Manicomio e Fortuna come le sigarette

di Giuseppe Rizzo

Laura è accovacciata sul cofano della macchina. I vetri sono appannati, fuori piove, ma io sono abbastanza sicuro che sta piangendo. Si tiene la testa con le mani, ogni tanto si gira e mi guarda. La cosa va avanti finché non scendo io, e allora lei sale.
La supero senza guardarla, per paura che mi possa trasformare in una statua di sale. A piazza delle Vergogne, sotto l’acqua, mi guardo le statue bene bene, una a una, lentamente; poi, sempre lentamente, giro la testa verso l’aquila sopra il portone del Municipio, e cerco di darmi fuoco.
Il fatto è che piove. È mercoledì delle ceneri, e piove. Davanti palazzo delle Aquile e lungo tutta via Maqueda non c’è nessuno – Palermo non è animale da farsi piacere l’acqua.
Io ho un cartello al collo che dovrebbe far capire il motivo per cui sto provando a darmi fuoco, ma l’unica persona che c’è nei paraggi, l’usciere del Comune, si toglie il cappello, strizza gli occhi e si gratta la testa per farmi segno che non si legge niente. Mi manda chiaramente al diavolo, quando inizio a far caciara con un megafono.
L’unica anima che si accorge di me è un vecchio cane che mi si siede davanti e inizia a fissarmi. Hai i baffi grigi, la carne attaccata alle ossa appuntite e gli occhi tristi. Lo guardo, e lui guarda me, e poi io guardo l’usciere e gli faccio con la mano, «niente?», per saper se c’è speranza che qualcuno si affacci mentre ardo; ma quello mi risponde alzando il capo, «niente».
Poggio il megafono a terra e svito il tappo del bidone da cinque litri che ho riempito di benzina. Guardo di nuovo l’usciere. Niente? Niente. Mi verso la benzina addosso e guardo l’usciere. Niente? Niente.
Il cane mi osserva incuriosito mentre armeggio con l’accendino per darmi fuoco, ma quello non funziona, scintilla ma non accende. Guardo l’accendino, guardo il cane, guardo palazzo delle Aquile ma è chiaro che nessuno mi può aiutare.
Torno correndo alla macchina in via degli Scoppiettieri.
Laura si è chiusa dentro e quando mi vede arrivare fradicio di pioggia e benzina mi guarda male, a far segno del suo disprezzo.
«Porta un ombrello e un accendino buono», le grido.
«Crepa», mi risponde, senza guardarmi.
«Cerca di finirla, apri, mi sto bagnando tutto e se continua così non ci sarà più verso di prendere fuoco!»
Resta immobile, con le braccia conserte e i pugni stretti. Quando inizio a picchiare forte la testa contro il finestrino, mi grida:
«Da quando sei fuori non sei più buono a fare niente!».
«E questo che c’entra?», le chiedo.
«E prima non le sapevi fare le cose? Prima li portavi i soldi a casa, o no?»
«Ma prima rubavo macchine e me l’hai detto tu di smettere».
«E per forza, ti sei fatto fare fesso, ma a rubare eri bravo».
«Senti, Lauré, mi vuoi fare un altro processo o mi vuoi fare questo favore: vieni a darmi fuoco. Deciditi perché mi sta venendo un malanno!»
Scende dalla macchina e mi tira l’ombrello. Lo apro e cerco di seguirla, evitando come posso l’acqua delle buche.
Davanti i culi e le tette e le cosce delle statue di piazza delle Vergogne è appena passato il sindaco. Laura lo vede e va ficcarsi nel codazzo di gente che lo segue. Al portone, lei riesce a passare, mentre io vengo trattenuto fuori dall’usciere.
«Stai buono», mi dice.
«Ma mia moglie il sindaco la benzina», provo a protestare.
«Eh, la benzina, la benzina, che sei matto a darti fuoco dentro, mi rovini!»
«Ma io mi do fuoco anche fuori», gli dico.
«E bravo, vatti a dare fuoco fuori, va – e mi spinge oltre il portone – e non fare tanta caciara, mi raccomando».
