O solamente ti nascondi

di Danilo “Manlio” Agutoli

Prefazione.
Sono accerchiato e sono fottuto.
Piove, piovono soprattutto calci allo stomaco, cazzotti al petto, ad occhi chiusi per evitare i danni collaterali, un bulbo fuori dall’ orbita, che ne so… so che piovono mazzate come non erano mai piovute prima, e la quantità e la frequenza… mi colpiscono così velocemente al petto che non ho il tempo di prendere fiato, ogni colpo mi mozza in gola il tentativo di inspirazione, non riesco a respirare. Non so quanti sono, non lo voglio sapere e non me lo chiedo; la verità è che voglio incassare. Passivo passivo passivo, non muoverò un dito, me ne starò lì a terra, senza reagire, innamorato.
Innamorato. È solo questo, sono innamorato.

Sciattatori.
Probabilmente presi la decisione di ritorno da Roma, in macchina. Domenico e Federica dormivano, l’ autostrada era bella dritta e poco trafficata, e così avevo tutto il tempo per pensare. Viola andava via per vari motivi, mi pare che questo sia assodato, però uno dei motivi era più importante degli altri, almeno dal mio punto di vista, per via di quella preoccupazione che non avevo mai voluto che prendesse troppa confidenza con me. Motivo: non è la mia vita, preferisco non immischiarmi nelle sue cose, però…
Però: era giusto arrivato il motivo del però: la sala da biliardo doveva smettere di esistere e possibilmente tutta o la maggiorparte della gente che ci trafficava dovevano smettere di fare danni, una cosa per lavare via un po’ di preoccupazioni, una cosa che andava fatta: questo è un lavoro per l’uomoragno! se non fosse che l’ uomoragno non esiste… ma per fortuna esistono gli sciattatori. O esistevano.
Era stato anni prima, non troppi ma neanche pochi, il che vuol dire che non ero del tutto arrugginito e avevo ancora quei due o tre numeri di telefono utili. Certo non potevo contare su tutta l’organizzazione che ormai non esisteva più, ma gli sciattatori erano ancora, non più sciattatori, ma erano, e magari erano disposti ad un ritorno una tantum in grande stile.
Lello era a Milano, dopo aver vissuto per qualche tempo a Barcellona e poi da qualche parte in Ungheria. Faccio il suo numero:
– pronto Lello? Manlio, devo chiederti un favore
– cosa?
non sembra sorpreso o contento o scontento di sentirmi. Con Lello è come se ogni volta lo avessi visto ieri l’ultima volta, per una pizza o un cinema.
uffij… – la nostra chissapperchè parola d’ ordine
– …
– allora?
– È una cosa tua?
– Si
– Ok si può fare. Riesumo zifiore e prendo un treno. Dovrei essere lì qualche ora prima dell’ alba. Dettagli?
– Li avrai. Ci vediamo stanotte.
– Bene, a stanotte.
Funziona così, nessun grazie, non ce ne è mai stato bisogno.
Tocca a Meke, decisamente più a portata di mano.
– Oh Mekè!
– Uè Manlio! Tutt’ appost’? – così, normale, tranquillo.
– Mmh, abbastanza…
– Oh stasera andiamo al cinema a ved…
– Aspè, Mekè, che c’è un fatto che ti devo chiedere…
– Manlio, che è stato!? – la voce accenna un punto di preocupazione.
– Mmh, uffij…
– …
– Allora?
– Vabene, il tempo che scavo l’ armamentario.
– Bene, ci sentiamo.
Pazienza, al cinema vuol dire che ci andiamo un’ altra volta.
E adesso Alberto, l’ uomo nero. Il suo numero lo devo tirare fuori da una vecchia agendina, perché è un po’ che non lo sento… l’ultima volta era a Roma e si occupava di Qualità; dopo i casini sucessi con l’organizzazione aveva deciso di starsene un poco tranquillo, ma si sa, Albi non è fatto per stare tranquillo… anche per questo motivo non ero sicuro di riuscire a trovarlo e di riuscire ad averlo con noi. Per fortuna il telefono squilla.
– Albi? Manlio.
– …
– uffij
– ………………Manlio, stai calzato. Teng’ ‘nu’ genio! Dove e quando?
– Albi, ci vediamo stanotte alle 4 alla stazione se riesci.
– Riesco. Gli altri?
– Li trovi là.
– Ruosss’. Manlio stai calzatissimo!
Ottimo, Albi è decisamente dell’ umore giusto e sembra fremere all’ idea di una buona sciattata di cape. Mi sembra tutto sommato un buon inizio.

