Un cane dagli occhi neri

di Gianluca Veltri

Non lo chiamavano ancora Myanmar, quando vi nacque il cantautore Nick Drake. Né Yangoon. Nel 1948 era ancora Birmania, era ancora Rangoon. Nick era il rampollo di una famiglia britannica benestante, papà ingegnere. Il suo destino era una privilegiata vita coloniale, in quel lembo di Sudest asiatico post-bellico gravido di futuri conflitti. Ma il destino si diverte a invertire le rotte, a sparigliare le giocate, e Nick si ritrovò ancora bambino, con la sua famiglia – daddy Rod, mamy Molly e la sorella maggiore Gabrielle – nell’Inghilterra culla dei genitori. I Drake ripararono lì, in Birmania non tirava più buona aria. Warwickshire, campagna in stile Miss Marple, Tanworth-in-Arden. Un villaggetto signorile e discreto, la cattedrale trecentesca intitolata a Maria Maddalena e un’atmosfera che sembrerebbe fatta apposta per attutire i conflitti. Non fu così per Nick, che amò e odiò quel borgo, ne fuggì lontano e sempre lì tornò, fino a morirvi a soli 26 anni, nel 1974.
Nick Drake era un giovane di talento. Imparò da solo a suonare la chitarra acustica, divenendo bravissimo. Frequentò il college di Marlborough negli anni ‘60. La passione per la musica gli fece interrompere gli studi, lo portò a Londra, dove fu notato da Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention. Qui comincia la carriera breve di Nick Drake. Incise in vita solo tre album, ma ognuno di essi è diventato un disco-mondo, capace di assurgere a canone. Five Leaves Left (1969) è Bach che entra nel rock impressionista, è archi e chitarra, onirismo bucolico e sinfonia. Bryter Lyter (1970) è l’almanacco dei crocevia, rimpasto di musiche nere, folk inglese e inquietudine. Pink Moon (1972), «basta orpelli», è l’epitaffio leggendario che riscrive il manuale del cantautore, una nudità emotiva quasi scandalosa, solo voce e chitarra, registrato tutto in una notte. Non ci saranno altri dischi. Nick, ritiratosi nella casa paterna, visse in preda a un forte disagio psicologico i suoi ultimi tempi. A Tanworth il musicista diverrà prigioniero di un black eyed dog, un cane dagli occhi neri che gli mordeva l’anima. Lo trovò a letto sua madre, una mattina tardi di novembre, ch’era freddo ormai. Overdose di sonniferi, prescrittigli per tentare di oltrepassare indenne le notti angosciose. Nessuno potrà dire mai con certezza se si trattò di suicidio. Sul piatto i Concerti brandeburghesi di Bach; sul comodino il Mito di Sisifo di Camus. Il mito di Drake, finalmente, poteva cominciare.
Il 19 giugno Nick avrebbe compiuto 60 anni.
La ricorrenza sessantennale non passa certo inosservata. Vicino Firenze il popolo italiano dei drakeiani si è dato convegno proprio il 19, per ricordare un musicista che è diventato oggetto di culto dopo essere stato ignorato in vita.
Ma perché, a sessanta anni dalla nascita, questo romantico ragazzo inglese carismatico e bello, allampanato e timido, che s’inventò modi inediti d’esser poeta e musicista, è diventato un classico che continua a esercitare forte influenza sulle successive generazioni? E, si badi, non solo sui musicisti anglo-americani – scontato: dai REM a Beck, da Elton John a Paul Weller ai Cure, tutti adorano Drake. Ci riferiamo soprattutto agli artisti di casa nostra.
Dice la giornalista Paola De Angelis, che ha scritto un libro su di lui: “Drake è cool per eccellenza: esegue linee di chitarra intricatissime senza sfoggio di virtuosismo. Con lui sembra sempre tutto semplice, naturale, come l’universo a cui appartiene, quello di due grandi poeti come Blake e Keats, incentrato sulla visione e sulla natura.”
Da noi la drakemania mette d’accordo tutti e ha dato origine a operazioni che si sono spesso rivelate di ottima fattura. A Roma, nel 2006, si è svolto un happening a Villa Doria Pamphili, Way to Blue (come una canzone di Drake), al quale hanno preso parte una ventina di musicisti, tra cui Simone Cristicchi, Niccolò Fabi, Marco Parente. Motore dell’iniziativa, l’insospettabile Roberto Angelini, cantante pop che raggiunse la notorietà qualche stagione fa con un motivetto radiogenico dal titolo Gattomatto. Folgorato da Drake, Angelini ha inciso un album dedicato al songwriter, Pong Moon – Sognando Nick Drake, rifacendo le sue canzoni rispettosamente e con ottima tecnica chitarristica.
