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Dodecabomber, le mucche del Wisconsin e i porcellini d’India.

di Cristoforo Prodan
 


 

«Un concerto, una sonata devono dipingere qualcosa, altrimenti non saranno che rumore, armonioso se si vuole, ma senza vita». (Encyclopédie, alla voce Espressione)
«L’estetica, infatti, non è altro che una fisiologia applicata». (Friedrich Nietzsche, Nietzsche contra Wagner. Atti di uno psicologo)
 
«The question is whether you can make words mean different things. E, poco più avanti, nel libro mirabile, la pestilenziale bambina, all’osservazione del cappellaio: «I dare say you never even spoke to Time!», risponderà: Perhaps not; but I know I have to beat time when I learn music». Infatti: la neue Musik è la distruzione del beat». (Mario Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla nuova musica)
 
«Uno spettro s’aggira (ancora) per l’Europa – lo spettro della dodecafonia. Spettro che è l’archetipo di tutte le avanguardie espressive nel campo musicale del Novecento. Avanguardia, quella dodecafonica, che più di qualunque altra è apparsa radicale, innaturale, paradigma di bruttezza e sinonimo di cattiva musica».

 
Questo avevo iniziato a scrivere quasi due anni fa, preso dal sacro furore confutatorio nei confronti di un libro, allora appena uscito, del professor Andrea Frova, intitolato Armonia celeste e dodecafonia. Musica e scienza attraverso i secoli (Rizzoli BUR, 2006).
 
Il professore, fisico, docente alla “Sapienza” di Roma, non è nuovo a pubblicare sull’argomento. Un suo manuale, Fisica nella musica (Zanichelli, 1999), è ancora adottato nei conservatori e nelle facoltà universitarie dove c’è il DAMS (Dipartimento Arte Musica Spettacolo). Da anni il prof. Frova, al di là della sua carriera accademica, sembra essersi fatto paladino nel campo della musica di un movimento di scienziati che vogliono ristabilire ordine laddove regna il caos. Egli parte da una semplice constatazione: la frattura che si è creata tra musica e pubblico in un certo periodo storico coincide con l’avvento della neue Musik (la Nuova Musica), che parte dalla seconda scuola di Vienna, in particolare col serialismo dodecafonico teorizzato da Schönberg, per arrivare a tutte le esperienze postseriali successive. L’autore accusa Schönberg di aver fatto una rivoluzione che non ha prodotto risultati positivi per la musica. L’avrebbe cioè spogliata di quella funzione, che egli ritiene organica alla musica, di «traduzione di linguaggi e di emozioni», e l’avrebbe «riproiettata verso l’età della pietra della civiltà musicale».
 
Negli ambienti musicologici il libro di Frova è passato quasi inosservato; probabilmente era stato considerato pressoché irrilevante, anche per il suo taglio divulgativo. Se non fosse stato per l’appassionata convinzione personale con cui il professore argomenta le sue tesi, per il fatto che questo suo sentire ha incontrato inaspettatamente un analogo sentire da parte di molti musicisti e professori di conservatorio, probabilmente non mi sarei preso la briga di leggere e rileggere il libro, di assistere a una presentazione dello stesso, e di iniziare a scriverci qualcosa sopra. Avevo poi rinunciato, per vari motivi, a completare la recensione. Ma un episodio successivo, recente, mi ha portato a ripensare a tutta la faccenda.
 
Dal 4 al 6 giugno 2008 le università di Roma “La Sapienza” e Tor Vergata, in collaborazione con l’Accademia Nazionale dei Lincei, decidono di organizzare un convegno internazionale in memoria del musicologo Nino Pirrotta. Nell’ambito del convegno, il 5 giugno, viene organizzato un concerto alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. Un programma di musica antica, con uno degli ensemble vocali-strumentali più famosi in quell’ambito, i Mala punica di Pedro Memelsdorff. Ovviamente mi ci fiondo. Un programma sublime di polifonia napoletana antica (Napoli gothique. Polifonia nella Napoli angioina, 1320 – 1400), un concerto molto bello e gradevole.
 