Well, sono le 11 ed è buio. La casa è fredda, la cantina è più fredda. Il baule verde che contiene il giubbino atto all’ uopo è sempre lì, ce l’ho messo io. È ora di aprirlo, è ora anche di aprire il box che custodisce il Gerarca Nazzista, nero impolverato, fermo da qualche mese senza assicurazione, ma adesso non ha proprio nessuna importanza, il Gerarca sta per tornare in moto, anche io sto per tornare in moto.
Ore 3 e 15. Pantalone di velluto nero, maglia col cappuccio, nera, scarpe all’ inglese, nere, giubbino bianco rosso e nero, il gerarca nazzista, il casco, nero. La moto prende vita al primo colpo di pedivella, come sempre, come se non vedesse l’ ora, romba e squarcia il silenzio della notte dove solo quattro o cinque galli a turno rompono il silenzio. Il rumore risulta assordante, la marmitta doppio corpo fatta per farsi notare si fa notare, porca miseria una porta che da nel mio vicolo si illumina e una testa grigia e odiosamente impicciona fa capolino con il chiaro intento di non farsi mai i cazzi suoi. Catarina la Storta ha l’innato dono di essere una cacacazzi…
– Uè, e dove vai a quest’ ora? Vuoi svegliare tutti?
Mi sembra giunto il momento, vista l’occasione e il contesto, di farmi passare uno sfizio.
– Catarì, stai sveglia solo tu, ma la vuoi finire di farti i cazzi della gente?
La sua reazione è di sorpresa, come se non credesse alle sue orecchie, e poi è indignata. Appena si rende conto di quello che ho appena detto mi si fa contro con le sopracciglia inarcate e la chiara intenzione di rispondere al mio insulto… non ne ha decisamente il tempo, ma non è il caso di spiegare come è andata, probabilmente lo sapete già dai giornali del giorno dopo…

Alla stazione alle 4 non c’è nessuno, i ferrovieri sono probabilmente a dormire aspettando il prosimo treno, un intercity che viene dal nord… è in orario, perfetto, da non crederci, rompe il silenzio della stazione come una pentola di acciaio che cade in cucina di notte…
Scendono in 17, e di questi due sono amici miei: un principe di galles e un enorme fracco tutto negro avvolto nel fumo di una canna. Qualcuno in pelle marron si fa invece delle foto nella macchinetta delle fototessere…
– Allora, è semplice: è una sala da biliardo dentro Casolla; ci dovrebbero essere una diecina di persone circa. Se schiattano tutti, difficilmente dispiacerà a qualcuno, quindi riesumiamo la cazzimma e andiamo.
Mi rispondono solo con gli occhi, tutti e tre, occhi pieni di cazzimma riesumata, di voglia di sciattare cape, occhi che hanno voglia di uccidere gente; mosche e gente fastidiosa come mosche.
Casolla alle 4 e 30 del mattino è la morte, fredda come la morte, scura come la morte, e fa paura come la morte a chi ha paura della morte, ma gli sciattatori con la morte ci giocano. La sala da biliardo sull’ altro versante della piazzetta ha la porta chiusa, ma la luce interna filtra fuori attraverso gli scudi che coprono i vetri: una di quelle vecchie porte di legno con la vernice scrostata, verde… e quindi è viva, la merda che c’è dentro riesce a cacciare fuori la sua puzza.
– Che posto di merda manlio!
– Ora capite perché deve sparire: è antiigienico! Lello vai tu?
– Io vado.
Il principe di galles si avvia verso la porta verde, cammina come un principino, le mani nelle ampie tasche anteguerra del cappotto, l’ andatura quasi saltellante dalla gioia. Scompare presto nel fumo che viene fuori quando la porta si apre per poi richiudersi subito. 5 minuti, bastano 5 minuti in cui il fracco negro si dissolve e io e pelle marron ci strafoghiamo due babbà belli freschi che Mechelo caccia fuori dischiudendo il giubbino. 5 minuti e poi da dentro si iniziano a sentire le tipiche voci di gente che vuole prendersi la questione con un tipo dall’ aria inerme avvolto in un vecchio cappotto principe di galles, il quale probabilmente dopo aver offerto sigarette a destra e a manca (“sigarette mitteleropee, queste qua non arrivano!”) ha scommesso 1000 euri su un colpo di biliardo che sa fare solo lui, lui che non ha mai preso una stecca in mano in vita sua se non per romperla in testa a qualcuno. È il segnale. Io e mekelo entriamo, un’ occhiata per prendere le coordinate e poi magicamente la luce salta e la sala da biliardo diventa un cielo stellato di stelle rosse e ardenti, le punte delle sigarette che la gentile clientela tiene appese in bocca: nove stelle rosse, in fondo ci è andata bene, potevano essere di più. Inizia come un’ orchestra: il rumore di tre stecche di legno che si spezzano all’ unisono su tre crani e tre stelle cadenti; esprimo un desiderio.
La gentile clientela reagisce dopo un primo momento di smarrimento, ma noi siamo preparati, le stecche in pugno, nuove, prese dall’ espositore, guidati dalle stelle che girano fra i tavoli come galassie in espanzione, fino a quando anche il desiderio che avevo espresso prima si avvera: all’ improvviso nella sala cala la nebbia, più nera del nero, avanza verso le stelle rosse e le spegne, una a una, il rumore di teste perfettamente sciattate, il suono inconfondibile di una 35 millimetri semiautomatica col silenziatore, che con la velocità di un gatto nero spara nove volte. Poi il silenzio, e un acendino che illumina una faccia da bravo ragazzo con in bocca una sigaretta:
– Mo’ ‘ce vuless’ ‘nu cafè!