Nel libretto del suo ultimo disco “Rosso Rembrandt”, il musicista sardo Mariano Deidda sì è fatto immortalare di spalle con cappotto nero, su una spiaggia deserta. C’è un popolo trasversale che ha colto la citazione: è un omaggio a Nick, del quale è celebre una posa identica, mentre malinconicamente passeggia pensoso su qualche battigia invernale. “Nick Drake è immortale” dice Deidda, che rivendica d’essere nato anch’egli il 19 giugno, “perché la sua è splendida musica, che non fu di moda ai suoi tempi ma lo sarà per sempre.”Era troppo avanti, continua Deidda, ”era fuori dagli schemi, le sue canzoni non erano facilmente marketizzabili. Ma è il motivo per cui non sono mai diventate effimere. Al contrario, sono standard slegati dall’epoca in cui furono composti. A suo tempo andavano i cantautori più fricchettoni, o impegnati. Erano più vendibili Cat Stevens e Donovan”.
Nick Drake era ossessionato dalla fama (mancata). Potremmo accostare l’epilogo della sua parabola a quello di Rino Gaetano, per motivi uguali e contrari. Nick, trascurato e consunto da un vuoto di risonanza della sua opera; Rino, bruciato da una fama conquistata, capace di snaturare e mistificare la sua autenticità. Entrambi vittime della fama, in una fase di profonda crisi nelle rispettive vite.
Nick cantò della fama in Fruit Tree, uno dei suoi brani più profetici: “Gli uomini di fama/ non possono trovare una strada/ sinché il tempo non sia volato/ lontano dal giorno della loro morte”. Perché quell’esordiente 21enne era tanto sicuro del proprio successo postumo, mentre (quasi) nessuno se lo filava? Cosa sorreggeva il suo ego frustrato, tanto da fargli dire alla mamma: “Ho fallito in tutte le cose in cui ho provato”? Con il suo disperato insuccesso in vita, la silenziosa uscita di scena che cominciò goccia a goccia ad alimentare la leggenda, Nick Drake sembra quasi aver concertato modi e tempi per lo splendore seguente della sua stella.
A metà degli anni Ottanta si ricominciò a parlare di lui. Fu ripubblicato. Uscirono a poco a poco degli album nuovi, che pescavano nei cassetti brani inediti. L’ultimo, Family Tree, è uscito qualche mese fa.
Nick Drake oggi compirebbe 60 anni. Difficile immaginare un eterno ragazzo che diventa signore attempato, sulla soglia dell’ultima fase di vita, perché Nick è un’icona giovanile, come James Dean, come Jeff Buckley, come il primo chitarrista degli Stones, Brian Jones. Si è conservato intatto fino a noi. L’olimpo di giovani talenti incapaci di reggere la propria contemporaneità si arricchisce a ogni generazione, ciascun tempo conosce i suoi (con)tributi. L’ultimo è l’attore Heath Ledger, il quale tra l’altro era grande ammiratore di Drake.
Tornando alla drakemania italiana, è curioso il risultato di una ricerca in questi territori. Qualsiasi cantautore si ritiene influenzato da lui. Alla periferia musicale, c’è uno stuolo di musicisti (Yo Yo Mundi, Virginiana Miller e altri) che un decennio fa si sono consorziati per un album dedicato a Drake, rifacendo tutte le canzoni del suo primo lavoro. Il titolo Five Leaves Theft, a parafrasare l’originale Five Leaves Left. Di Roberto Angelini e del suo Pong Moon (realizzato con il violinista Rodrigo D’Erasmo) abbiamo detto: un altro intero album di cover, anch’esso a parafrasare un titolo, Pink Moon. Quel che salta agli occhi è che l’omaggio a Nick è sempre integrale, ama farsi sistema: interi album di tributo. Lo stesso ha fatto un gruppo lombardo, i Blend, che ha licenziato un altro omaggio, un disco tutto per Drake dal titolo Far Leys, il nome della dimora di famiglia a Tanworth-in-Arden. Far Leys – Prati lontani – è meta da decenni di pellegrinaggi da ogni parte di mondo; l’attuale proprietario, ignaro e