Scrollo le spalle, lo guardo fisso negli occhi ma non ci vedo un bel niente: questo è un disgraziato più disgraziato di me, perciò faccio dietro front e mi vado a sedere sotto la foglia di fico di una delle statue di piazza delle Vergogne.
Gomiti sulle cosce, guardo il cane, che guarda me.
«Che c’è», gli grido.
Ma devo averlo fatto troppo forte perché l’usciere spazientito mi fa cenno con le mani di abbassare la voce. Prendo il cane per quel suo collo rinsecchito e me lo avvicino un po’. Muso a muso, gli chiedo:
«Non hai mai visto nessuno che si deve dare fuoco?»
Pare dirmi no con la testa, così gli spiego:
«Stammi attento perché sennò mi tocca dare fuoco pure a te – tiro un sospiro, poi attacco – Prima o poi tutti si vogliono dare fuoco, chi per una doccia, chi per una barca, chi per una porta da chiudersi alle spalle e chi per una donna. Funziona così: fai a pugni con gli altri tutti i giorni, per tutto il giorno, e poi arriva un momento in cui non te ne frega più niente del tuo bel musetto e ti dai fuoco. Ci sei fin qua?», gli chiedo.
Mi lecca un’orecchia, perciò deve aver capito.
«Ce l’hai una cagna tu?», gli faccio.
Mugola, e gli viene duro: può essere un sì e può essere un no.
«Allora, qui mi devi seguire», gli dico, «Laura all’inizio non era mica d’accordo. Chi è Laura? Laura è quella scatenata che è entrata assieme al sindaco. Facile che a quest’ora l’hanno già fatta arrestare. Con la chiacchiera è brava, per carità. Al posto della lingua ha una lucertola, ma quelli hanno il pelo sul cuore. Capacissimi di prometterti il cielo, e l’indomani ti trovi col culo a mollo nell’oceano. Non sei d’accordo? Ma che ne vuoi sapere tu? Parla perché non parli?!»
Mi piscia su una scarpa. A questo punto devo proprio far pena perché l’usciere corre verso di me e mi allunga l’ombrello che mi deve esser caduto prima nella ressa.
«Ce l’hai una casa?», mi chiede.
Il cane gli ringhia contro. Lo tiro per il collo e me lo metto sotto il braccio.
«Non proprio, no», dico all’usciere.
«E una macchina, ce l’hai una macchina?», insiste lui.
«Che ti interessa», gli faccio, e quasi quasi mi metto a ringhiare anch’io.
«Vattene in macchina, va – mi dice – che alla signorina glielo dico io che l’aspetti là».
«No, – gli dico alzandomi e urtandolo con la spalla – digli che mi trova all’Hotel delle Palme, vado a farmi un massaggio, va’».
Lo supero a passi lenti e non capisco se ride o brontola. Ad ogni modo, il cane mi precede e io lo seguo, visto che non ho niente di meglio da fare. Rido, per lo stesso motivo.
Assieme, lui davanti e io dietro, superiamo il fango di piazza Bellini e svoltiamo a sinistra verso la Kalsa. A un certo punto, davanti Palazzo Steri lo perdo, ma poi lo sento abbaiare da dentro il giardinetto che sta al centro di piazza Marina.
All’inizio mi pare che un cagnaccio enorme se la sta prendendo con la sua ombra, ma poi mi accorgo che l’ombra è lui, il piccoletto che ho seguito fin qui. Dietro di loro c’è un terzo cane che sta provando a farsi scoppiare il cuore a furia di abbaiare e ringhiare.
I due si prendono a morsi come se è l’ultima volta che lo devono fare. Piegano il collo, scivolano sulle gambe, si danno testate, ma è sempre quello grasso a stare sopra. Quello dietro di loro non chiude il muso neanche per un secondo. Deve essere una femmina, e deve essere stata di qualcuno, perché al collo porta un collare rosa.
Mi avvicino ai due che se le stanno dando come due vecchi diavoli e provo a separarli con un pezzo di legno, ma mi fanno capire che se non la finisco il resto è per me. Mi avvicino alla femmina e leggo sul collare che qualcuno si è divertito a scriverci “Fortuna, come le sigarette”.