Ed ecco la prima sorpresa: il pubblico: scarso. O meglio, tanti gli invitati d’onore, i professori, i giornalisti; ma di pubblico vero, quello pagante, ce n’era veramente poco. Non era stata riempita neanche la metà della sala: saranno state in tutto quattrocento persone, a dire tanto. La seconda sorpresa è che, avendo dei biglietti extra per quel concerto, ho provato a regalare l’ingresso gratutito a quanti conoscevo. Ebbene: nessuno ma proprio nessuno li ha voluti, neanche regalati. L’indifferenza del pubblico verso la musica antica che avevo appena sperimentato era dunque straordinariamente simile a quella verso la musica contemporanea. Torniamo dunque al libro di Frova.
 
L’obiettivo del professore è chiaro fin dall’inizio: dimostrare che le considerazioni di carattere psicologico e etico che sono alla base del giudizio estetico da parte del pubblico su un certo modo di fare musica hanno un fondamento fisico oggettivo; un fondamento naturale dunque, non confutabile da nessuna analisi storico-critica o teoria estetica. Ma va anche oltre, sostenendo che, una volta accettata questa teoria, il problema può essere rovesciato e la musica – così intesa, e sulla quale ormai è stato detto praticamente tutto dai grandi compositori del passato – può perdere oggi definitivamente il suo ruolo culturale e diventare un utile e tranquillo strumento di analisi del funzionamento del cervello da parte delle cosiddette neuroscienze. Già nell’introduzione Frova afferma infatti: «Molti diranno: discutere dei demeriti della musica di concezione seriale e di quella che, similmente, si schiera sul fronte del “non bello” dovrebbe essere del tutto inutile. La spinta verso il bello, infatti, è nata con l’uomo ed è insopprimibile: essa è documentata fin dai più antichi utensili del paleolitico».
 
Si parla dunque del “bello” in musica, con uno scivolamento verso il mito del “buon selvaggio” – alquanto singolare peraltro per un uomo di scienza –, per cui se qualcosa è stato fatto o pensato nel paleolitico dalla specie umana è, by definition, naturale dunque bello. Non solo, subito dopo Frova afferma addirittura: «Mi pare allora quasi un dovere civile porre in evidenza quegli elementi negativi della dodecafonia che emergono da un’analisi in chiave scientifica del discorso musicale». A parte l’abuso dell’aggettivo “scientifico” (analisi in chiave scientifica, dunque incontestabile), si noti il compito etico-politico (un dovere civile) che il professore si assume, per mettere in evidenza nientemeno che gli «elementi negativi» della dodecafonia.
 
In questo Frova ha un illustre predecessore. Già Ernest Ansermet (1883-1969), direttore d’orchestra, anch’egli fisico, divenuto anche personaggio del Doktor Faustus di Thomas Mann, aveva tentato di fondare una metafisica della musica in grado di giustificarne l’esistenza su basi fisiche, psicologiche e etiche. E, non a caso, a proposito della dodecafonia Ansermet scriveva: «Questa musica costituisce un pericolo pubblico sul piano della vera cultura musicale» (da I problemi della musica (1963), in Scritti sulla musica, Edizioni Curci, 1991).
 
Frova usa un termine mutuato dalla fisica e parla di musica “adiabatica”. In fisica un sistema adiabatico è grosso modo un sistema isolato, che non scambia calore con l’esterno. La musica adiabatica sarebbe dunque musica che non trasmette “calore”. Interessante qui la critica “calorimetrica” alla musica fatta da un uomo di scienza, laddove la scienza stessa era stata accusata dai suoi detrattori (Husserl, Kuhn, Horkheimer, Feyerabend) negli stessi termini.
 
Per il resto il libro è un ottimo compendietto divulgativo di fisica generale, di fisica acustica, di neuroscienze, di acustica musicale e di armonia. Tutto spiegato in maniera qualitativa, con poche formule e ampio uso di tabelle, figure e grafici. Interessante il capitolo 6 (L’udito e la percezione dell’altezza), in cui il nostro “dottor Stranamore” ci spiega nel dettaglio il funzionamento del sistema uditivo. Nel paragrafo Segnali del nervo uditivo, ci dice ad esempio che sono stati condotti esperimenti su animali – che poi in nota a piè di pagina scopriamo essere dei porcellini d’India, delle cavie da laboratorio – «tramite l’impiego di microscopici elettrodi collegati a singole terminazioni del nervo uditivo». L’immagine di quei poveri porcellini d’India sottoposti a esperimenti invasivi che poi, nel libro di Frova, sono diventati funzionali a dimostrare la naturalità di una certo tipo di musica, mi ha fatto un certo effetto, non lo nascondo.
 