Lettera
Ha nevicato.
Come se non bastasse ha nevicato. E tutta Castel Morrone è stata ricoperta, avrai visto delle foto… poi però è successa una cosa di cui forse non sei informata: una valanga, che ha distrutto tutto, giusto da sotto casa mia fino ai confini del paese, e così adesso ci sono rimasto solo io, in compagnia di un cesto di arance e una bottiglia di rhum… e poi un senso di manchevolezza. E c’è un silenzio profondo, neppure i cani o i galli sono sopravvissuti, e così anche in pieno giorno sembra di non essere, e c’è talmente silenzio che quando accendo il fuoco nel camino mi spavento perché fa troppo rumore.
Credevo mi piacesse starmene da solo senza dover parlare con nessuno, ma quando non c’è nessuno con cui parlare è diverso. finisce per non essere più una scelta e allora si mettono in moto meccanismi strani.
– E Viola?
– Viola chi?
– Viola, quella che ti respirava addosso così bene. Lei non era lì quando tutto è successo.
– Ah, Viola… no lei non c’entra. Anzi, non è. Vedi, ci sono cose che sono, come la luna quando è piena o una torta quando è buona. E poi ci sono cose che non sono, come Viola adesso.
– Mmh, quindi Viola non è più…
– Coglione! Lei non è in questo momento, ma poi forse un giorno sarà. Lo decide lei. Diciamo che adesso si è presa una pausa
– Però è difficile per te prenderti una pausa da lei…
– Si, soprattutto perché mi respirava addosso così bene…

E così dopo quasi due mesi ecco cosa ho collezionato:
– un cielo stellato, ispiratore di un letto.
– L’eco di alcune parole promettenti.
– Il cesto di arance
– Spaesamento e perdizione (cito)
– Una certezza: io sono innamorato direi come un coglione, come non mi capitava da quando avevo 17 anni credo.
– La bottiglia di rhum.
– Il sogno ricorrente, anche da sveglio, di questa famosa Viola che bussa il campanello dopo aver scavalcato il muro di casa.
– Certi silenzi troppo lunghi, fatti apposta per fare danni.
In realtà non è poco, sono parecchi ingredienti sia per fare una torta, si per mettere in moto il cervello che inizia a pensare tutto e il contrario di tutto e corre e va veloce e diventa impossibile fermarlo. Ci ho provato, ci provo, ma quello corre, è molto più veloce dei miei propositi e delle mie decisioni, e cerca falle nella tua posizione e cerca di appiopparti colpe che non hai, perché in fondo tu mi avevi detto proprio che avevi bisogno di non essere per un po’ di tempo, e io non l’ ho capito abbastanza, e ho iniziato a dire fare cazzate, l’ultima delle quali è probabilmente questa lettera, che finirò per spedirti perché sembra che il cervello si sia messo d’accordo con il cuore e non ne vogliono sapere niente.
Mi chiedo:
– la leggerà?
Mi rispondo:
– Non ne ho idea, in fondo non ci capisco niente. So solo che mi respirava addosso così bene…

