«Quindici» colpisce ancora

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di Andrea Cortellessa

Esce in libreria, nell’«Universale Economica» Feltrinelli, Quindici. Una rivista e il Sessantotto, un’ampia antologia della rivista uscita fra il ’67 e il ’69. L’ha curata Nanni Balestrini, io ho scritto una postfazione che s’intitola Volevamo la luna. Non se n’è mai stato con le mani in mano, Balestrini. Ma a settantatré anni vive un periodo di straordinario dinamismo. Alla fine del 2007 ha riproposto – per le edizioni DeriveApprodi che da qualche anno stanno ristampando l’intera sua opera narrativa – un altro splendido reperto dei più fulgidi Sixties, il «romanzo multiplo» Tristano che per l’occasione ha remixato e, grazie a una macchina digitale della Xerox, stampato in più di tremila esemplari ciascuno diverso dall’altro (ciò che nel ’66 non era tecnicamente possibile). L’esperimento ha destato grande interesse, non solo e non tanto da parte dei letterati quanto di filosofi, semiologi, persino giuristi ed economisti: i quali hanno di che ragionare sulle implicazioni che questo gesto comporta nel nostro modo di concepire un libro o una qualsiasi opera dell’ingegno (se ne parlerà il 17 e il 18 maggio, a Venezia, in un convegno promosso da Paolo Fabbri allo IUAV). Balestrini intanto continua, sempre forbici alla mano, la sua sorprendente attività di artista visivo, pure all’insegna della combinatoria dei linguaggi (al festival di poesia di Parma, il 18 giugno, si inaugura una sua antologica). L’ho incontrato a Roma, nella sua casa di Via Merulana.

Andrea Cortellessa: Perché, oggi, di nuovo Quindici?

Nanni Balestrini: Avremmo dovuto farlo già da un pezzo, per la verità. Libri come questo sono complicati, bisogna procurarsi i diritti di tanti testi, le autorizzazioni ecc. A me premeva che uscisse da Feltrinelli perché l’ho sempre vista come il suo editore «naturale»: all’epoca di «Quindici» gran parte della redazione e dei collaboratori era composta da suoi redattori, come eravamo Enrico Filippini, Valerio Riva e io stesso, o da autori comunque da Feltrinelli pubblicati come Giuliani, Manganelli, Arbasino e Sanguineti. C’è in questi casi sempre un’occasione «esterna», a far decidere le case editrici; stavolta è la ricorrenza dei quarant’anni del Sessantotto. La rivista, che fu tra le prime a ospitare i documenti delle proteste studentesche, fu però anche molto altro: e il libro mi pare che lo mostri. Peraltro non mi spiace che lo si legga anche come un libro del, o sul, Sessantotto: perché al riguardo sono usciti tanti libri che non mi esaltano.

AC: Per lo più testimonianze soggettive, per non dire intime.

NB: Quando quella fu un’esperienza squisitamente collettiva. Neppure al cinema s’è visto granché. C’era quel terribile La meglio gioventù, di un buonismo sdolcinato… ma anche il film di Bertolucci, The Dreamers… o Buongiorno notte di Bellocchio… magari meritevoli su altri piani, ma in quel tempo non hanno scavato… restano sempre fermi al privato. L’antologia di una rivista è perfetta, invece, per cogliere questo spirito pubblico, e collettivo, che al tempo ci prese tutti.

AC: La rivista era completamente autogestita; c’erano degli editori (oltre a Feltrinelli, Bompiani, Einaudi ed Etas Kompass) che le fornivano pubblicità, ma a questo si limitava la loro presenza (basti vedere come certi loro libri da «Quindici» venissero stroncati). Oggi sarebbe concepibile una simile libertà?

NB: Era tutto all’insegna del volontariato, come si direbbe oggi. Tutte le collaborazioni, e anche il lavoro redazionale (che si faceva nella mia casa di allora, a Roma), erano a titolo del tutto gratuito. Ci aiutò molto l’invenzione grafica di Giuseppe Trevisani, che aboliva in sostanza l’impaginazione: gli articoli si susseguivano l’un l’altro senza interruzione salvo autore e titolo, una specie di salame di parole… non c’erano immagini…

AC: … tranne i famosi manifesti…

NB: … sì, quella fu una mia idea, dovuta al grande formato della rivista, che permetteva di piegarli dentro senza problemi. Fare una rivista oggi non è difficile. Il problema è diffonderla. «Quindici» arrivava persino nelle edicole, ma oggi le riviste non hanno accesso neppure alle librerie, che una volta erano il loro luogo deputato, quello dove le novità si incontravano, si confrontavano, si discutevano…

AC: … spazi oggi deputati ad altro. Tu di riviste ne hai fatte tante. L’ultima che ha segnato la nostra cultura è stata «Alfabeta»: che pure, dal ’79 all’88, ha raggiunto le edicole. Certe trasformazioni dell’economia già allora erano avvertibili, però come mai fare una rivista allora aveva un senso che oggi non pare avere?

