Dalla Milano da bere a quella da vomitare #2

di Franz Krauspenhaar

1. Milano e’ diventata più triste

Milano, qualcuno ha scritto recentemente, in fondo è una città qualsiasi di medie dimensioni, come ce ne sono migliaia nel mondo. Non è l’inferno in terra che qualcuno esageratamente rappresenta e nemmeno un porto ideale, mancando delle attrattive tipiche di ogni città del cuore che entra nel mito e nell’immaginario collettivo dalla porta (o Porta Romana) principale.
Io non sono d’accordo; conosco bene questa città, e penso che ogni luogo è figlio di una storia precisa, e le grandezze, come le cadute, sono direttamente proporzionali a tante di quelle cose, o variabili impazzite, che stabilire classifiche tra le città è come se si volesse far pagare un affitto diverso per ogni piano della Torre di Babele. Intendo con questo che l’unicità di Milano come di Santiago del Cile, per esempio, va rispettata e amata fino in fondo, e protetta, pure, contro i guasti della globalizzazione, che si è impossessata anche dei pareri, del gusto, del pensiero degli uomini, vecchi cinici che hanno visto tutto e dunque alla fine, pareggiando nella noia dei deja vu, è come se non avessero visto nulla.
Milano esce dagli anni Ottanta facendosi molto male. Il nuovo decennio è appena iniziato che scoppia la bufera che nessuno sospettava, nemmeno i più critici. Sì, alla fine degli Ottanta s’era capito che il riflusso (parola d’altra parte tipicamente di quel decennio ambiguo e strano, una sorta di controriforma soft dei costumi e dei consumi) era addensato nel presente raggrumando per un futuro divenuto incerto; la caduta del muro, la fine della dittatura di Ceausescu, insomma i sommovimenti storici che venivano dall’est stavano segnando una via ancora circondata dalle nebbie. Finiva un ciclo, un pezzo di storia robusta e scritta a caratteri cubitali che sembrava non dovesse mai finire. Eravamo, qui, così abituati allo spadroneggiare poco chiaro dei socialisti che essi erano diventati come spauracchi di famiglia, tutto sommato avevano portato benessere e dunque che facessero cose poco chiare per garantircelo poteva essere considerato un necessario e senz’altro congruo prezzo da pagare. Ma tutto crollò di colpo, come con i regimi che si fondano sull’apparenza e congiuntamente sulla forza. Come cadde l’Unione Sovietica, così cadde Milano Socialista, con un tonfo che fece ancor più che rumore, perché fu un’esplosione economica, sociale, morale. Pillitteri, che avevo visto in un paio di locali della Milano da bere scialarsi con gli amiconi, l’avevo appunto visto con la faccia di uno che se la rideva sotto i baffi nella notte della dolce vita-movida meneghina. Nell’85 m’era capitato di bere un drink vicino al delfino di Craxi, il milanesissimo Claudio Martelli, giovane bello e rampante, sui Navigli, la Portobello dei milanesi. S’era aperto il decennio successivo a quello della sfrontatezza luccicante col tonfo mortale del Pio Albergo Trivulzio e Mario Chiesa, il suo presidente; e da lì, dall’ultima stazione dei vecchi abbienti, era partita quella specie di rivoluzione abortita, ma molto invocata nel suo svolgersi e montare, reato dopo reato, avviso di garanzia dopo avviso di garanzia, suicidio dopo suicidio. Da quell’ospizio famoso a Milano era paradossalmente nata la seconda Repubblica. Così ancora una volta Milano diventava fonte battesimale di una nuova era: dai Fasci di Combattimento del ’19 a Piazzale Loreto 1945, a quell’oggi ormai già lontano. Tangentopoli avrebbe dovuto tutto ripulire, rimettere tutto a pari, essere il nuovo principio. Per Milano, la caduta fu così violenta che si portò con sé la sciagura di una grave crisi d’identità. Negli anni successivi all’esplosione del magma, questa crisi divenne più cruda, si appalesò nelle facce smarrite dei milanesi, gente che era stata punita nel portafogli e nell’orgoglio. Addio alla capitale morale, era tempo di stringere la cinghia, di abbassare le pretese, di dimenticare le ambizioni. La città era sempre meno europea e invece più levantina, l’arrivo in massa degli emigrati stranieri rendeva la città multietnica ma solo visivamente, perché l’integrazione sarebbe stata pagata a rate e per lungo tempo.
Milano inventava però il salvatore della Patria, anche qui seguendo una tradizione. E quest’uomo che tutto prometteva – addirittura, vista la crisi, un milione di posti di lavoro – era un milanese particolare e al contempo tipico; cumenda e giocatore d’azzardo, industriale e creativo televisivo, allenatore-ombra di calcio, con quel suo Milan che dalle sacche della zona retrocessione seppe portare alle vittorie mondiali. Silvio Berlusconi era diventato l’uomo della Provvidenza proprio negli anni Ottanta. Era un tipico prodotto di quegli anni frizzanti e ancor di più gasati ad alta gradazione, era un imprenditore mediatico, dunque capace di fare soldi con investimenti relativamente modesti, subentrava a tutta forza ad Agnelli nell’immaginario di coloro che sognano i semidei della finanza, del potere.
Così, da una Milano abbattuta come il Fokker del Barone Rosso, nasceva il tentativo di un rinnovamento politico e sociale che era però soltanto l’appropriazione di un’occasione. Non c’era vera voglia di cambiare, bensì di subentrare, di cambiare tutto perché nulla cambi. La farcitura esterna veniva servita fresca e a colori vivaci, sempre in tema-nuance con il decennio delle paillettes forever. C’era insomma il gusto da pantomima del carrozzare Giugiaro una vecchia bagnarola, di dare becchime ai merli. La Lega, il partito federalista nato in Lombardia, prendeva sempre più piede, dando spago a una rivolta della piccola borghesia stufa di pagare per tutti, e decisamente contraria all’integrazione degli immigrati stranieri; come in Nordeuropa, la lotta allo straniero si faceva percussiva anche da noi. Milano diventava rione insanità del revanscismo più bieco, all’avanguardia anche nella retroguardia. Fino all’oggi, al nuovo Millennio di speranze e di cinismi assortiti, con la città che è cambiata nella sua popolazione, i mezzi pubblici a volte pieni quasi soltanto di lavoratori stranieri, i discount e i mercati sempre più affollati di nuovi poveri, di locali per poveri che chiudono e di betoniere del divertimento per ricchi che fanno milioni, con ristoranti etnici di tutti i tipi, col dialetto che sparisce con gli ultimi vecchi, con una città, insomma, che da Tangentopoli non si è ripresa più, che traccheggia spaurita e in crisi d’identità, che tira fortunosamente a campare.