Ma la querelle non è nuova, già Alessandro Baricco ne L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin (Garzanti, 1992) aveva affrontato questi temi. In realtà quello di Baricco era un buscar el levante por el poniente, un parlare di musica per parlare della sua idea del “moderno”. Il libello, che si articola in quattro saggi, uno che tira la volata all’altro, inizia infatti con un’analisi della genesi dell’idea di musica colta – invenzione della borghesia ottocentesca che avrebbe trovato la sua «matrice ideologica», il suo mito delle origini, in Beethoven (un leit motiv per Baricco) –, sul cui presunto primato culturale Baricco si domanda: «C’è qualcuno che saprebbe davvero spiegare perché un giovane che preferisce Chopin agli U2 dovrebbe essere motivo di consolazione per la società? E si è davvero sicuri che, a voler stare là dove il presente accade, il posto giusto sia un Auditorium e non una sala cinematografica o una strada?». La domanda è evidentemente retorica, perché potrebbe essere tranquillamente rovesciata per sostenere la tesi opposta. Tuttavia Baricco, in questa presunta affermazione di superiorità, intravede un atteggiamento moralista e reazionario come risposta all’assedio del “moderno”.
 
Nel secondo saggio Baricco espone l’unica possibilità che la musica colta avrebbe di riscattarsi «dal triste destino di sfumare in prassi oscurantista e truffaldina», cioè quella di mettersi in corto circuito con la modernità, di «tornare ad essere idea che diventa». Come?, semplice: la musica colta è tale nella misura in cui non si esaurisce nel momento del suo consumo, e questo può farlo solo attraverso l’interpretazione. Partendo da una famosa frase di Adorno sull’interpretazione delle opere d’arte, tratta dalla sua Teoria estetica – «Le opere d’arte […] attendono la loro interpretazione» –, Baricco ne sottolinea la pertinenza nel campo dell’interpretazione musicale. L’interpretazione musicale sarebbe l’unico mezzo per traghettare la musica colta nella modernità. Testo e contesto non esistono più («l’originale non esiste»), o non sono più riproducibili, e l’interpretazione musicale è dunque un po’ tradire, e ricontestualizzare, il testo tràdito. La cosiddette “esecuzioni filologiche” sarebbero dunque solo «liturgia archeologica», mentre nel processo di attualizzazione di un’opera “radicalmente” interpretata «ciò che accade è il postumo reinventarsi della musica, non l’espressione dei sentimenti dell’esecutore». L’interprete veramente tale è colui che viviseziona l’opera decostruendone forma e linguaggio originari, per cogliere quei «frammenti di senso» che hanno qualcosa da dire nel proprio tempo.
 
E così, dopo aver buttato a mare tutto il movimento della Early Music, Baricco, nel terzo capitolo, butta a mare – hic sunt leones – anche la neue Musik. Eccone l’abstract ideologico: «Essa [la musica contemporanea] appare come un corpo separato, che si arrotola su se stesso, impermeabile alla modernità e ipnotizzato dalle proprie vicende. Un’avventura autonoma, schizzata via per una tangente che corre sempre più lontana dal cuore del mondo. Un’acrobazia dell’intelligenza diventata ripetizione di se stessa, spettacolo inquietante di un sogno dell’immaginazione avvitato sui propri incubi e incapace di ritrovare le vie del reale». Alla faccia dell’atteggiamento moralista e reazionario!
 
Liquidata la Nuova Musica, nel quarto saggio Baricco esplora quello che secondo lui è il concetto fondamentale della modernità: la spettacolarizzazione. «La modernità è innanzitutto uno spettacolo», e di questo spettacolo l’incarnazione migliore è oggi rappresentata dal cinema (un altro leit motiv baricchiano) che è divenuto «rifugio dell’arte e dimora del Senso». Ma anche la musica leggera. Così Mahler e Puccini vengono delineati come i profeti di questa modernità.
In questa visione corriva dell’evoluzione della cultura musicale è ovvio che l’unico elemento che non si allinea a quest’idea, che l’arte cioè debba sempre farsi interprete della modernità del suo tempo, è proprio la parentesi della Nuova Musica, con l’atonalità e la dodecafonia che ne rappresentano la svolta linguistica più radicale.
 