NB: Il problema è che oggi non esistono più gruppi di lavoro, tra scrittori e intellettuali, che abbiano idee e obiettivi comuni. Una rivista nasce sempre per questo. Sono i tempi che corrono, quelli che spingono le persone a incontrarsi. «Quindici» fu il prodotto della fase ascensionale delle innovazioni culturali e sociali, «Alfabeta» invece intendeva contrastare la marea montante del riflusso, la cappa del ritorno all’ordine.

AC: «Alfabeta» fu dunque, vista da oggi, una forma di resistenza?

NB: Esattamente. Poi è venuta un’altra generazione.

AC: C’è qualcuno, fra quelli che vennero travolti dai «fatti», negli anni Settanta, che li ha attraversati e si è poi riproposto in modo convincente?

NB: Beh, Celati… coi movimenti ha avuto un rapporto tutto suo ma quell’aria l’ha respirata eccome… poi Tondelli senz’altro…

AC: Sì, Tondelli è una cartina di tornasole di quella generazione. Che nasce nell’humus dei movimenti per poi affrontare un percorso solitario, distaccarsi da quel clima… il suo è un percorso interrotto dalla morte precoce, ma che ha avuto grande influsso. Solo che i tanti giovani che l’hanno preso a modello tranne pochissime eccezioni sembrano guardare solo alla parte terminale, agli esiti del suo percorso. Senza capire che, amputandolo delle sue radici, non se ne percepisce lo spessore, il vero significato.

NB: Il rinnovamento seguente è quello degli anni Novanta. Ottonieri, Voce, Nove, Scarpa…

AC: Dunque termina «Alfabeta» e spuntano da un lato il Gruppo ’93, dall’altro i Cannibali. Due gruppi che però, in quanto tali, si disgregano subito lasciando una serie di percorsi individuali, più o meno interessanti…

NB: Forse fu un equivoco proprio il considerarsi «gruppo», da parte loro. Non è più tempo di gruppi, il nostro.

AC: Ma perché?

NB: Dipende dallo strapotere del mercato, dall’ideologia del successo editoriale come unico obbiettivo.

AC: Ai vostri tempi non era un fine, semmai un mezzo.

NB: Se il successo editoriale fosse stato considerato l’unico obbiettivo non avremmo avuto Gadda, per dire. Ha ragione Arbasino, che da sempre protesta sulle classifiche di vendita. Che senso ha, per un lettore, sapere qual è il libro più venduto? Allora il miglior ristorante è McDonald’s! Le dinamiche di gruppo abbiamo provato a restaurarle col festival Ricercare a Reggio Emilia… ma non era neppure quella un’iniziativa dei giovani: come venivano, poi se ne andavano. C’era un po’ di paternalismo, via. Il punto è che la preminenza del mercato mette gli autori in feroce concorrenza tra loro. Quando lavoravo nell’editoria, negli anni Sessanta e Settanta, era considerato normale pubblicare libri senza mercato: era un investimento sul futuro. Nelle case editrici del resto lavoravano tanti intellettuali…

AC: … il che è testimoniato proprio dai redattori di «Quindici», che erano in gran parte redattori editoriali…

NB:… mentre oggi gli intellettuali sono relegati in ruoli marginali, da collaboratori esterni. E spadroneggiano i manager. L’ultimo parere, sulla pubblicazione di un libro, lo dà l’ufficio commerciale. Regna il marketing, insomma: come in qualsiasi altra impresa.

AC: Magari alcuni di loro un certo spazio all’innovazione sarebbero disposti a lasciarlo; ma subentra un tipico fenomeno del nostro tempo che è l’introiezione preventiva del veto. Sono i redattori editoriali che non osano rischiare: più realisti del re. Invece negli anni Sessanta un libro radicale come Tristano poteva uscire in una collana importante come «I Narratori» di Feltrinelli. Questo libro è un vero e proprio segnatempo. Dà il senso di quel tempo, ma anche di questo. Nel carattere di uno come Giangiacomo Feltrinelli c’era poi una componente di sfida, di provocazione nei confronti dei propri rivali: vedete? siamo in grado di far soldi anche con questa roba! Oggi non ne circola molto di questo spirito.