2. Quel paesaggio umano che si fa sempre più raro

La circolare 90/91 gira attorno a Milano percorrendo la circonvallazione in un senso e nell’altro. E’attiva per 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno. Un viaggio che a volte ho fatto, per un breve tratto, tra Viale Ranzoni, in zona San Siro, e Piazzale Lotto, o, in senso inverso, verso via Meda.
Prendere uno di questi filobus è un’impresa. Quasi sempre pieni, la clientela è spesso fissa: gente che viene da lontano, che è arrivata fin qui con le barche della speranza. Facce scure – nel senso della carnagione e non solo. Molti nordafricani, che spesso viaggiano a frotte, o a gruppuscoli, parlando a voce alta, con altri o al cellulare che manda cicalini di canzoni arabe. Di notte la 90/91 diventa pericolosa: le aggressioni non si contano; ci sono magnaccia, ladri, venditori ambulanti, gente che magari ha bevuto una birra in più e diventa pericolosa. Peruviani che tornano da un turno, portinai, badanti. Gente che ha in mano un sacchetto di plastica con pochi oggetti personali. D’estate c’è puzza di sporco, di pelle sudata, di calzini andati quasi a male. Il filobus percorre le stesse strade da decenni, gira attorno alla città, lungo le arterie principali e scorrevoli, è un tour de la péripherie, una corsa continua e spesso affannosa fra i gangli spesso malati della metropoli. Scorrono come in un film decine e decine di vetrine di negozi che nelle periferie sono rimaste così da lunghi anni, tipiche scritte anni ’70 ormai scolorite. E poi l’incontro con i discount, i supermercati dei prodotti senza marca a prezzi scontati dove a volte la qualità è semplicemente un’opinione sbagliata. E dai finestrini del filobus è anche uno scorrere senza posa di scooter che scodinzolano come a Bombay, come al Cairo. D’ estate, il panorama d’asfalto e poche piante e sole a picco sotto a un cielo quasi grigio sembra quello di una lontana megalopoli d’oriente, e i colori scuri così tradizionali della geografia milanese si fondono con la pelle di questi nuovi arrivati dall’India, dal Nordafrica, dal Senegal. Ragazzi che spalancano le grandi bocche e mostrano così denti grandi in proporzione, che tentano di vendere paccottiglia ai passanti infastiditi. Alle fermate continue nuova gente scura sale, altra scende. I pochi italiani si stagliano come lucciole pallide tra gli altri, sono macchie di colore non-colore. Ci vuole tempo e pazienza per girare tutta la città sulla 90/91, ma è un viaggio istruttivo. Tutti i passeggeri dell’inizio sono scesi, tanti altri ne sono saliti, la sera si affaccia a noi dai finestrini, questi oblò rettangolari spalancati sulla notte milanese in arrivo, tra le luci degli stop delle auto, tra l’aria che si rinfresca e il paesaggio umano versato nelle strade che si fa più raro e via via sparisce assieme a ogni ricordo, e a ogni speranza.

