Miracolo a Milano (Roma)

Dalla neue Musik alla neue Literaturoper

di Cristoforo Prodan

Miracolo a Milano

Teatro musicale contemporaneo, questa è la definizione che ci suggerisce, con insolita e rassicurante premura definitoria, il programma di sala. Ma leggendo poi all’interno troviamo: Miracolo a Milano / Teatro di Musica in sei scene di Giorgio Battistelli / dal “Progetto Miracolo a Milano” / di Daniele Abbado e Giorgio Battistelli. Si noti la sottigliezza lessicale: non teatro “in” musica, né teatro “musicale”, ma teatro “di” musica. E in effetti è Battistelli stesso, nell’intervista contenuta nel programma, che parla di “teatro di musica”. Alla domanda «Cosa intende indicare con il sottotitolo “teatro di musica”, apposto al titolo Miracolo a Milano?», Battistelli risponde: «Una forma meno convenzionale, un “teatro di musica”, dove la musica è il veicolo privilegiato che mi ha permesso di entrare nel testo del Miracolo a Milano». Eppure Miracolo a Milano, lo spettacolo liberamente tratto dal soggetto/romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini e dall’omonimo film di Vittorio De Sica, allestito e rappresentato alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma il 26 e 27 giugno scorsi, pur nascendo da un’idea originale del compositore contemporaneo Giorgio Battistelli e del regista teatrale Daniele Abbado, non è affatto classificabile in maniera così semplicistica.

C’è musica strumentale e vocale, dal vivo e registrata, “nastro magnetico” e live electronics, come si usa dire in gergo; c’è un’azione teatrale, una scenografia, una storia da narrare, e ci sono tanti attori e mimi. Rara la parola, ancor più raro il canto. D’altronde già nelle ormai piccole e poche realtà associazionistiche di musica contemporanea la commistione con le “altre arti” è un obiettivo programmatico prestabilito; anzi essenziale, laddove l’eredità della neue Musik e di tutte le avanguardie del Novecento ha lasciato una molteplicità di linguaggi e un modo sostanzialmente anarchico di porsi nei confronti della composizione musicale contemporanea. Addirittura nello statuto di un’associazione di musica contemporanea (Musica verticale) come primo fine statutario si proclama: «La realizzazione di produzioni artistiche, nelle quali la musica contemporanea ed elettroacustica si attui come autonomo mezzo d’espressione, oppure interagisca con le arti visive, coreutiche, drammaturgiche, cinetelevisive, ecc.». L’autonomia della musica, il “linguaggio privilegiato”, che permette di “entrare” in un testo teatrale appunto.
 
E tuttavia il rapporto tra parola e musica è sempre stato conflittuale. Tra il XVI e XVII secolo nascono infatti in Occidente essenzialmente due forme di teatro: il melodramma italiano, che si rifà alla tragedia greca, e il teatro di prosa elisabettiano, erede delle tragedie di Seneca. Laddove il melodramma, a partire dal “recitar cantando” di Monteverdi, punta all’unità tra parola e musica, l’altro, con Shakespeare, si rifà esclusivamente al dramma parlato. Col tempo l’elemento sonoro e musicale del melodramma diviene prevalente, e il recitativo lascia sempre più spazio al canto. La musica nel melodramma diventa così una sorta di metalinguaggio, con significative rivendicazioni autonomistiche (le Ouverture, le Sinfonie d’Opera). Dall’altra parte il testo recitato si arricchisce dell’azione scenica, rinunciando totalmente a qualsiasi spiazzamento o suggestione di tipo musicale.
 