divertito, è sempre pronto a raccontarti delle visite di Brad Pitt, ma prima di Angelina Jolie. Un artista di Varese ha scelto come pseudonimo Black Eyed Dog, come uno degli ultimi brani di Nick, il più spaventoso, quello in cui il songwriter racconta come vive sentendosi braccato dal suo male, identificato con un cane dagli occhi neri. Un gruppo siciliano, indicato come la punta di diamante del New Acoustic Movement italiano, ha scelto come nome di ditta Second Grace, citando il primo verso di una canzone di Nick (Fly). Dice in proposito Fabio Rizzo, chitarrista dei Second Grace: “Quello che Drake ci trasmette è una profonda e irrisolta tensione, anche nei brani più quieti e ipnotici. Riesce a realizzare un vero e proprio miracolo di sintesi emotiva ed è per questo che siamo suoi adepti totali”.
Si potrebbe continuare con tributi e citazioni. Il mondo di Nick, sia quello reale che quello poetico-musicale, è meta di culto costante. E quando Nick Drake è utilizzato dai cineasti di casa nostra, è sempre un omaggio in formato maxi, mai en passant. Come in My name is Tanino di Paolo Virzì, in cui ‘Cello Song torna in più di un’occasione, a sottolineare un tasto ben preciso della narrazione (la fuga del protagonista inseguito). O come in Passato prossimo di Maria Sole Tognazzi, che contiene svariati inserti della musica di Nick Drake, che si fanno contenitori emotivi delle scene.
L’amore dei musicisti va di pari passo con un’investigazione letteraria che vede Drake protagonista di numerose pubblicazioni italiane: dai libri di Luca Ferrari (Un’anima senza impronte, Le dolci suggestioni della Luna Rosa), al romanzo del critico musicale Stefano Pistolini, Le provenienze dell’amore, fino alle analisi dei testi, che hanno visto ben due uscite italiane negli ultimi anni: Nick Drake – Tutti i testi di Flavia Ferretti e il recentissimo Journey through the stars di Paola De Angelis.
L’Italia ha festeggia i sessant’anni dalla nascita di Drake con passione e gratitudine: una giornata tutta sul musicista, il 19 giugno a Fiesole. Hanno parlato del songwriter i giornalisti Ernesto De Pascale e la stessa Paola De Angelis, con l’intervento di Robert Kirby, personalità autorevole della galassia-Drake: arrangiò in modo lussureggiante i primi due album del songwriter. A seguire, il film del cineasta olandese Jeroen Berkvens su Drake, realizzato senza che dell’artista esista una sola immagine in movimento. Un record: non c’è lo straccio di un filmato, se si eccettua qualche secondo di Nick bambino su una spiaggia birmana. Il film di intitola A skin too few, ossia una pelle troppo sottile, quel che rimproverava al cantautore sua sorella Gabrielle.
Infine, un bel lotto di composizioni di Nick sarà suonato da un ensemble orchestrale, sotto la direzione di Kirby, insieme a opere di Bach e Schönberg.
La Nike e la BMW, per rispettive pubblicità, hanno attinto a due melodie tratte entrambe dal terzo lavoro di Drake, Pink Moon. Com’è intuibile, sono universi assai distanti tra loro, quello delle multinazionali del Duemila e le spettrali composizioni finali di un cantautore degli anni ’70 malato e bucolico.
Perché amiamo Nick Drake? Forse perché tutti siamo affascinati dalla bellezza intangibile, o perché siamo o ci sentiamo sul crinale che separa la sensibilità dall’inebetimento, la ricchezza emotiva dalla catatonia, la fragilità dallo sperdimento. Forse perché amiamo sempre quel che è più facile a rompersi, sul ciglio del precipizio, ci innamoriamo della bellezza smarrita, cerchiamo conforto nella natura. Forse perché continuiamo a pretendere che il tempo ci dia risposte.
La parola a Paola De Angelis: “Drake, il bel ragazzo tenebroso, misterioso, di grande talento e dal destino triste, è a suo modo un eroe romantico. Ci struggiamo per lui, ci lasciamo sedurre e incantare, abbracciamo la sua richiesta di amore, di condivisione. Vorremmo prenderci cura di lui e in cambio farci accarezzare dalla sua voce”.
Un matrimonio fatto in cielo, direbbe Blake, il suo poeta preferito.