(Pubblicato su La Tribuna. La prima puntata qui. Fine)

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12 Commenti

  1. Milano ha perso la sua anima, come l’hanno persa Parigi e Londra. Forse le città, così come sono strutturate, non hanno futuro. Guarda le strade, sono nate per le carrozze e adesso? Guarda le mura, prima la gente si chiudeva dentro per essere al sicuro e adesso? E avanti, avanti… Io non sono di Milano ma ci abito da tanti anni, e malgrado tutto ci vivo ancora volentieri. Sul mio blog c’è un tag Milano, se vuoi dagli un’occhiata. Ciao.

  2. La novanta di notte, questa è la nuova Milano. Aspettare il filobus in stazione centrale; salire in piazzale Lodi; osservare viale Tibaldi, piazza Napoli, fiera alle luci dei lampioni; ascoltare la babele linguistica che s’innalza tra i sedili. Pensare. Sarò una voce fuori dal coro, ma preferisco la novanta ogni notte piuttosto che passeggiare la domenica in piazza Duomo…

  3. Milano è sempre stata un lager a cielo aperto. Non mi sembra sia cambiata poi di molto, e se anche fosse oramai nessuno ci fa più caso: è una città di quelle brutte, la più littoria… anzi la più padana in una accezione legata alla Lega Nord.

  4. Non sono aggiornata sulla odierna poetica malinconicamente alla Hopper della 90/91, ma chi canterà quella della compianta e scomparsa filovia 96/97… Peana del capolinea di Piazzale Cadorna, Canto erratico di via Carducci-Pusterla (con truce Museo della Tortura)-Molino delle Armi, Inferno XI di Piazza Vetra…

    ,\\’

  5. Orsola, ma c’è ancora, è la 94! Milano è stata bellissima e lo è ancora, o forse non è niente, comunque il colpo di grazia lo darà l’expo, ma io personalmente me ne frego. La mia stupenda città sa ballare, e accompagna come si deve la danza di sprofondo della civiltà occidentale. Per il resto, l’amore è un colpo di culo.

  6. “[…] è una città di quelle brutte, la più littoria… […]”

    A parte il Palazzo di Giustizia, la Stazione Centrale e poco altro, a Milano non c’è niente di littorio. Sorry.

    “[…] anzi la più padana in una accezione legata alla Lega Nord.”

    Milano non c’entra quasi nulla con la Lega Nord.

    Lo so, a prima vista sembra un sillogismo di ferro: la Lega fa, o dovrebbe fare, gli interessi del Nord Italia; Milano è la città più grande del Nord Italia; quindi Milano è una roccaforte della Lega.

    In realtà, dati alla mano, se c’è una città lombarda nella quale la Lega non ha mai davvero sfondato è proprio Milano. La percentuale dei voti che prende la Lega a Milano è sistematicamente la metà rispetto al resto della Regione.

    Vale la pena di ricordare anche il referendum per la Devolution. La Lega caldeggiava il Sì: Milano, con Mantova, fu l’unica città lombarda dove vinse il No.

    D’altronde Bossi e Maroni sono di Varese, Castelli è di Lecco, Calderoli è di Bergamo, Borghezio è di Torino. Nessuno di loro è di Milano o della provincia di Milano. Ci sarà un perché.

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