In entrambi i casi si accentua la frattura tra azione teatrale o scenico-musicale e il pubblico pagante, che assume il ruolo di “spettatore” passivo. È da questa frattura, la divisione tra spettacolo e spettatore/ascoltatore, che nasce quella forma ideologica di consenso della comunità al cui giudizio saranno da quel momento sottoposte le “opere d’arte” del teatro (musicale e non): il famoso “giudizio del pubblico”, il “successo”, eccetera. A proposito del dibattito fra “teatro di rappresentazione” e “teatro di partecipazione” Domenico Guaccero scriveva nel 1966: «Due caratteristiche delle società odierne sembrano mimare il teatro: una, la frantumazione dell’unico, indiviso pubblico (quello dell’“arte universale”) in più pubblici, corrivo a particolari, e spesso contrastanti, modi di vedere la realtà; l’altra, la separazione fra palcoscenico e platea che mima la frattura fra classe dirigente e classe diretta: con tutti i tentativi, per reazione, di ripristinare l’unità anche operativa tra i due “mondi”».
 
Il teatro musicale propriamente detto è quello dunque al quale ci ha abituato la tradizione, dall’Euridice di Jacopo Peri (1600), la prima vera opera lirica in senso stretto, all’opera del Settecento, al melodramma ottocentesco. Un teatro costruito sulla narrazione lineare di una storia, spesso “sceneggiata” in un libretto da un mediatore letterario, il librettista, non necessariamente coincidente col compositore della musica, né con l’autore dell’opera letteraria.
 
Il tratto comune di tutta l’opera propriamente detta è nella vicenda letteraria narrata, da cui trae ispirazione la composizione musicale. L’idea del libretto che è già opera letteraria autonoma sul quale, dopo un adattamento più o meno pesante, viene poi composta la musica, è alla base della cosiddetta Literaturoper. La tendenza più immediata è l’utilizzo in funzione di libretto dei testi di opere teatrali, ma in epoca moderna diventa sempre più frequente la “librettificazione” di poemi, tragedie e – cosa notevole – di racconti e romanzi.
 
Moltissimi sono gli esempi di Literaturoper composte tra la seconda metà dell’Ottocento e tutto il Novecento, tra queste ricordiamo: La traviata, di Giuseppe Verdi (1853), sul libretto che Francesco Maria Piave aveva tratto dalla pièce teatrale derivata dal romanzo La Dame aux camélias (La signora delle camelie) di Alexandre Dumas figlio; Pelléas et Mélisande, di Claude Debussy (1902), dall’omonimo dramma di Maurice Maeterlinck; Salomé, di Richard Strauss (1905), su libretto di Hedwig Lachmann, tratto dall’omonimo poema di Oscar Wilde; Eine florentinische Tragödie, di Alexander von Zemlinsky (1917), ispirato all’incompiuta opera teatrale di Oscar Wilde intitolata A Florentine Tragedy (della quale Zemlinsky si era ritrovato una traduzione in tedesco); Wozzeck, di Alban Berg (1925), su libretto tratto dal dramma teatrale Woyzeck di Georg Büchner, ispirato peraltro a un “fattaccio” di cronaca nera; Lulu, ancora di Alban Berg, incompiuta e rappresentata postuma nel 1937, dai drammi Erdgeist (Lo spirito della terra, 1896) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora, 1904) di Frank Wedekind, da cui il famoso regista del muto Georg Wilhelm Pabst aveva anche tratto un celeberrimo film con la bellissima attrice americana Louise Brooks; Il naso (1930), di Dmitrij Šostakovič, tratta dal primo dei Racconti di Pietroburgo di Nikolaj Gogol’; Billy Budd (1951) di Benjamin Britten, ispirata al racconto di Herman Melville, su libretto di E. M. Forster e di Eric Crozier; Death in Venice (1973) sempre di Benjamin Britten, l’ultima da lui scritta, su libretto di Myfanwy Piper, dal racconto Der Tod in Venedig (Morte a Venezia) di Thomas Mann.
 
L’avvento della neue Musik – cioè la “distruzione del beat” come efficacemente e lapidariamente la definisce Mario Bortolotto in Fase seconda (Einaudi, 1969; Adelphi, 2008) – ha portato a una crisi totale del linguaggio musicale e a una sua conseguente ridefinizione in senso purista, in cui la parola, cantata o recitata, quando non svolge una funzione essenzialmente “strumentale”, gioca un ruolo assolutamente secondario. Già dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso il rigorismo purista venuto fuori da Darmstadt (dai Corsi estivi di composizione per la Nuova Musica di Darmstadt, in Germania), che vedeva appunto il teatro musicale come un qualcosa di diverso dalla musica, qualcosa di “contaminato” in un certo senso, cominciava a mostrare anch’esso qualche segno di crisi. Solo per rimanere nell’ambito italiano, compositori come Bruno Maderna (1920-1973), Luigi Nono (1924-1990), Luciano Berio (1925-2003), Giacomo Manzoni (1932), sono stati fra i primi a emanciparsi dal rigorismo purista di Darmstadt, inventando forme nuove di “teatro musicale contemporaneo”. Lo hanno fatto tuttavia non con un ritorno al passato, ma rivendicando in un certo senso l’autonomia della musica rispetto al teatro e rovesciandone la prospettiva. Teatro e musica agivano su piani diversi e autosufficienti, e da questo moto parallelo e sovrapposto poteva scaturire un modo nuovo di fruizione del teatro musicale da parte dello spettatore/ascoltatore. Anzi, la musica trovava una sua teatralità, una sua drammaturgia interna, che si concretizza in una sorta di “teatro del comporre”, una “drammaturgia dell’ascolto” che rinuncia alla rappresentazione teatrale tradizionale. A questo nuovo modo di concepire il teatro musicale possono essere ascritte opere quali Allez Hop (1959) e Passaggio (1961-62), di Luciano Berio, su testi rispettivamente di Italo Calvino e Edoardo Sanguineti, La sentenza (1959-60) e Atomtod (1965), di Giacomo Manzoni, su testi di Emilio Jona, Intolleranza 1960, di Luigi Nono (1960), su testi di Angelo Maria Ripellino.
 
Un teatro (musicale) che si fa “azione”, dove il pubblico cessa di essere pubblico e viene coinvolto nell’azione, in un’esperienza audiovisuale e audiotattile. In quest’ottica dev’essere interpretato anche il teatro gestuale di Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari, e così anche le “spazializzazioni” di musica elettronica e concreta di Karlheinz Stockhausen.
 
Nel Miracolo a Milano di Battistelli/Abbado siamo in presenza di Literaturoper mediata dal cinema. Ammesso che si possa considerare Literatur il prima soggetto e poi romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini.
La storia è nota: il film poi si farà, ma solo nel 1951, con la regia di Vittorio De Sica e senza Totò. In mezzo, la pubblicazione del “romanzino” per ragazzi da parte di Bompiani nel 1943, con le illustrazioni di Mino Maccari. Il film rappresenta per De Sica una parentesi surrealista, rispetto ai capolavori neorealistici firmati assieme allo stesso Zavattini: tra Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), e Umberto D. (1952).


Zavattini scrive assieme al vero Totò (Antonio De Curtis) il soggetto cinematografico Totò il buono nel 1940 sul numero 102 della rivista «Cinema». In realtà sembra che l’idea sia stata interamente di Zavattini, e che il soggetto sia stato poi pubblicato sulla rivista a firma di entrambi per aumentarne le possibilità di realizzarne un film, visto che Totò nel teatro d’avanspettacolo era già un personaggio noto. Lo testimonia anche una lettera di Totò a Zavattini, del 23 gennaio 1941: qui De Curtis dimostra tanta fiducia nella possibilità di Zavattini di riuscire a realizzare il film che gli lascia praticamente carta bianca e si candida a diventarne l’interpretare.
 
L’opera di Battistelli/Abbado inizia con la metafora del funerale della signora Lolotta: una banda di paese, che intona una surreale marcia funebre, entra nel teatro provenendo dall’esterno. Evidente qui il richiamo al testo zavattiniano, in particolare alla scena di Totò bambino che segue il carro funebre della matrigna per le strade della caotica città di Bamba. Particolare questo che nel film viene cambiato da una felice intuizione, che sospettiamo di Vittorio De Sica: la città non è più una fantomatica città, ma è fin dall’inizio Milano. Il funerale nel film percorre così i navigli nebbiosi, in una città surreale, non più caotica ma semideserta. Nella versione Battistelli/Abbado saltiamo tutta la storia del ritrovamento di Totò sotto il cavolo (a cui sembra che il verò Totò tenesse tanto) fino alla morte della signora Lolotta, e la città attraversata dalla simbolica banda diventa l’Auditorium di Renzo Piano, con la Cavea e la Sala Petrassi dove si trova il pubblico. La banda entra prima nella sala, poi in scena, e infine sparisce, sempre suonando, dietro le quinte. Un effetto molto suggestivo e inquietante.
Il ruolo del testo musicale di Giorgio Battistelli va quindi interpretato alla luce della sua funzione di “teatro di musica”. La musica che, attraverso la banda, coinvolge lo spettatore e l’ambiente esterno, e dunque la vita reale, secondo la concezione di quella ritrovata dialettica tra palcoscenico e pubblico, tra azione drammaturgica e società, tipica della “tradizione contemporanea”. Non solo, per riprendere le parole di Battistelli – «la musica è il veicolo privilegiato che mi ha permesso di entrare nel testo» – la musica “entra” nel testo, cioè in scena, e si fa teatro essa stessa. Lo fa attraverso la presenza extra-teatrale della banda, ma anche attraverso gli strumenti più tipici del teatro musicale contemporaneo: i musicisti e l’orchestra a strettissimo contatto con la platea, e non solo per ragioni di spazio, la presenza del musico-straccione nei momenti topici del dramma.
 
Per il resto la musica di Giorgio Battistelli è molto discreta, quasi di riempimento. Reminiscenze ligetiane, con vocalizzi iterati, due gruppi di percussioni che sembrano quasi improvvisare ritmi molto aspri, fiati esplosivi. Qualche volta viene fuori un eccesso di onomatopea musicale, come quando il povero mangia rumorosamente il pollo che ha vinto a una lotteria rabberciata: un mangiare rumorosamente sottolineato e amplificato dal nastro magnetico.
 
Il musico-straccione che gira e suona in mezzo agli altri è una presenza inquietante. Gira e suona varie cose, prevalentemente in maniera percussiva. Suona una scarna batteria montata su un telaio di carrozzina con le ruote; o altri relitti di strumenti, come quando dall’alto scende appesa un arpa di pianoforte – un semplice telaio con le corde che ricorda vagamente quei pezzi di ricambio negli sfasci d’auto – che quando viene suonata assume lo stesso potere ipnotico del monolito nero dell’Odissea kubrickiana e la stessa angosciante presenza del calapranzi di Harold Pinter.
 
Dopo l’uscita di scena della banda si passa quasi subito al quadro della costruzione della baraccopoli. Il testo zavattiniano viene seguito abbastanza fedelmente, così come le focalizzazioni di sceneggiatura del film. L’esigenza di farne teatro di musica allunga oltremisura certe scene teatrali che sono supportate solo dall’azione mimica o da poche battute. Così è per le scene bucoliche iniziali; così è per la scena dei cittadini in fila che a turno pagano l’indovino-barbone per farsi adulare: «Che bella fronte, che bel profilo, non finisce qui! Chissà chi era suo padre!», frase e situazione ripetuta troppe volte.
Altre scene sono più efficaci: la lingua incomprensibile nelle trattative d’affari degli industriali, con i loro abiti così diversi da quelli dei barboni; la repressione della polizia, tra spari (anche “musicalmente” sottolineati, con la scacciacani utilizzata da una componente dell’orchestra opportunamente dotata di cuffia fonoassorbente), reminiscenze di lacrimogeni e addirittura degli uomini-cane tenuti al guinzaglio.
Talvolta vi è un eccesso di simbolismo scontato. Come quando Totò prende il pane e lo spezza seduto al centro di una lunga tavola, in mezzo a dodici dei suoi compagni, divenuti a questo punto “apostoli”, in una fedele rappresentazione dell’ultima cena leonardesca. Altre volte esagerati effetti da teatro barocco: zampilli del petrolio dal pavimento, che sono in realtà d’acqua, e con i quali i poveri ingenuamente giocano; la fiammata, vera, che fuoriesce sempre dal pavimento, dopo che Totò ci ha gettato sopra la sigaretta che stava fumando.
 
La società dei poveri, la favela, viene rappresentata apparentemente come una società diversa, solidale, gioiosa e disinteressata, e tuttavia certi stereotipi – forse ineludibili da chi ha pensato il soggetto con una mentalità da dopoguerra – permangono: il povero che vive rotolando per terra; la “naturale” e eterna vocazione della donna a lavare i panni nel catino metallico, solo appena mitigata dall’uomo che rabbocca compassionevolmente l’acqua; il ruolo “intellettuale” del maschio, nella scena dello studio-baracca aperto come attività lucrosa per lodare i ricchi. Tutte immagini queste che rimangono nell’alveo del didascalico e del picaresco. In un contesto come quello attuale, che ci ha abituato a ben altre povertà e ingiustizie, la rappresentazione suscita tuttalpiù tenerezza, tanto che la regia si è preoccupata di farci passare sullo sfondo della scenografia un gruppo di suonatori neri africani in costume tradizionale, a volerci ricordare, nel caso non l’avessimo capito, che la storia rappresentata ha una sua valenza attuale: i poveri espropriati dei loro diritti naturali sono i poveri di tutto il mondo, vittime d’una globalizzazione feroce, questo è il messaggio.
Nell’opera di Battistelli/Abbado i poveri che avevano creato invano la loro città e la loro struttura sociale, alla fine ritornano i barboni che dormono per la strada, e si accucciano uno dietro l’altro ai piedi di un duomo di Milano molto stilizzato.
Si addormentano, e il volo delle scope è sostituito da quello di alcune giacche scure, lise, che volano in alto e verso est. Ma il sapore è quello di un sonno e dunque di un sogno, come se si volesse dire che l’unica via d’uscita è ormai solo in una dimensione onirica.
 
Il finale dunque. Il finale di questo “quarto” Totò, quello dell’opera di Battistelli/Abbado, è singolarmente diverso, sia dal testo sia dal film. Nel romanzo di Zavattini Totò inforca la scopa sconsolato e, dirigendola verso il nord, sparisce all’orizzonte “verso un regno dove dire buon giorno vuol dire veramente buon giorno”, e lascia i “bambesi” al loro destino; nel film la celeberrima scena del duomo di Milano e la “fuga collettiva” nella dimensione del fantastico e del favolistico con le scope che volano con a cavallo i poveri (scena peraltro citata anche da Steven Spielberg nel famoso volo delle biciclette di E.T.), era in realtà una rivendicazione dell’autonomia del potere dell’immaginazione e del divertimento degli esclusi, che diventerà poi un tema caro ai movimenti della fine degli anni settanta. Per questo il film di De Sica e Zavattini suscitò polemiche sia a sinistra sia a destra. Il carattere smaccatamente “evangelico” della vicenda narrata non era in linea con l’ottimismo marxista-leninista, tant’è che il film fu censurato nell’Unione Sovietica. Dalla parte opposta il film fu giudicato come una favola dal carattere troppo intellettualistico che «sotto le sue bonarie apparenze, nasconde una polemica di natura sottilmente classista» (Gianluigi Rondi, «Il Tempo», 1951).
 
Nel complesso il Miracolo a Milano, anzi a Roma, c’è stato. Nell’ottimo allestimento scenico di Daniele Abbado, nel sapiente mescolamento di elementi musicali e extramusicali “moderni” di Giorgio Battistelli. La vicenda narrata è quella che è. Forse oggi, che di acqua sotto i ponti della storia e dell’immaginario collettivo ne è passata tanta, si sentirebbe l’esigenza di pensare a un modo ancora più nuovo di fare “teatro di musica”, che abbia dei riferimenti letterari e culturali più vicini alle nuove generazioni, un qualcosa che potremmo per estensione definire “neue Literaturoper”.
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