si sia parlato del comico,
    affare che mi piace molto, non ho avuto tempo di vedere le immagini purtroppo, però ho letto che:
    “Con le risate finte replicate a intervalli di circa 5, 6 secondi, e l’infinita teoria dei tormentoni e non-sense, lo stimolo primario dei jingle e delle tette esibite a ogni pausa, e – al di là di tutto – l’assoluta autoreferenzialità televisiva.”
    Ecco io non capivo perchè non mi divertivo con DriveIn, una volta:
    mi scocciavo, ma mica sono uno serioso,
    mi rompeva il ritmo sempre interrotto fatto apposta per la tibbù che uno va di là a prendersi il caffè e poi a dire la battura alla zia Gina che non ha capito un cazzo ch’è mezza sorda poi ti si rovescia la birra, Ernestina piange, insomma trasmissioni fatte apposta pe’ ‘sta famiglia italiana caciarona distratta, tanto quello che conta è la pubblicità,
    che si senta bella forte e rompa le orecchie al caseggiato.
    Poi l’affare Zelig, che ai tempi de la tenda mi gustava assai,
    è diventato ‘na scatola di baracche,
    un bidone di caramelle mezze sciolte incollate dalla PUBBLICITA’ e dalla solita verve di Bisio,
    il quale farebbe bene a distogliersi da quel marasma.
    Benissimo Albanese che mi fa ‘mpazzire.
    Bergonzoni, comunque bravo, invece e tuttavia è un capitolo ormai a parte.
    Comunque mi son divertito
    a legger ‘sta summa in questo luogo si’ serio.
    MarioB.

  7. Io adoro Crozza.
    Truccato da Veltroni in comizio fa: volevo fare lo statista, guardare lontano, proporre un programma al paese… Poi è venuto uno e dice “ve tolgo er bollo”… Un genio!

  8. … pensavo che io sono un po’ allergica ai comici, ma da sempre, ed è vero che chi ride per uno non ride per l’altro, io e mia sorella siamo incompatibili, tutto ciò che fa ridere lei non fa ridere me e viceversa, ma c’era un solo attore che ci metteva sempre d’accordo, e ripensandoci, ritorna attuale in questo clima post-elettorale, anche leggendo l’intevista Cortellessa- Balestrini sul premio simpatia assegnato a Berlusconi, uno che a me non m’ha fatto mai ridere, e non sono l’unica, visto che ho sentito qualcuno un paio di giorni fa delirare: “ma come si può votare uno che fa le corna?”
    …insomma, non vedo intorno tanta voglia di ridere e, appunto, l’unica risata che mi torna è quella di Troisi, con tutta la buona volontà, in questo momento, l’unica risata che mi riesce è una cosa, quella cosa, come dire…”non ci resta che piangere” ;-)) :-((

  9. @ franz.
    io penso che sia un genio e non me ne vergogno.
    comunque questo articolo è per certi versi absolutely camp.
    alè
    chi

  10. Epperò una domanda mi sgorga come la cascatella dell’Acquacheta: quel genio di Crozza, dopo avere sbertucciato Veltroni per mesi, per anni, descrivendolo e rappresentandolo come un deficiente e un mollusco; e con lui tutti coloro che hanno dileggiato il suo vomitevole buonismo: saranno tutti contenti che ha perso le elezioni, finalmente. D’altra parte lo dice anche Balestrini qui sotto, Berlusconi è più glamour. Obiettivo raggiunto dunque?

    • Un pezzo interessante questo di Christian. Non lo seguo fino in fondo negli esempi di comicità odierna che porta, forse perché li vede da Roma mentre i comici per la maggiore ora sono prevalentemente milanesi provinciali, forse e soprattutto perché senza tv sono dei tagliati fuori dalle battute. Comunque bravo.

  11. No, Chi, veramente scherzavo, facevo il verso al mio amico Gianni Biondillo, che a sua volta scherzava, credo. Christian de Sica forever, senza vergogna. (In tutti i sensi:-)

    E bel pezzo di Raimo.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

L’incredibile vicenda di Baye Lahat. Storie di un paese incivile.

di Marco Rovelli (Ho rintracciato questa vicenda in rete. Per adesso non è ancora uscita dal perimetro sardo. Grazie alla rete...

Il mago dell’Esselunga e il laboratorio della produzione

di Marco Rovelli Quando vai a fare la spesa all'Esselunga ti danno un film in regalo. Grazie, dici. Poi, se...

12 dicembre

Le nostre vite gettate sul tavolo verde della finanza – Per un audit del debito pubblico

di Marco Rovelli Stiamo soffocando di debito pubblico. Ma che cos'è davvero questo debito sovrano? E' da poco uscito, per...

Severino Di Giovanni

di Marco Rovelli Ha scritto Alberto Prunetti sul suo profilo facebook: “La storia dell’anarchico Severino Di Giovanni di Osvaldo Bayer,...

Un altro sogno di Madeleine

di Marco Rovelli Madeleine si guardava intorno, non c'erano più né alto né basso. Il sogno ruotava su se stesso,...
marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: