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Quello che succede e quello che non succede

di Javier Marías, a cura di Antonio Sparzani

Madrid, città di intensi odori
Madrid, città di intensi odori

Tempo fa ho cominciato a leggere Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías, ormai affermato, prolifico e pluritradotto scrittore madrileno. Dopo una trentina di pagina l’ho mollato. Non era il momento. Ma dopo un anno circa ho letti i primi due volumi già usciti in Italia della sua trilogia Il tuo volto domani, mi hanno affascinato, e, in attesa della prossima traduzione del terzo – già uscito in Spagna – ho ripreso in mano, in queste settimane di forzata inerzia, il volume che avevo in un primo tempo abbandonato. L’ho letto d’un fiato e l’ho molto apprezzato. Mi ero forse avvezzato allo stile dell’uomo, al suo undivago girovagare per pensieri e discorsi, al suo personalissimo modo di scavare nel flusso di coscienza.
Non intendo proporne una recensione, perché recensire un volume così scritto è superiore alle mie capacità e difficilmente darebbe dunque la misura dello spessore di Marías. Intendo invece copiarvi qui un capitoletto finale, che lui chiama Epilogo, che non ha nulla a che vedere con la vicenda narrata nel romanzo, ma che è un discorso sul romanzo in generale e sullo scrivere della realtà, quale realtà. Mi pare che chi scrive – e anche chi legge – possa leggerlo con vero piacere e interesse. Eccolo dunque:
[l’originale Mañana en la batalla piensa en mí è uscito in Spagna nel 1994; il titolo riproduce la frase più volte ripetuta (Tomorrow in the battle think on me) a re Riccardo, la notte precedente la sua sconfitta e morte sul campo di Bosworth (atto V, scena III, del Riccardo III di Shakespeare) dai fantasmi di tutti coloro che egli fece uccidere.]

«Forse non è la cosa più sensata, da parte di uno scrittore che scrive soprattutto romanzi, confessare che gli sembra sempre molto strano non soltanto scriverne ma anche leggerne. Ci siamo abituati a questo genere ibrido e flessibile da almeno trecentonovant’anni, da quando nel 1605 usci la prima parte del Chisciotte nella mia città natale, Madrid, e ci siamo cosi tanto abituati che consideriamo del tutto normale il gesto di aprire un libro e di cominciare a leggere ciò che non ci si nasconde che è finzione, vale a dire, qualcosa di non accaduto, che non ha avuto luogo nella realtà.
Il filosofo romeno Cioran, morto di recente, spiegava che non leggeva romanzi proprio per questa ragione: poiché sono accadute tante cose nel mondo, non poteva interessarsi a quelle che non sono neppure avvenute; preferiva le memorie, le autobiografie, i diari, gli epistolari e i libri di Storia.
A ben pensarci, forse Cioran non aveva torto e forse è inspiegabile che persone adulte e più o meno coscienti siano disposte a immergersi in una narrazione di cui sin dal primo momento sanno che si tratta di un’invenzione. È ancora più strano se consideriamo che i nostri libri attuali hanno in copertina, ben visibile, il nome dell’autore, spesso la sua foto e una nota biografica nel risvolto, talvolta una dedica o una citazione, e sappiamo che tutto questo è ancora di quell’ autore e non del narratore. A partire da una determinata pagina, come se con quella pagina si levasse il sipario di un teatro, fingiamo di dimenticare del tutto ciò di cui siamo bene al corrente e ci accingiamo ad ascoltare un’altra voce – in prima o in terza persona – che tuttavia sappiamo essere la voce di quello scrittore, impostata o mascherata. Che cosa ci dà questa capacità di simulare? Perché continuiamo a leggere romanzi, e ad apprezzarli e a prenderli sul serio e perfino a premiarli, in un mondo sempre meno ingenuo?

Sembra un dato di fatto che l’uomo – e forse la donna ancora di più – abbia bisogno di una certa dose di finzione, vale a dire, abbia bisogno dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale. Non mi spingerei fino al punto di usare espressioni che trovo risapute o kitsch, come affermare che l’essere umano ha bisogno di «sognare» o di «evadere» (un verbo, quest’ultimo, molto mal visto negli anni settanta, sia detto en passant). Preferisco dire che ha bisogno di conoscere il possibile oltre che il vero, le congetture e le ipotesi e i fallimenti oltre ai fatti, ciò che è stato tralasciato e ciò che sarebbe potuto essere oltre a quello che è stato. Quando si parla della vita di un uomo o di una donna, quando se ne traccia una ricapitolazione o un riassunto, quando se ne racconta la storia o la biografia, in un dizionario o in una enciclopedia o in una cronaca o chiacchierando tra amici, si è soliti raccontare ciò che quella persona ha portato a compimento e ciò che è effettivamente accaduto. In fondo, tutti abbiamo la stessa tendenza, vale a dire quella di vederci nelle diverse fasi della nostra vita come risultato e compendio di ciò che ci è accaduto e di ciò che abbiamo ottenuto e di ciò che abbiamo realizzato, come se fosse soltanto questo ciò che costituisce la nostra esistenza. E dimentichiamo quasi sempre che le vite delle persone non sono soltanto questo: ogni percorso si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine -, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno paralizzati, di ciò che abbiamo abbandonato e di ciò che ci ha abbandonati. Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che sarebbe potuto essere.
E mi spingo fino a pensare che sia appunto la finzione a raccontarci tutto questo, o meglio, a servirci da promemoria di quella dimensione che siamo soliti lasciare da parte al momento di raccontare e di spiegare noi stessi e la nostra vita. E oggi il romanzo è ancora la forma più elaborata di finzione, o cosi credo.
In un certo senso, il libro che la giuria del Premio Internacional Rómulo Gallegos ha appena premiato in modo tanto arrischiato e discutibile tratta di questo. Nel testo che avete tra le mani si dice che Domani nella battaglia pensa a me parla, tra le altre cose, dell’inganno nel senso più ampio della parola, e si cita una frase del romanzo che afferma: «Vivere nell’inganno è facile ed è la nostra condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto». Si ricorda che tutti viviamo, in maniera parziale ma permanente, subendo l’inganno oppure praticandolo, raccontando soltanto una parte, nascondendo un’altra parte e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano. E tuttavia, a quel che sembra, non siamo del tutto capaci di abituarci a ciò. E quando scopriamo che qualcosa non era come l’abbiamo vissuto – un amore o un’amicizia, una situazione politica o un’aspettativa comune e addirittura nazionale – ci si presenta nella vita reale quel dilemma che può tormentarci così tanto e che in grande misura è il terreno della finzione: non sappiamo più com’è stato per davvero ciò che ci sembrava certo, non sappiamo più come abbiamo vissuto ciò che abbiamo vissuto, se è stato quello che abbiamo creduto fino a quando siamo stati ingannati o se dobbiamo gettare tutto quanto nel sacco senza fondo dell’immaginario e tentare di ricostruire i nostri passi alla luce della rivelazione presente e del disinganno. La più completa delle biografie non è fatta d’altro che di frammenti irregolari e di scampoli scoloriti, anche la propria biografia. Crediamo di poter raccontare le nostre vite in maniera più o meno ragionata e precisa, e quando cominciamo ci rendiamo conto che sono affollate di zone d’ombra, di episodi non spiegati e forse inesplicabili, di scelte non compiute, di opportunità mancate, di elementi che ignoriamo perché riguardano gli altri, di cui è ancora più arduo sapere tutto o sapere qualcosa. L’inganno e la sua scoperta ci fanno vedere che anche il passato è instabile e malsicuro, che neppure ciò che in esso sembra ormai fermo e assodato lo è per una volta e non per sempre, che ciò che è stato è composto anche da ciò che non è stato, e che ciò che non è stato può ancora essere.
Il genere romanzo dà tutto questo o lo sottolinea o lo porta alla nostra memoria e alla nostra coscienza, e da ciò deriva forse il suo perdurare e il suo non essere morto, contrariamente a quanto è stato affermato tante volte. Da ciò deriva che forse non è vero quel che ho detto all’inizio, cioè che il romanzo racconta quello che non è accaduto. Forse è vero piuttosto che i romanzi succedono per il fatto che esistono e vengono letti e, a ben vedere, con il passare del tempo ha assunto più realtà Don Chisciotte che qualunque altro dei suoi contemporanei storici della Spagna del xvii secolo; Sherlock Holmes è successo in misura più ampia che non la regina Vittoria perché continua ancora a succedere ininterrottamente, come fosse un rito; la Francia degli inizi del secolo più vera e duratura, più «praticabile», è senza dubbio quella che compare nella Ricerca del tempo perduto; e penso che per voi !’immagine più autentica del vostro paese sia mescolata alle pagine inventate da don Rómulo Gallegos. Un romanzo non soltanto racconta, ma ci permette di assistere a una storia o ad alcuni eventi o a un pensiero, e nell’ assistervi ci permette di comprendere.
Sapere tutto ciò – credere di saperlo, più esattamente – a volte non risulta sufficiente per lo scrittore, mentre scrive. Vi sono momenti in cui alzo lo sguardo dalla macchina da scrivere e mi estranio dal mondo da cui sto emergendo, e mi domando come, nella mia età adulta, possa dedicare tante ore e tanta fatica a qualcosa di cui il mondo, me compreso, potrebbe fare tranquillamente a meno; come possa impegnarmi a riferire una storia che io stesso vado scoprendo man mano che la costruisco, come possa trascorrere parte della mia vita calato nella finzione, a far succedere cose che non succedono, con la stravagante e presuntuosa idea che tutto questo possa un giorno interessare qualcuno. Come, secondo la definizione dell’ attività letteraria data dal romanziere e saggista e poeta Robert Louis Stevenson, possa starmene «a giocare in casa, come un bambino, con della carta». Ogni scrittore è ancora di più lettore, e lo sarà sempre: abbiamo letto più libri di quelli che potremo mai scrivere, e sappiamo che quell’interesse, quell’appassionarsi, è possibile perché lo abbiamo sperimentato centinaia di volte; e che talvolta comprendiamo meglio il mondo o noi stessi attraverso quelle figure fantasmali che percorrono i romanzi o quelle riflessioni fatte da una voce che sembra non appartenere del tutto all’autore né al narratore, cioè, non del tutto a nessuno di loro. Scopriamo anche che forse scriviamo perché alcune cose possiamo soltanto pensarle mentre lo facciamo, anche se quando mi domandano, molto spesso, perché scrivo, preferisco rispondere che lo faccio per non avere un capo e per non alzarmi presto. Oltretutto, credo che sia vero, molto di più di quanto ho appena finito di dire.
Quel che è certo è che ricevere un premio come il Rómulo Gallegos comporta, oltre che essere un onore e una grande gioia, una specie di benevolo promemoria per il futuro. Quando starò scrivendo il prossimo romanzo, e di tanto in tanto farò una pausa e alzerò lo sguardo e mi estranierò dall’immaginario che mi avrà assorbito per un lungo momento, potrò pensare che, contrariamente alle mie previsioni e alle mie apprensioni, una volta, molto lontana dal mio paese, vi sono stati lettori generosi e attenti che non soltanto condividono la lingua in cui mi esprimo ma che hanno voluto interessarsi a ciò che ho inventato e aggiunto al cumulo interminabile di ciò che allo stesso tempo non succede e succede o, ed è la stessa cosa, di ciò che sarebbe potuto e può essere.»

[Discorso pronunciato a Caracas il 2 agosto 1995, durante la cerimonia per la consegna del Premio Rómulo Gallegos.]
Di questo tema si parla anche in una bella intervista di Massimo Rizzante a Gianni Celati di qualche tempo fa.

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27 Commenti

  1. “Sembra un dato di fatto che l’uomo – e f o r s e l a d o n n a a n c o r a d i p i ù – abbia bisogno di una certa dose di finzione, vale a dire, abbia bisogno dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale.”
    C A C C H I O !

  2. Marias non vale niente. E’ un’inutile fatica leggerlo, tentare di leggerlo. Una faticaccia immane arrivare alla fine. Pessimo scrittore, mglio sarebbe che almeno in Italia la smettessero di tradurlo.

  3. Descrivere una persona o una vicenda si può attraverso ciò che essa è o appare essere, ma anche attraverso ciò che non è e nelle infinite combinazioni di questi metodi opposti. Che, dunque, opposti non sono, come la realtà non è certo l’opposto del romanzo. Considero Marias uno dei migliori scrittori viventi, e Sparzani un indiano parco ed efficace (in bocca al lupo).

  4. Sono d’accordo con niky, sebbene ci impuntiamo ogni tanto sulle frasi, per quanto riguarda Marias, e Iannozzi se fatica a leggere Marias farebbe bene ad abbassare i suoi livelli di lettura. In parte ha ragione, se uno non riesce a venire a capo di equazioni complesse è bene che torni a far di conto con addizioni e sottrazioni.

  5. Poche righe per un libro di racconti a fronte di un’opera che comprende almeno due libri che meriterebbero riflessioni più distese non mi pare che diano più fondatezza ad un giudizio che è e resta incompleto. E poi non è questione di completezza, mi sembra chiaro.

  6. e se uno sproloquiasse per decine di pagine su, che so?, Dante stroncandolo, basterebbe la misura a “completare” il suo giudizio e a legittimarne il contenuto? No, no, ragioniamo e poi parliamo.

  7. Sarebbe già più accettabile dire “per me non vale niente” o “a me non piace”, ma non si può pretendere tutto da tutti.
    Grazie niky, di cuore.
    Personalmente, sto aspettando che esca tradotto in Italia il terzo volume di Tu rostro mañana.

  8. Sparzani caro, da te non si puo’ invece pretendere proprio niente. La tua critica si risolve in una leccata: “…in Italia della sua trilogia Il tuo volto domani, mi hanno affascinato…”.

  9. Anch’io ho delle perplessità su marias, il dubbio che si tratti di una bufala di gran classe, o almeno di uno scrittore che compensa la non eccelsa ricchezza e profondità e necessità del suo mondo poetico con la capacità di scrittura, l’intelligenza compositiva e la conoscenza dei piani alti della cultura europea e internazionale.
    Bolano ad esempio non mi ha mai lasciato in dubbio.
    Ma come sempre quelli che si danno sui contemporanei sono giudizi estremamente personali.

  10. @ alcor
    “capacità di scrittura, l’intelligenza compositiva e la conoscenza dei piani alti della cultura europea e internazionale” sono cose precise, si capisce di che parli (per inciso, sono tra le qualità di un grande scrittore), ma “ricchezza e profondità e necessità del suo mondo poetico”…siamo ai limiti del lessico accademico italiana degli anni cinquanta, un tardo crocianesimo. Cosa intendi, esattamente?

  11. Intendo che gli strumenti professionali li ha tutti, compresa quella dote innata che è il passo lungo del romanzo, ma che sotto rischia di esserci poco, ammantato, tra l’altro, come nel pezzo qui sopra, da una certa prolissità. Il suo rapporto con l’epoca, che nel romanzo non di finzione, ma anche in quello di finzione, seppure in altra forma, rende la scrittura vitale, in marias a mio avviso manca, e se dobbiamo parlare di accademismo, marìas non ne è esente, e parlo di quel particolare accademismo dello scrittore di professione che piace molto alle persone “colte”. Di cosa parla marias? e quello di cui parla, sposta l’ottica, non dico di pensiero, ma anche solo formale del lettore? Mah, sono incerta. Se vuoi un saggio, dove potrei anche non sfiorare il lessico accademico degli anni 50, solo a pagamento.
    Ah, a proposito, “capacità di scrittura, l’intelligenza compositiva e la conoscenza dei piani alti della cultura europea e internazionale” non sono solo tra le qualità del grande scrittore, ma dell’intellettuale in genere, vedi Calasso, il grande scrittore può averne di meno, da qusto punto di vista, ma averne di più di altro genere, vedi kafka, che i piani altri della scrittura europea e internazionale non li frequentava poi molto, o Fenoglio, o Céline, per dare un campionario di diversi valori.

  12. Ciò detto, l’ho sempre letto con un certo piacere, salvo il noiosissimo libro sull’inghilterra, ché solo bolano riesce a rendere l’amibente accademico una spoletta che fa deflagrare verso altri lidi.

  13. Un autore fintamente colto e raffinato. Puo’ trarre in inganno, ma la maggior parte di chi l’ha letto è rimasto deluso: i suoi iibri non sono di sostanza, non dicono, riempiono solo le pagine di segni mortali. Ha uno stile, ex abrupto, piacevole; ma ben presto ci si rende conto che è sterile e nemmeno così raffinato come uno potrebbe esser portato a pensare ad inizio lettura.

  14. @alcor
    p.s. noiosamente mi ripeto: ho scritto che sono “tra” le qualità del grande scrittore, che va da sé, può possederne tante altre da rendere superflue quelle che non ha etc.; in secondo luogo, Calasso non è “intellettuale in genere”, se ci si mette d’accordo sull’eterogeneità delle qualità che deve possedere, è scrittore a pieno titolo (magari pessimo oppure ottimo, ma scrittore); ancora, a domanda elementare, risposta scolastica: sì, quello di cui parla Marias sposta l’ottica del lettore – ed è vero anche che ha i difetti accademistici dello scrittore di professione (ma per favore, risparmiamoci le notarelle sulle persone “colte”, le battute moralistiche e quant’altro, abbiamo tutti fatto le scuole medie superiori); per quanto riguarda queste poche righe, ritieniti libera, io non chiedo soldi.

  15. @ alcor p.s.
    e l’ambiente accademico l’ha già fatto deflagrare verso altri lidi – cioè, girare a vuoto – Angus Wilson, ma mi vas bene anche Bolano, ché qui non si fa questione di primati o di esclusive – v. Kafka, Celine, Fenoglio etc…(pp.ss.. ma devo pagare per avere anche un nome meno prevedibile?)

    E chiudo ringraziandoti per la discussione, sebbene io rompa le scatole, lo faccio perché mi appassiono, come penso te, a quello che leggo, e mi piace battibeccare con qualcuno altrettanto appassionato e con buoni idee, come le tue. Si tratta di quei casi in cui il confronto vale più della condivisione. Ciao

  16. Non ho mai letto Xavier Marìas perché il naso mi ha scoraggiato dal farlo. Però il discorso su letteratura e finzione qui riportato mi è parso molto bello e quasi mi ha messo voglia di leggere la trilogia di Marìas.
    Cliccando su Iannozzi Giuseppe (prima il cognome e poi il nome, come negli elenchi studenteschi dentro i registri di scuola?) ho fatto un tuffo nel nero più nero: il blog BioIannozzi: c’è da gridare all’orrore! Caratteri gotici, simboli gotici, tutta un’ermeneutica diabolica. Terribile! E fascista nelle midolla, come fascista è il suo tono in queste repliche e in questi commenti che sono violenti e offensivi. Non so se roba così può circolare. Che circoli di sicuro per tutti noi è una sciagura oltre che indice di arroganza e violenza.

  17. @lezama

    Faccio nomi prevedibili perché sono conosciuti da tutti, e cerco così di risultare più chiara, se avessi citato la Prato, che è conosciuta da pochi, sarei forse stata meno chiara.

    Su marias, se hai notato, ho espresso un parere personale, non un diktat, mi cito:
    “Ma come sempre quelli che si danno sui contemporanei sono giudizi estremamente personali.”

    Sulla commissione che non mi vuoi dare, peccato, sono sempre al verde.

  18. @ alcor: il colore della speranza! e il preferito da Cartesio, credo (o era Spinoza?, sì, insomma, quello che è morte di polmonite perché teneva lezioni alla Regina alle sei di mattina in giardino – o una cosa del genere)

    p.s. su Maria, mi interessano le opinioni personali – al livello della tua, non tutte, certo – e non i diktat

  19. Marias è un po’ come un morto annegato coi polmoni pieni d’acqua. Uno cerca di fargliela uscire tutta quell’acqua da un qualunque orifizio, ma non ci si riesce mica, al massimo gli esce una loffa pestilenziale. Leggete Roberto Calasso invece: lui sì che è uno dei pochissimi scrittori italiani che val la pena di leggere, una sorta di Salman Rushdie nostrano e per questo ancora più appetibile.

  20. Interessante, vedo che sia sotto il post di Pecoraro che sotto questo, il tirannosauro chiude insultando. Vorrei ricordargli che è estinto.

  21. mai stato estinto in vita mia, cara. le solite balle di piero angela.

    sono più in forma che mai, e dica a pecoraro che se mi trovo dalle sue parti me lo mangio in un boccone solo, anche se rischio la colica, o addirittura il cancro.:-)

  22. dispénseme, sapere perché un’opera si giudica dotata oppure no di ricchezza, profondità e necessità mi interessa moltissimo, sapere se un autore sia di alta, bassa, di media statura, e così di conseguenza i suoi lettori, o se Madras e i suoi lettori siano bbuoni o malamente, mi è totalmente indifferente. Io non sono migliore perché ho il privilegio di leggere Spinoza (a proposito, @lezama: era Cartesio, e anche per sapere questo basta aver fatto le medie superiori), e quando leggo un’opera ricca, profonda e necessaria mi considero grata e fortunata, non superiore a chi non la conosce o non la ama. Ma forse è perché non ho bisogno di pretesti per sentirmi superiore ;-)

    Ciò detto, grazie Antonio, QUESTO testo è magnifico.

    Mi fa pensare a Benjamin – “il passato reca con sé un indice segreto, per mezzo del quale esso rimanda alla redenzione. Non siamo proprio noi ad essere sfiorati da un alito dell’aria che circondò chi ci ha preceduto? Non c’è, nelle voci a cui prestiamo ascolto, un’eco di quelle che sono ammutolite? (…)”.
    Per questa associazione con Benjamin, penso che Marias sbagli in parte: quel che dice, per me, non riguarda la narrativa (se non come uno degli strumenti più potenti per ragionare sul possibile). L’idea che il passato non sia necessario e ineluttabile, ma anzi sia colmo di poter essere, di felicità da rendere nuovamente possibile, di temps des cerises da non dimenticare, riguarda la storia, che contrariamente a quel che andavano raccontando i trionfatori prussiani va assolutamente, sempre e sistematicamente fatta con i “se”.

    “la nostra generazione ha pagato per saperlo, poiché la sola immagine che resterà di essa è quella di una generazione vinta. Questo sarà il suo legato a coloro che verranno”.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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