Non è il luogo questo per fare un discorso articolato sulla genesi della Nuova Musica, sulla dodecafonia, e sulle avanguardie musicali del secolo scorso, che dovrebbe basarsi su una seria critica-storia piuttosto che su luoghi comuni e immagini ad effetto. Quello che è interessante qui è che le argomentazioni di Baricco sono significativamente simili, nelle conclusioni, a quelle di Frova. Da una parte un’astratta idea del moderno, dall’altra un’altrettanto astratta idea di natura.
 
E a questo punto è utile ricordare quella mirabile raccolta di brevi saggi di Massimo Mila, intitolata L’esperienza musicale e l’estetica (Einaudi, 1950-2001). Mila è stato uno dei più acuti intellettuali del nostro tempo. Fu insigne storico e critico musicale (ancora oggi è famosa la sua Breve storia della musica), nonché scrittore, saggista e traduttore (sua è la traduzione di Siddartha di Herman Hesse). Riassumere qui i contenuti di quella raccolta è praticamente impossibile, tanti e tali sono i risultati teorici nell’ambito dell’estetica musicale che vi sono esposti con grande lucidità. Basta citarne solo alcune frasi. Nel saggio Capire la musica (1948) Mila scrive: «Certo, la musica è espressione della qualità umana, di un uomo così e così individuato, che nella sua singola puntualizzazione è il portato e il compendio d’un’intera situazione storica, […]. Capire la musica, allora, vuol anche dire possedere tutto quel bagaglio di cognizioni storiche e filologiche che permettono di collocare un autore musicale nella storia dello spirito umano e della cultura, e anche quelle doti di penetrazione umana, perfino psicologica, che consentono d’intenderne con calore d’affetto la personalità, e di riconoscerne nelle opere i vari aspetti e momenti». E nel saggio Fondamenti di una teoria dell’atto musicale (1950): «L’espressione in cui consiste la natura dell’arte non è espressione voluta di qualchecosa, ma è la presenza inevitabile della persona umana, diversamente individuata nei singoli artisti, come compendio vivente, e quindi sempre in via di trasformazione, d’un concorso di circostanze storiche. È quel complesso inscindibile di note psicologiche per cui Mozart è Mozart, e non è Haydn, Bach non è Händel e Debussy non è Ravel». Considerazioni queste che da sole ci indicano che forse non è necessario reinventare la ruota ogni volta che ci si innamora di un’idea e da questa si vuol far discendere la genesi del mondo, specie se poi si va a cozzare contro questioni complesse di natura musicale.
 
Ma allora: se sia la Early Music sia la neue Musik soffrono della stessa sorte amara, quella cioè di un “pubblico” che le snobba, non sarà che quel pubblico è stato abituato solo a un certo tipo di musica e a un certo modo di rappresentarla? In fondo l’idea della Early Music è che un testo esiste sempre, sia pure frammentario, e che è sempre possibile, dalle fonti originali e dalle edizioni critiche, ricostruire le intenzioni originali del compositore in una sorta di ur-testo (le edizioni urtext appunto) eseguibile. L’interpretazione parte da quel testo, che è asintoticamente il più vicino possibile a quelle intenzioni, per evidenziarne l’espressione inconsapevole sottostante. Dal canto suo il movimento della neue Musik ha portato il linguaggio del testo musicale a sperimentare nuove forme espressive, e a diventare esso stesso forma artistica. Anche in questo caso l’interpretazione fa rivivere l’espressione inconsapevole di quel testo, senza ulteriori mediazioni. Early Music e neue Musik condividerebbero dunque la “colpa” di avere testi difficilmente manipolabili. Il corto circuito tra compositore e pubblico attraverso l’interprete (non già tra interprete e idee astratte), forse è quello il vero problema.
 
Nessuno si sognerebbe oggi di dire cosa devono o non devono fare l’arte, la letteratura o l’architettura per essere veri interpreti della modernità o della natura. Non così sembra essere per la musica. L’odio verso le avanguardie espressive del Novecento è persistente, decisamente fuori luogo rispetto al fenomeno stesso. Questo atteggiamento conferma la sensazione che il problema non sta nella rivoluzione linguistica delle avanguardie, quanto piuttosto nell’affermazione d’un’autonomia totale del compositore e della composizione. La musica è un’attività incontrollabile, pluridisciplinare, trasversale. Per questo è difficile incasellarla, definirla, delimitarla. E se non si fa interprete di qualcosa diventa automaticamente un «pericolo pubblico».
 
Rieccomi dunque, con la memoria, a quella presentazione di quasi due anni fa del libro di Frova. In quell’occasione è stato detto di tutto. Nicola Piovani, invitato da Frova, ricordando l’esaltazione da parte di Karlheinz Sotckhausen per l’attentato delle torri gemelle (in realtà affermazione artistica, ampiamente smentita e ridimensionata), ha parlato di una sorta di “pensiero terroristico” di cui una certa sperimentazione musicale si sarebbe fatta portatrice. E alla fine qualcuno tra i presenti, nell’esaltazione generale, è arrivato anche a dire che le mucche con la musica dodecafonica producevano il latte acido. Saranno state le stesse mucche del Wisconsin che aumentavano la produzione del 7,5% ascoltando la musica sinfonica?
 
Infine: in sala, tra il pubblico, c’era un pezzo di storia della fisica italiana: il prof. Carlo Bernardini, collega e amico di Frova. Si dà il caso che Carlo sia padre di ben due musicisti per certi versi antitetici: Alfredo, oboista barocco, e Nicola, compositore contemporaneo. Il buon Bernardini, prendendo la parola subito dopo le affermazioni di Piovani, e pur essendo sostanzialmente d’accordo con la visione di Frova, non ha mancato di esordire, prima di fare una domanda, con una delle sue battute che da sole riassumono un pensiero, dicendo all’incirca: «Beh, dopo quello che è stato detto temo che si aggiri ora tra di noi Dodecabomber!». In disparte, alla fine del dibattito, Bernardini mi racconta poi sottovoce, con tono affettuoso e un pizzico d’orgoglio, del suo figlio compositore dodecafonico.

 

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14 Commenti

  1. Cara Orsola,
    non sono una vacca del Wisconsin ma un bue (ahimè piuttosto grasso) del Piemonte e volentieri mi offro, nella mia deprecabile ignoranza musicale, come cavia con indubbi tratti di umanità ma ancora sufficientemente bestia.
    Per me la differenza fra la Musica Vecchia e quella Nuova (in quanto separabili) è la seguente.
    Nella prima, per quanto difficile sia, si riesce comunque a individuarne capo, svolgimento e coda; quindi un disegno, l’affermazione dell’idea di un senso; pertanto l’ascolto, a volte frustrante, in realtà non lo è mai del tutto, e almeno un po’ di consolazione non la nega a nessuno.
    Nella seconda, per quanto calda sia (chi lo ha detto che è sempre fredda? Ce n’è di caldissima, ma non chiedetemi titoli, oltre che ignorante sono anche smemorato), la democrazia che vige fra gli elementi delle serie vieta l’idea stessa dello svolgimento di un (pre)esistente disegno. Il brano, almeno per l’ascoltatore candido come me, comincia all’improvviso, finisce all’improvviso, ed in mezzo non ci sono che episodi, che in quanto tali si può anche imparare ad apprezzare, senza però la pretesa di trarne indicazioni o morali, se non debolissime e rigorosamente negative.
    Pertanto, ciò che al massimo si può trarre dall’ascolto, se non ci si riesce a liberare dei panni dell’uomo vecchio, è una sensazione di vanità (la “imminenza d’attesa” è protratta dall’inizio alla fine del pezzo, giunti alla quale si ha la conferma che di quell’attesa mancavano i presupposti e l’oggetto), e magari persino di verità; ma di una verità da rimuovere e rioccultare più che in fretta, se si ha il sacro timore di poter attingere a un ascetismo contermine al cinismo.
    In cambio di questa noterella approssimativa e banale chiederei alla tua cortesia una lista d’ascolti (di Musica Vecchia o Nuova, vedi un po’ tu) capaci di farmi dimagrire; mandamela però discretamente, perché se se ne accorge il mio Allevatore passiamo entrambi un guaio.
    Un caro saluto,
    Roberto

  2. Nota al mio commento precedente.

    “Nella seconda […] la democrazia che vige fra gli elementi delle serie vieta l’idea stessa dello svolgimento di un (pre)esistente disegno.”
    Il disegno di cui pare vietata ogni possibilità d’esistenza è ovviamente quello provvidenzialistico rispetto all’ipotetico organismo cui l’opera rimanderebbe, contrapposto a quello algoritmico rispetto al meccanismo che l’opera è.

    Un altro saluto,
    Roberto

  3. Il libro citato nel sudetto articolo riporta, a p.116, un esperimento vivisettorio dove si vuole dimostrare che ai topi piace la musica classicamente consonante. Il capitolo dove si ripota tale esperimento è introdotto da una massima di H.Riemann: “il percorso storico della musica è segnato dal dito indice della natura”. In effetti, H. Riemann, anche se non deve confondersi con il famoso MATEMATICO G.F.B.Riemann, vi converge attraverso l’uso del ” Tonnetz” (tone-network). In questo contesto non posso soffermarmi sul percorso matematico musicale, da Euler a H.Riemann fino a Lewin et Al., ma segue a tutti gli effetti la massima di H.Riemann attraverso l’innalzamento della musica ai vertici dell’alta matematica con l’uso della Geometria Algebrica -a partire dalla topologia. Tutto ciò rende grottesco ogni riferimento alle vecchie e, già da oltre un secolo rivelate fallaci e dannose, tecniche meccanistiche vivisettorie. Il fare ricorso a tali fallaci tecniche tradisce una limitazione di conoscenze scientifiche e filosofiche; significa vedere solo il dito e non ciò che indica.

  4. Ciao Orsola
    mi chiamo Luca Di Bucchianico e sono un musicista e un futuro(?) professore di musica. Ho trovato il tuo articolo molto interessante. Anni fa quando studiavo al DAMS di Roma ho partecipato ad una conferenza in cui il prof. Frova aveva esposto questa sua teoria sulla predilezione fisiologica dell’orecchio all’eufonia o consonanza o tonalità o triade maggiore etc.
    Quella volta la sua argomentazione non ebbe molto successo forse perchè al dibattito parteciparono anche compositori di musica elettronica, fra i quali Giorgio Nottoli, ed etnomusicologi che solitamente vedono nella cacofonia solo un’altra modalità di espressione musicale peculiare ad ogni cultura. Ricordo che nel corso della conferenza la discussione si era progressivamente infuocata ed è stato molto divertente ed interessante. Puntare il dito sulla dodecafonia (cos’è la dodecafonia? un metodo? una scuola? un genere? Schoenberg non ha mai definito la sua musica “dodecafonica”!) è come sputare in cielo, non capisco l’utilità di questa critica. Se la “seconda scuola di Vienna” avrebbe proiettato la musica alla sua età della pietra perchè allora non criticare lo stile galante di aver bollato lo stile maturo di J. S. Bach come astruso e di difficile ascolto? E tanti altri casi potrebbero essere citati. E pensare che da questa età della pietra hanno prolificato una miriade di compositori e di composizioni di enorme valore come sempre accade nella storia della musica, la quale non può e non deve essere valutata con criteri ideologici radicali e assolutizzanti. Io credo che certi brani di musica d’avanguardia, come sostiene R. Middleton, possano creare i loro propri codici individuali non espliciti che necessitano di essere recepiti all’interno di un senso generale di “comprensione” ; questo vale per la dodecafonia, per il serialimo, per il minimalismo e vari “ismi” ancora. Questo tipo di musica “ipocodificata” (usando un termine di Umberto Eco) ci chiede di ascoltare la musica ed il suono non in senso edonistico o ludico ma di vivere una esperienza estetica nuova, legata ad un contesto culturale specifico, e connessa anche alla musica del passato (Schoenberg non distrugge il linguaggio tonale, lo trasforma, lo fa evolvere, lo cambia utilizzando gli strumenti forniti dalla sua sintassi, come fece ad esempio Monteverdi con la musica a lui precedente).
    Per quanto riguarda il pubblico credo che purtroppo molte persone vedranno sempre la musica più come un fastidio che come una forma d’arte, so di essere spietato ma quando mi trovo a “schippare” tra centinaia di mp3 spasmodicamente in cerca di musica che mi attiri anch’io mi sento infastidito dalla “musica”, la quale non è semplicemente un brano, una melodia, un concerto ma forse un concetto cuturale, sociale e psiocologico complesso che ci fa essere contradditori.
    Scusa se mi sono dilungato.
    Grazie per l’attenzione
    Luca

  5. Grazie per i commenti di qualità davvero alta e per l’attenzione, ma il bell’articolo è di Cristoforo Prodan non mio, che l’ho soltanto pubblicato come redattrice di Nazione Indiana.

    ,\\’

  6. Roberto,

    la Nuova Musica (e anche la dodecafonia dunque) è assimilabile a un movimento di liberazione del linguaggio musicale. Da quel momento ognuno ha scelto la sua strada per esprimersi. Quindi, con gli ascolti, puoi anche tralasciare la dodecafonia e cominciare con lo storico:

    Gesang der Junglinge (1956) di Karlheinz Stockhausen:

    http://it.youtube.com/watch?v=4RkdO_qBGvM

    passare poi attraverso “… sofferte onde serene…”, per pianoforte e nastro magnetico (1976) di Luigi Nono:

    http://it.youtube.com/watch?v=OXcclxL1ZIY
    http://it.youtube.com/watch?v=HldTiNWVvno

    solo così:

    Non più andrai, farfallone amoroso,
    Notte e giorno d’intorno girando,
    Delle belle turbando il riposo,
    Narcisetto, Adoncino d’amor.

    http://it.youtube.com/watch?v=vWTtNUZUH8U

    e se alla fine,

    in quanto mucca del Wisconsin, avrai prodotto più latte (anche se acido non fa niente, tanto lo vendiamo lo stesso) e non avrai fatto come il Carlos di “Switched on Bach” che da Walter divenne Wendy,

    allora, e solo allora,

    andremo in discoteca a rilassarci con un dj-set di Ricardo Villalobos:

    http://it.youtube.com/watch?v=h0i1Szq6GM8

    e di “nuova” in “neue”, tutto il resto è noia.

    Cristoforo (che tra poco, sulla scia di Wendy Carlos, si farà chiamare Orsola)

  7. Gentile Cristoforo,
    come bue (troppo grasso) non ho il problema di fare più o meno latte, ma quello di dimagrire; alla risoluzione del quale potrebbe contribuire il tuo ultimo suggerimento: mezz’ora al giorno di “rilassante” ascolto ballato e la perdita di peso è assicurata!
    (Ma anche quella della salute mentale, posto che la cosa abbia qualche importanza.)
    Grazie e buon proseguimento,
    Roberto (/a?)

  8. Articolo molto interessante, con spunti per i profani come me, che vogliano poi approfondire. Complimenti a Cristoforo.

  9. Frova commette, evidentemente, lo stesso errore dei teorici della musica, di qualunque tipo di “nuova” musica si tratti: tentare un approccio scientifico, matematico, all’arte, quando questa non è altro che un fluire di emozioni, anche quando attraversi il cervello e non il cuore, per usare termini ancora meno scientifici. In quanto alla musica rifiutata dal pubblico, siamo sicuri che non sia essa a rifiutare il pubblico e a essere rivolta solo a chi ha un background tale da permettere di “capire”, e cioè, come dice Baricco, accartocciata su se stessa, rivolta soltanto a un auditorio scelto?
    Osservazioni, le mie, da profano, da amatore della Musica tutta, dai Canti Gregoriani a Luigi Nono, da Jelly Roll Morton ai Non Phixxion.

  10. Rispondo al buon Americo (Enrico), se avrà ancora la pazienza di seguirci.

    Non ho approfondito gli studi del musicologo tedesco Hugo Riemann sulla “tonnetz” (rete di suoni) e sull’approccio matematico alla musica attraverso la geometria algebrica e la topologia. Personalmente ho l’impressione che si tratti di una delle tante possibili applicazioni di moderni e potenti modelli matematici. Poco più che un utile esercizio di sintesi dunque, poiché la matematica, pur non essendo scienza, è economia di pensiero.

    E comunque concordo con te sul fatto che riferirsi a tecniche vivisettore per indagare su delle preferenze auditive in campo musicale è grottesco. Nella pagina a cui ti riferisci Frova dice testualmente: «A proposito degli effetti fisici relativi all’ascolto di accordi […] esiste uno studio pionieristico che indicherebbe che topi usati come cavie in laboratorio mostrano preferenza per certi intervalli classicamente consonanti rispetto a quelli dissonanti». E l’articolo di riferimento, citato in nota a piè di pagina, è il seguente: H.M. Borchgrevink, “Musikalske akkordpreferanser hos mennesket belyst ved dyreforsøk [Musical chord preferences in human as demonstrated through animal experiments]”, «Tidskrift for den Norske Laegeforening», Vol. 95, 1975, p. 356.

    Il suddetto articolo “scientifico” è anche più raccapricciante, sotto certi aspetti, di quello che citavo a proposito dei porcellini d’India, che era: I. Tasaki, “Nerve impulses in individual auditory nerve fibers of Guinea pig”, «Journal of Neurophysiology», Vol. 17, 1954, p. 97. Più raccapricciante perché mentre quest’ultimo – si spera – dovrebbe essere stato condotto per analizzare gli impulsi nervosi nel nervo uditivo, e dunque a fini per così dire “nobili” nel campo della ricerca scientifica neurofisiologica, l’altro sembra sia stato fatto quasi esclusivamente per dimostrare perché gli umani preferiscono ascoltare determinati accordi. Se di questo veramente si trattasse, sarebbe veramente aberrante.

    Mi viene in mente un articolo che lessi tantissimi anni fa sulla rivista Sapere nel quale, per descrivere gli usi impropri e aberranti del paradigma scientifico, si raccontava la storia di un medico ottocentesco che si era messo in testa di sbiancare i neri, e aveva cominciato a torturare dei poveretti con l’uso di acidi.

    Ma al di là di questi aspetti etici della ricerca in questi e altri campi, rimane lo stupore per il fatto che proprio sulla musica si mobilitino tante e tali intelligenze, sia in campo scientifico sia in campo filosofico. Il tutto per dimostrare che cosa? Che la musica deve essere fatta in un certo modo?, o che non serve a niente? Se così stanno le cose è meglio allora non ascoltare più musica; e non fare più scienza o filosofia, visto che queste ultime a quel punto servirebbero solo a prolungare la nostra agonia su questo pianeta.

  11. Errata corrige
    Giro il mio commento a Cristoforo Prodan e ringrazio Orsola per avermi fatto notare l’errore e se mi è permesso consiglio a Roberto l’ascolto dei “Cinque pezzi per orchestra op. 10” (1911-13) di Anton Webern, un brevissimo esempio di vecchia “nuova musica”…in tutto l’opera dura 4 minuti e mezzo

  12. Caro Luca, che dire. Sono d’accordo con il tuo intervento. E l’accordo a questo punto non può che essere consonante!

    Per Capitan Feendoos. Si potrebbe (e dovrebbe) discutere molto su cosa significa veramente “capire la musica”. Io penso che l’idea astratta di “pubblico” mimi in realtà il concetto di “mercato”. E sia il mercato sia il pubblico sono due cose costruite, e dunque modificabili, che non preesistono alle azioni umane, siano esse di natura artistica o di natura economica. Ed è ovvio che fa comodo pensare il contrario invece: il prodotto si deve adattare al “mercato”, così come la musica al “pubblico”.
    Detto questo, mi viene in mente Michele Apicella, il regista incompreso del film “Sogni d’oro” di Nanni Moretti, che dopo l’ennesima sconfitta in una gara assurda decide di salutare per l’ultima volta il suo pubblico che una volta l’aveva idolatrato e grida: Pubblico di merda! Pubblico di merda! Pubblico di merda! E il pubblico che si alza tutto in piedi e comincia a urlare a tempo “Pubblico di merda!”. Grandiosa scena:
    http://it.youtube.com/watch?v=J1r2PoPgkgw

  13. Una piccola precisazione: Usare la vivisezione per dimostrare la preferenza dei topi ad un tipo di musica piuttosto che un altro è grottesco. Usare la vivisezione in tutti gli altri ambiti è, come ben noto da oltre un secolo, solo per scopo di lucro, che diviene semprè più spudorato.

    Enrico Spoletini

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Colfiorito
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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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