NB: Questo è stato sempre anche il nostro, di spirito; per questo ci trovavamo bene con lui. Anche in termini economici era il tempo del boom, un tempo tutto proiettato in avanti, si viveva con una tensione, un’emozione… la voglia di lasciarsi alle spalle la farragine dell’Italia rurale, eccetera. L’elemento di scommessa, di sfida come dici tu, era anche quello una forma di marketing. Ma non quello dall’orizzonte ristretto, tutto in difesa, che domina oggi. Si doveva capovolgere una debolezza – il ridotto appeal commerciale – in un elemento di forza. Magari attraverso la provocazione, lo scandalo. Se guardiamo la pubblicità editoriale di quel tempo, questa cosa si capisce al volo. E tanti libri di quel tempo si riuscirono anche a vendere, infatti.

AC: Questa è una cosa molto importante. Anche oggi si fa innovazione culturale ed editoriale, ma quasi mai accompagnata da un’adeguata immaginazione editoriale. Non ci si sforza di trovare la giusta comunicazione, trovare l’aria adeguata a far sopravvivere quella che consideriamo cultura. Naturalmente servirebbero investimenti… quelli che uno come Feltrinelli poteva fare e che oggi non si possono permettere i piccoli editori nei quali s’è dovuta rifugiare la ricerca letteraria…

NB: Il bello dell’editoria, nonché il suo lato stressante ovviamente, è che ogni titolo è una novità. Nel senso che ogni libro che esce è un unicum, una scommessa. Che ha una sua storia, una sua identità; e deve dunque avere un suo lancio specifico. Non si possono concepire in serie, in batteria. In editoria io mi sono sempre occupato del lato promozionale. L’ufficio stampa, in una casa editrice, è tutto.

AC: La comunicazione col pubblico è stata sempre un tuo obiettivo. Il che consente anche di capire le «svolte» della tua produzione narrativa. In ogni periodo, da Vogliamo tutto a Sandokan, i tuoi libri – al di là del loro valore specifico – hanno sempre voluto segnare il loro tempo. E ci sono riusciti: perché hanno lasciato un segno, ma anche perché recano i segni del loro tempo. Oggi gli scrittori, anche i più bravi, sembrano meno preoccupati di fare qualcosa del genere.

NB: Ogni tempo ha la sua realtà, il suo orizzonte. Gli anni Sessanta furono un grande laboratorio che produsse strumenti in grado di interpretare quel tempo. Negli anni Settanta ho poi incontrato dei fatti che mi appassionavano, mi incuriosivano. Oggi non saprei davvero a cosa appassionarmi, e immagino che gli scrittori più giovani a loro volta facciano fatica… già negli anni Ottanta sono stato ridotto ad appassionarmi agli ultrà del calcio… non che mi piacessero loro, o il calcio che in quanto tale detesto, ma il mondo di tensioni e di energie che si veniva a creare…

AC: Perché ci appassioni, un fenomeno, non deve farlo del resto per forza in positivo. Quando scrivi Sandokan non è che ti attragga la camorra con la sua sottocultura… ti appassiona quel mondo, un mondo di conflitti dove ci sono anche persone che a quella cultura si ribellano…

NB: Come ai tempi dei Furiosi per il calcio, mi sono incuriosito di questa dimensione enorme, questo coinvolgimento totale di un territorio, di una società… una dimensione imperiale, sbalorditiva… certo qui non c’era partecipazione, ma interesse sì: per un fenomeno che appare oggi sempre più uno dei problemi più grandi del nostro paese. Oggi fenomeni così giganteschi sembrano espulsi dalla narrativa che va per la maggiore, o dal cinema… non parliamo del teatro. Ai tempi di «Quindici» quello teatrale era il discorso trainante della cultura… oggi ci sono artisti interessanti – penso ad Antonio Rezza, al Teatro Valdoca o a un gruppo di giovani, l’Accademia degli Artefatti, che ha fatto delle messe in scena bellissime di un nuovo drammaturgo inglese, Martin Crimp – ma non hanno nessuna reale udienza nella società, nessuna visibilità.

AC: Sembra che oggi ci sia spazio solo per Ascanio Celestini. Anche Sanguineti stravede per lui, non so proprio perché. Certo il suo, come quello di Marco Paolini che lo fa molto meglio, è un teatro politico. Ma solo a livello contenutistico. Da quando l’arte è moderna, invece, la sua politicità più profonda consiste nello scontrarsi di una grande tensione linguistica e formale con una realtà urgente e appassionante, come dici tu, che deve trovare nell’arte una sua risposta. Anche questo è un conflitto: dal quale né il linguaggio dell’arte né il senso del suo tempo possono restare immuni. E questo scontro, nel linguaggio teatrale di uno come Celestini, io proprio non ce lo trovo.

NB: Questo impoverimento si vede ancora meglio nel cinema. In Italia non sono neppure più capaci di fare delle commedie che funzionino. Una cosa che mi colpisce, nel cinema italiano di oggi, è che non ci sono più cattivi. Sono tutti buoni! Anche quello che sembra cattivo all’inizio, alla fine si scopre che è buono pure lui. Ma senza cattivi non c’è dramma, non c’è narrazione che tenga. Guarda che cattivi meravigliosi ci sono nel cinema americano! Ma proprio cattivi cattivi…

AC: … senza giustificazioni…

NB: …. sì, che fanno cose tremende! Prendi per esempio questo film sui movimenti femministi degli anni Settanta, Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi. Una cosa lodevolissima, per carità. Dopo un po’ però mi sono chiesto, si vedrà a un certo punto il conflitto con gli uomini, si vedranno degli uomini cattivi…. invece no, anche lì gli uomini sono tutti dei bonaccioni! Oppure Cover boy di Carmine Amoroso, sui precari gli immigrati eccetera. Anche qui nessun padrone cattivo, niente. Mentre se la stessa storia la racconta Ken Loach sono cattivi tutti, anche gli operai!

AC: Insomma, il cinema, il teatro e la narrativa di oggi non hanno più tensione drammatica perché hanno espulso da sé la dimensione del conflitto. Anche la campagna elettorale appena consumata, del resto, è stata tutta all’insegna dell’eliminazione dei cattivi. Sembrava che di cattivi in Italia improvvisamente non ce ne fossero più.

NB: Una volta almeno avevamo Berlusconi. Ora invece il motto è diventato: Vogliamoci tutti bene. D’altronde questo è un paese che riconduce sempre tutto all’orizzonte della famiglia, la quale è lì per assolverci, appunto.

AC: Come la Chiesa, del resto. Dopo tutto quello che si è visto, e con tutto quello che succede nel mondo, questo è un paese che negli anni Duemila sembra aver voglia di pensare solo alla famiglia. Il che riconferma un carattere di lunga durata dell’antropologia italiana. Che però per un certo tempo un po’ si era messo da parte; oppure interpretato con ben altro piglio. Quella dei Pugni in tasca era sì una famiglia ma anche un ospedale psichiatrico, un lager, un campo di battaglia!

NB: Ma anche nei film americani, da Robert Altman a Paul Thomas Anderson, la famiglia è rappresentata come è veramente: un luogo di massacro.

AC: Già, come diceva Manganelli (che non a caso cita uno scrittore decisamente non italiano come Orwell) in uno dei pezzi raccolti da Marco Belpoliti in Mammifero italiano: «Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge; questo la dice lunga su quel che la gente pensa del matrimonio».

NB: Statisticamente, la maggior parte degli omicidi avviene in famiglia. Anche lì negli anni Settanta, da Laing a Cooper, certe cose erano state spiegate in modo definitivo. E oggi vengono bellamente ignorate. Non sarebbe invece questo un buon argomento? Ma è sempre il buonismo che ce lo impedisce. Gli italiani non possono fare i conti con se stessi, con la propria storia individuale e collettiva. Il fascismo in fondo non ha fatto nulla di male, e anche papà era un buon diavolo.

AC: Mai parlare male di Garibaldi o della mamma! Il problema è che il disagio famigliare viene sì affrontato, ma sempre già mirando all’ottica della riconciliazione, del riequilibrio finale del disordine. L’orizzonte della ricomposizione è iscritto già dall’inizio.

NB: Che è esattamente il contrario della realtà: dove all’apparenza nella famiglia regnano l’ordine e l’equilibrio, che nascondono le magagne che vengono fuori col tempo. Guarda per esempio come tratta invece questa cosa Carver! Questo familismo allargato produce poi l’egemonia della mafia.

AC: Anche lì, difficilmente in Italia si produce qualcosa di radicale. Penso a un film di qualche anno fa di Abel Ferrara, The Funeral, dove proprio la famiglia e la mafia erano il tema di una sinfonia nera che alla fine non lasciava nulla, ma proprio nulla in piedi… Nella nostra narrativa, su carta o per immagini, si è terrorizzati dall’esperienza della rottura. Che invece fa così parte della nostra esistenza… tutti noi la conosciamo, tutti noi vediamo come l’orizzonte non si ricomponga necessariamente, come certe rotture restino lasciandoci danneggiati definitivamente.

NB: Una delle cose interessanti dei Cannibali era che di fronte a queste cose non si tiravano indietro, anzi. Ma con l’eccezione di Ammaniti, che sono riusciti a trasformare in un’altra cosa, non mi pare che gli altri siano riusciti mai a imporsi davvero. Oggi prevalgono scrittori che si rifanno a modelli narrativi precedenti, collaudati, senza rischiare niente, fanno ancora il romanzo «ben scritto». Piperno, per esempio… poi c’è questa voga del noir…

AC: Ah, questo m’interessa molto!

NB: Mah, io lo apprezzo molto ma appunto in quanto noir. Il noir è sempre stato paraletteratura, perfetta per passare il tempo in treno. È produzione di consumo, come le canzonette o com’è sempre stata la maggior parte del cinema.

AC: Invece oggi prevale una certa ideologia secondo la quale ciò che consuma la maggioranza è popolare, e in quanto tale più democratico. Non solo, ma diversi autori oggi per lo più in buona fede – penso a Carlotto o a Evangelisti – vogliono usare questa forma di narrazione a larghissimo consumo per trasmettere messaggi politici, rappresentazioni della realtà che invece non arretrino di fronte al negativo, al male, eccetera. Che ne pensi di questo?

NB: Ma anche in passato autori di genere sono riusciti a sfondare le convenzioni, pensa a Chandler. Solo che i meccanismi del genere ti impongono di affrontare la realtà con un’unica chiave di lettura, in questo caso il crimine.

AC: Un po’ l’opposto di quello che si constatava in una certa narrativa neoborghese che ha eliminato i cattivi. Qui invece ci sono solo cattivi (sino, in certi casi, a più o meno preterintenzionalmente glorificarli). Da una parte c’è un pubblico che vuole essere a tutti i costi rassicurato, dall’altra un pubblico che vuole solo essere terrorizzato o orripilato.

NB: Tutti e due modi per evadere dal conflitto, in effetti. A proposito dell’ideologia dell’arte popolare, a me ha sempre dato fastidio il gusto di una certa sinistra, per esempio in una certa parte del «manifesto», per il trash, per i B movies, le canzonette, la cultura di massa insomma. Anche negli anni Sessanta, Eco la trovava interessante e la studiava: ma appunto in quanto tale. E poi se n’è appropriato: ma per fare delle narrazioni al quadrato. Anche questo s’è sempre fatto, dai surrealisti per esempio. Altra cosa è goderne in modo scriteriato trovandolo, per così dire, in natura. Questo ha avuto effetti deleteri sull’abbassamento del gusto. Senza parlare dello snobismo mostruoso che denota.

AC: Già. Perché inebriarsi del becero a partire da una cultura sofisticata è una cosa, ammannirlo a un pubblico giovane e impreparato è tutto un altro discorso. Quel pubblico sarà educato, per così dire, a considerare quella, arte. E a vedere tutto il resto come astruso, incomprensibile, illegittimo. Viene meno, così, tutto il sistema di ricezione postmodernista che proprio Eco ha spiegato meglio di tutti, il double coding.

NB: Così assistiamo anche a forme di reazione che estremizzano, al contrario, lo squisito e l’elitario in quanto tali… Prassitele…

AC: Anche qui, in un certo senso, si evade dal conflitto. Si creano due monoculture che non dialogano l’una con l’altra, non si corrompono, non si mettono in discussione. Cioè esattamente quello che i grandi postmodernisti americani hanno fatto e continuano a fare.

NB: Siamo sempre al familismo, al buonismo… bisogna sempre rassicurarsi e rassicurare, piacere il più possibile a tutti, convincerli che i loro gusti vanno benissimo, non vanno educati in alcun modo. Guarda Baricco!

AC: Tutto questo assume ormai i contorni di un’epoca culturale. Cosa sia stato il berlusconismo, al di là e ben prima dell’attività politica di Berlusconi, lo sappiamo da tempo e infatti comincia a venire storicizzato. Mi pare che il veltronismo, che è una sua variante più raffinata e sottile, cominci a far sentire i suoi effetti.

NB: Sì, Vogliamoci tutti bene. L’ho anche votato, Veltroni, ma la cultura che esprime… personalmente Berlusconi mi è più simpatico, se dovessi scegliere tra i due quello con cui fare una scampagnata non avrei dubbi. D’altra parte lui esprime una parte del temperamento italiano che tutti abbiamo dentro, ben nascosta: la vigliaccheria, la cialtronaggine, l’arroganza, la menzogna, il vittimismo aggressivo. È un riassunto vivente di tutto ciò che l’educazione e la cultura, una volta, servivano a reprimere in ciascuno di noi. Per questo Berlusconi è incompatibile con l’educazione e con la cultura, non dipende neppure dalla sua volontà, sono proprio gli opposti che si respingono.

AC: Quest’analisi è verosimile. Ma giustifica allora chi, tra i più intelligenti dei berlusconiani, pensa o finge di pensare che proprio per questo Berlusconi è l’unico politico davvero democratico. Quello che ha capito gli italiani, li ha interpretati, li ha giustificati.

NB: Come la mamma!

AC: Mentre noi comunisti li abbiamo sempre moralisticamente repressi.

NB: Ma andavano repressi! Cos’abbiamo contro la morale?

AC: Fai l’elogio della morale pubblica?

NB: Chi ha detto che a scuola gli alunni dovrebbero riprendere ad alzarsi quando entra l’insegnante? Ma è normale, quando entra qualcuno mi alzo e lo saluto, che c’è di strano? Cos’abbiamo contro i gesti di cortesia, di educazione? Ma guarda come la gente cammina per strada, guida l’automobile, parla al telefono in treno! Guarda invece la società giapponese. Loro vivono in grandi concentrazioni urbane, milioni di persone in pochi chilometri quadrati, e si sono educati a una forma di cortesia estrema, cerimoniale, continua. La concentrazione urbanistica associata al crollo del rispetto reciproco porta a una situazione come quella degli Stati Uniti, dove la gente si scanna per strada tutti i giorni.

AC: Sai benissimo che la sinistra giapponese ha sempre protestato contro questo formalismo che interpreta come perdita della libertà individuale.

NB: Ma certo, non bisogna esagerare. In Giappone, come in altre società più formali della nostra, questa repressione la si paga con lo scatenarsi privato in tutte le forme…

AC: Diciamo che il disordine privato è il corrispettivo di quest’ordine collettivo. Ogni forma di società consiste a ben vedere proprio in questo: nel pagare corrispettivi. In Italia le due grandi culture che abbiamo evocato, il berlusconismo e il veltronismo, concordano esattamente in questo: che non si debba mai pagare il conto.

NB: La cosa più odiata, non a caso, sono le tasse. Se il motto di Veltroni è Vogliamoci tutti bene, quello di Berlusconi è Così fan tutti. Ci aveva già provato Craxi ma non passò. Allora ci fu una bellissima reazione, contro l’arroganza del potere. Oggi pare impossibile. Ci restano solo i giudici.

AC: Che proprio tu faccia l’elogio della magistratura poi è il colmo!

NB: D’accordo, ai tempi del processo 7 aprile non furono molto corretti. Però nella sostanza non avevano torto: io ero davvero un sovversivo, ero contento di esserlo e sono contento di esserlo stato. Ma dal loro punto di vista andavo perseguito come tale.

AC: Non come un terrorista, però.

NB: Infatti da quello sono stato assolto. Guarda, ti dirò: in Italia la cosa migliore sono i giudici. La famiglia ci assolve, la Chiesa ci assolve, ci restano solo loro. Non a caso Berlusconi li odia, gli vuole fare l’esame psichiatrico.

AC: Sì, lui che ha il terrore dei comunisti ha detto l’unica cosa squisitamente stalinista che si sia sentita in questo paese da decenni! La psichiatria come strumento di governo, manco fossimo negli anni Trenta! Senti. Abbiamo cominciato con Quindici, vorrei finire con Tristano. Come mai ora è di nuovo il tempo di Tristano?

NB: Anche in questo caso, come in Quindici con la ricorrenza del Sessantotto, c’è stata un’occasione esterna e cioè la disponibilità di questa macchina digitale della Xerox che permette di fare copie tutte diverse, il che ai tempi non era possibile. D’altra parte sono sempre stato affascinato da questa possibilità combinatoria, le mie poesie di allora erano già improntate a questo principio.

AC: Mi hai detto che stai pensando a trasportare il procedimento anche in forma cinematografica…

NB: Sì, l’idea è quella di ricombinare a caso frammenti di sequenze, storie e ambientazioni. Si potrebbe trasporre il tutto su un cd che ogni volta dia una versione diversa della storia annullando le precedenti. Anche al cinema avrebbe senso: ogni spettacolo una storia diversa. Per me è una forma di realismo estremo: ogni giorni fai più o meno le stesse cose ma ogni giorno ti capita qualche variazione a cui non fai caso. Ogni volta insomma è una storia un po’ diversa, imprevedibile. E la storia del giorno prima in realtà non la puoi mai replicare esattamente.

AC: Ma questo, come in Tristano, andrebbe realizzato con materiali ritagliati, desunti dal repertorio?

NB: No, bisogna rendere il tutto più omogeneo, più realistico. Bisogna girare dei frammenti ex novo, che poi si ricombinano. Altrimenti viene fuori un altro tipo di operazione…

AC: … un Blob

NB : … oppure un’altra cosa straordinaria che è La verifica incerta di Baruchello e Grifi, alla quale Ghezzi del resto s’è dichiaratamente ispirato. Quella è l’estetica del collage, come nel vecchio Tristano diciamo… no, qui vorrei proprio fare una cosa molto realistica, ex novo. Scrivilo: cerco un produttore.