Gli altri due hanno smesso di abbaiare, ma sono ancora tutti attorcigliati tra loro, il grosso sopra il piccolo. La pioggia rende tutto più difficile perché il piccoletto potrebbe giocare sull’agilità, ma scivola in continuazione e si ritrova sempre sotto l’altro. Cerca di morderlo alla gola e quando gliela azzanna, Palermo, e la pioggia, e i diavoli tutti sembrano placarsi per qualche secondo.
La giostra riprende a girare quando la bestia enorme riesce a liberarsi e a scappare. “Fortuna come le sigarette” va a strofinarsi contro il piccoletto e inizia a leccarlo dappertutto. A quello gli viene di nuovo duro, e siccome mi fa capire che non è questione di affetto per me, intuisco che è meglio sloggiare.
Ha smesso di piovere, chiudo l’ombrello e me ne ritorno a piazza delle Vergogne in tempo per chiedere all’usciere dov’è Laura e vederla uscire lesta come una lucertola. L’usciere ci guarda e alza le spalle.
«Ferma, Laura, dove vai!?», le grido.
Scende gli scalini della piazza a due a due e rischio quasi di rompermi il collo per starle dietro. In strada, attraversa col rosso, blocca il traffico e stramaledice tutti. Devo tirarla via, sennò sono capaci che me l’ammazzano. Il traffico si è riformato ed è pronto a inghiottirci come un serpentaccio affamato. La trascino alla macchina di peso. Sopra il tetto, stretti l’uno con l’altra, ci sono “Fortuna come le sigarette” e il piccoletto che le ha suonate qualche istante prima al cagnaccio di piazza Marina. Laura, davanti allo spettacolo delle due bestie accucciate sopra la nostra automobile, sta per esplodere.
«Penso che quelli sono i nostri cani», le dico.
«Che vuol dire, “penso che quelli sono i nostri cani!?», chiede.
«Sono sicuro che quelli sono i nostri cani», preciso.
Poi lei fa una cosa senza senso: si passa la mano sulla fronte come per vedere se ha la febbre e chiede:
«Come si chiamano?»
«La femmina “Fortuna come le sigarette”».
«Che razza di nome è “Fortuna come le sigarette”».
«È il suo nome», le dico.
«E il maschio?»
«Il maschio?»
«Il maschio».
«Il maschio, “Manicomio”», me l’invento lì per lì, ma a ripensarci non è male come nome per un cagnaccio come lui.
Di nuovo quella cosa senza senso, la mano sulla fronte, e poi:
«Non mi piace».
«È il suo nome».
«Non mi piace».
«Andiamo, sali», le dico infine, prendendola per la mano che ha alla fronte.
In macchina mi faccio raccontare com’è andata a palazzo delle Aquile.
«L’unica normale ero io», mi dice, ridendo.
Poi io gli racconto di piazza Marina, delle botte, della chiacchierata con “Manicomio”. Ripeto a lei le stesse cose che ho detto a lui. Lei mi dice che i cani ce li possiamo tenere, ma che però vuole anche dei figli con dei nomi normali. Ogni tanto, mentre saliamo verso via Libertà, da sopra il tetto dell’automobile, sentiamo abbaiare.

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6 Commenti

  1. Luca mi aveva detto che eri bravo, complimenti!
    Bellissime le tue descrizioni…mi sono ritrovata a Palermo per 5 minuti.

    Sperio di leggere presto qualcos’altro.
    Grazie per il link.

  2. E’ come prendere una cosa preziosa, ma resa opaca dalla polvere, pulirla, e presentarla in tutto il suo splendore.
    Bravo Giuseppe: aspettiamo altri scorci piacevoli di una realtà che vorremmo amare.

  3. Grazie per aver riportato un pezzo di Sicilia che può sembrare bizzarra ma che agli esuli come me fa sorridere…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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