[precedentemente pubblicato su Diario del 15 giugno 2008]

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9 Commenti

  1. ‘Uscirono a poco a poco degli album nuovi, che pescavano nei cassetti brani inediti. L’ultimo, Family Tree, è uscito qualche mese fa.’
    ‘pubblicato su Diario del 15 giugno 2008’

    Family tree: data di uscita 20/04/2007.

  2. Un pifferaio magico, smarrito nei meandri del suo Genio come Syd, aperta la porta verso quel corridoio di questa “casa di foglie” cerebrale

    “Non ci saranno altri dischi.”

    Sindrome musicalsalingeriana? Syd.’ndrome? Un Thoreau con la chitarra? Un Treadwell intimista?

    “Perché amiamo Nick Drake? Forse perché tutti siamo affascinati dalla bellezza intangibile, o perché siamo o ci sentiamo sul crinale che separa la sensibilità dall’inebetimento, la ricchezza emotiva dalla catatonia, la fragilità dallo sperdimento.”

    SI’. SI’.

  3. ab,
    sai come funziona in questi casi: mandi il pezzo alla rivista che poi salta di mese in mese per vari problemi, poi te lo pubblicano senza neppure avvisarti, per poterlo, nel caso revisionare. Tutto qui. Meno male che c’è san google.

  4. da vecchio adoratore di Nick non ero al corrente del suo attuale sucesso, ma vorrei ricordare una persona, grazie alla quale ancora escono dischi di Drake, è Chris Blackwell, patron della Island records; “Registrare qualsiasi cosa proponga Nick” fu l’ordine, chi oggi si comporterebbe così nelle majors multinazionali?

  5. Grazie a lambertibocconi, ricambio il saluto.
    A Brown dico che concordo completamente sul lasciare in pace Nick Drake. Ma io suggerirei di non chiamarlo in causa a vanvera, o peggio con delle approssimazioni di comodo e non appurate (avviene, statene certi, è avvenuto anche recentemente…). Dunque: lasciamo in pace Nick, non parliamo di lui a sproposito. Io spero (e credo) di avere rispettato Drake e di non averne scritto a casaccio. Tu che ne dici?

  6. Dico che se un ragazzo di vent’anni venisse oggi a suonare e cantare pezzi come quelli di Drake, nessun discografico lo prenderebbe in considerazione, né avrebbe pubblico. Non si tratta di parlarne a casaccio o meno, si tratta di riconoscere che è morto giovane, in un certo modo, che la sua musica riflette il suo destino, e che tutto ciò concorre a formare una moda, un mito, un’occasione di profitto. Chi lo ama se lo tenga stretto al cuore e basta.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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