 

[Parte di questa intervista è apparsa su Tuttolibri  del 19/4/08, pagg. VI-VII.]

 

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18 Commenti

  1. Voglio essere il primo: per onorare Balestrini.
    E ringraziare Cortellessa e Pinto.

    Oggi, infatti, posso vantarmi di aver trasportato due pacchi interi
    di “Vogliamo tutto”, in treno, da Milano a Torino, assieme a lui,
    per la presentazione ai compagni.

    Bei tempi, malgrado tutto, a pensare che già d’allora
    consideravamo una feccia Giuliano Ferrara, segretario in
    quest’ultima città, della federazione del PCI.

  2. Solo sulla situazione culturale/editoriale

    Dice Cortellessa: “ma subentra un tipico fenomeno del nostro tempo che è l’introiezione preventiva del veto. Sono i redattori editoriali che non osano rischiare: più realisti del re. ”

    E dice Balestrini: “E tanti libri di quel tempo si riuscirono anche a vendere, infatti.”

    E dice Cortellessa: “Questa è una cosa molto importante. Anche oggi si fa innovazione culturale ed editoriale, ma quasi mai accompagnata da un’adeguata immaginazione editoriale. Non ci si sforza di trovare la giusta comunicazione, trovare l’aria adeguata a far sopravvivere quella che consideriamo cultura. …”

    Direi che non ci voleva molto coraggio, allora, a fare certi libri. Nelle case editrici, lo spirito del tempo richiedeva proprio quello, gli editori non volevano altro, e quei libri in effetti si vendevano, (e bisogna dire anche che nessuno pensava di ricavare il 20% dagli investimenti, anche se il denaro era poco, la soddisfazione era grande.)
    Evidentemente l’innovazione culturale ed editoriale di oggi non è “davvero” innovativa, o non risponde ai bisogni del pubblico, che invece allora c’era e aveva quel bisogno, benché persino allora fosse in qualche modo di nicchia, benchè di grossa nicchia.
    La curiosità per certi libri, Il relativo successo anche economico di quei libri non nasceva negli uffici stampa, (è curioso che Balestrini lo dica) se non in misura molto relativa, ma dal tempo, dal pulviscolo di spore intellettuali che si insinuava ovunque, compresi i gangli produttivi dell’industria culturale, e da una società che proprio perché era in fortissima espansione economica aveva un settore ricerca&sviluppo sviluppatissimo anche in campo culturale.

    Tutto questo è finito, né io credo che – a parte il giustissimo lavoro testimoniale e di memoria – sia possibile riportarlo in vita. Ogni tempo deve necessariamente trovare altre strade, non si va avanti con la testa girata.
    In fondo siamo tutti sintomatici.

    (Son d’accordo con quasi tutto quello che dice NB, persino sul fatto che per una scampagnata preferirei Berlusconi, il buonismo di Uolter mi ha quasi fatto venire il diabete, salvo scoprire che lo zucchero era un surrogato.)

  3. una mangiata con Giuliano Ferrara io me la farei, a patto che non ci sia il fratello Giorgio
    effeffe

  4. scusate per la doppia firma di prima residuato di un precedente commento a quattro mani. comunque Iglesia lo vedo a pranzo. Il cielo è azzurro, il mare calmo, quasi quasi telefono a Ferrara
    effeffe

  5. anche a me piacciono i feti

    : li mangio dentro un’ostia,
    come una volta si ingoiavano

    come le medicine amare

  6. Leggendo questa splendida intervista faccio il solito pensiero. Le persone di sinistra hanno un’idea sbagliata della politica, la quale avrebbe a che fare con la morale. Quest’idea, a sua volta, deriva da una concezione sbagliata dell’uomo. Molto divertente, poi, il fatto che editoria e politica siano ritenuti argomenti vicini, attigui, quasi intercambiabili. Quanta ‘fede nel linguaggio’…

  7. @ un borghese – le persone di sinistra hanno l’idea giusta che la politica abbia a che fare con l’etica.

  8. in rapporto al link segnalato nel secondo commento, è interessante l’accenno che c’è nell’intervista alla questione del contenuto “politico” e della forma “impolitica”. la materia che tratta saviano è, come si dice in questi casi, scottante e in rapporto diretto con la nostra vita (un rapporto devastante, per altro). eppure viene letta secondo la cifra indiretta e stilizzante dell’epica (cosa che capita quasi sempre per la produzione italiana specializzata nel genere “misteri italiani” – dalla strategia della tensione al terrorismo etc.). in qualche modo una forma collocabile disinnesca il contenuto incollocabile.

    in questo senso andrebbe letta, mi sembra, anche la questione del rischio editoriale. il prodotto dell’industria editorale come merce ha solo valore di scambio (sarà una lettura vetero-marxista ma, da questo punto di vista, dai tempi dell’ “invenzione” della merce e della sua critica, mi sembra che non sia capitato molto). nel caso lo scambio vale come trasparenza, riconoscibilità, collocabilità. tant’è che libri come tristano o altri della stessa stagione era virati in modo radicale verso il valore d’uso e, paradossalmente, erano molto più leggibili (proprio perché andavo letti e non solo riconosciuti) di molta produzione corrente.

  9. Ho letto con curiosità l’intervista che mi fa conoscere N Balestreni. Mi ha sorpresa con la sua vista senza concessione. La parte a proposito della mancanza della tensione drammatica è appassionante: i cattivi assenti dell’arte, non l’avevo mai pensato cosi. Forse il nostro mondo è già troppo fragile: l’arte propone un conforto.

  10. Mah,
    interessante abbastanza,
    troppi rimpianti,
    poca conoscenza e sensibilità per il quotidiano,
    mi pare che NB viva in una sua mentale casetta piccolina in Canadà,

    però e tuttavia per ‘sta cosa de la scampagnata co’ Berlouscòn gli darei ‘no schiaffo, a NB, e poi dice, tira fuori gli snob, lui,
    non sono divertenti nè quel coso Ueltròn
    nè il suo nanospecchio, no,
    fanno pietà se non schifo

    MarioB.

  11. ottima intervista. molto interessante il discorso sui libri senza mercato come investimento sul futuro (del libro, della casa editrice e dell’autore). non a caso, sono i libri che continuiamo a leggere anche trenta-quarant’anni dopo, trovandovi sempre qualcosa di nuovo. a quei tempi, tuttavia, anche i libri che avevano mercato erano in larga parte buoni libri. oggi non è più così. è un dato storico, c’è mercato e mercato. dipende da chi l’ha in mano e lo fa.

  12. @Biondillo

    Bada però che io non dico che deve esserci semplice accettazione, la visione è importante.
    Dico solo che l’analisi deve essere realistica, perché la visione sia efficace.

    Del resto, come forse avete letto, certe innovazioni nascono ancora all’interno della macchina produttiva, e per ragioni economiche.
    Robert Miller intende capovolgere il sistema degli anticipi editoriali agli autori di bestsellers.
    Niente più anticipi, dice Miller, che assorbono troppe risorse e poi spingono le case editrici a puntare sui prodotti che sono costati di più per recuperare l’investimento: “la nostra intenzione è di pubblicare efficacemente libri che altrimenti non riuscirebbero a emergere in questo ambiente crescente di “grandi titoli”, in cui gli autori riconosciuti subiscono una pressione enorme…mentre i nuovi autori trovano sempre più difficile trovare un editore”.
    Si tornerebbe, se ho ben capito, da un investimento prevalente sui singoli titoli, per i quali i milioni di altri titoli servono prevalentemente come zoccolo, a un investimento più diffuso su un numero maggiore di titoli che verrebbero a costare di meno.
    Siccome l’altro corno del meccanismo su cui agirebbero è però quelle delle rese, che non sarebbero più possibili, forse questo è solo il cavallo di troia per pagare meno gli autori e guadagnare molto di più in quanto major.
    Il libraio che non può rendere, cosa comprerà, alla fine?
    Potrebbe essere una nuova catastrofe per la biodiversità libraria, come dicono alcuni, e forse no, vedremo, ma per l’editoria commerciale è una enorme novità.
    E visto che dopo un po’ arriva qui quello che fanno lì, e che l’editoria commerciale è la madre di tutte le editorie, sto in campana.

    Del resto, e poi lascio, perché sto andando OT, penso che oggi il nostro massimo problema siano le grandi compagnie, cosa di cui 40 fa non ci occupavamo, compagnie il cui prodotto interno lordo è pari a quello di molti stati, con leggi interne parallele e non controllabili dagli ordinamenti giuridici degli stati, incontrollabili in quanto tali nella loro struttura finanziaria, opache, misteriose e globali. E le grandi industrie culturali sono grandi compagnie. Solo nel nostro piccolo mondo mediterraneo pensiamo di poterci parlate tra noi.
    (Guido Rossi, Il mercato d’azzardo, Adelphi, anche se ne ho capito poco, quel che ho capito mi ha ipnotizzata, come si può vedere.)

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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