Il sogno
Ormai è diventato ufficialmente un sogno ricorrente, ancora più strabiliante se penso che ultimamente sognavo col contagocce, e soprattutto se sognavo poi non ricordavo…
Sono a casa, di solito nella stanza verde davanti al computer, oppure in cucina a fare qualsiasi cosa, anche se mi piace immaginarmi davanti al camino acceso, la chitarra e un po’ di rhum… e insomma suona il campanello, io corro ad aprire ed è lei, e io lo sapevo (!), lei imbarazzata e contenta come una bambina che ha appena combinato un guaio e sta per farti complice… tutto qui.
Faccio questo sogno perché è la mia idea di lei, l’immagine più bella che ho di me e lei, anche più bella di quando abbiamo fatto l’amore… è un semplice sogno stupido, ma è il più bel sogno che esista, perché ogni volta viola è venuta a trovarmi quando ormai non ci speravo più, o quando non me lo aspettavo, imprevedibile, irrazionalmente a caso, emotivamente lunatica, inspiegabile, misteriosa:
– Io ti piaccio perché ho un’ aria misteriosa, poi passa il mistero…
Violetta, avevi torto. Tu mi piaci perché sei tu, proprio a forma di Viola, che è la forma che piace a me, e il contenuto di Viola, che è sempre quello che piace a me, e poi le mani, gli occhi, le labbra, la pelle vellutata… e quel modo che hai di respirarmi addosso.

Capitolo 1
In cui adotto un cane piccolo così, che è figlio della cagna di Viola, morta pochi giorni dopo aver partorito e soprattutto dopo la partenza di Viola per chissaddove. Di come il nostro eroe si accorge che lui e un cane non hanno niente in comune.

E’ il 25 dicembre, che schifo di regalo di natale che mi sono fatto. Un cane piccolo e nero che si sveglia ogni tre ore e vuole che qualcuno a caso in casa gli imbocchi il biberon dopo aver riscaldato per bene il latte, né troppo caldo né troppo freddo, e che gli prepari una bella bottiglia di acqua bollente su cui riaddormentarsi dopo aver cacato e pisciato senza alcun senso. E io ho la febbre, a 39 e mezzo porca miseria, come non mi succedeva più da quando ero piccolo, preadolescente credo (un’ altra cosa che non mi succedeva da tempo…), e domani mattina devo lavorare, tre strafottutissime ore in piedi su trampoli alti un metro da terra, in equilibrio, con la febbre, perciò io DEVO dormire, cane di merda!
Ma il cane è piccolo, non capisce, e quindi decide che l’ unica cosa da fare è guaire tutta la notte, perché ha fame, o perché ha freddo, o perché ha male da qualche parte, o perché non ha sonno e vuole uscire dallo scatolone, o perché ha una missione: rompere il cazzo! E ci riesce, io non dormo neppure un minuto, mi sento svuotato di qualsiasi energia, secco come carne svuotata all’ aria, morto apparente o vivo apparente, pronto a mettermi in macchina verso Quarto, provincia di Napoli… un disastro. Rischio di cadere dai trampoli almeno tre volte, i clienti del supermarket si spaventano quando mi guardano in faccia, probabilmente ho le occhiaie più profonde della storia delle occhiaie, un alito che meno male che sto in alto…
Torno a casa e sono talmente sfinito e sfibrato che mi accorgo dello tsunami del sud est asiatico solo 2 giorni dopo, perché amici e parenti avevano dato per disperso pure me ed erano partiti i soccorsi. Ridotto ad automa programmato per dormire ed alzarsi ogni quattro ore per allattare, come una mamma post parto, il cane messo a pascolare nella vasca da bagno, padrone di pisciare e cacare dove più gli pare.
Vengo guarito la terza notte dal solito sogno: Viola è vestita da montagna con lo zaino in spalla, sulla porta di casa mia: è tornata. Al mattino non ho più la febbre, sto bene, e prendo una decisione: questo cane non può rimanere, io voglio Viola, non non mi sono mai piaciuti i rimpiazzi pelosi!
E infatti se adesso venite a controllare non ci trovate nessun cane a casa mia. Ma non ci trovate neppure Viola. Non si può avere tutto…

Il seguito
Il giorno dopo Catarina la Storta era scomparsa, e il giorno dopo ancora i giornali davano la notizia: misteriosa scomparsa a Castel Morrone… lo dicevo io! Oh, un lavoretto pulito: nessun segno di colluttazione, niente di niente fuoriposto, nessuna traccia dell’ eventuale cadavere:
– Quella è strana, chissà dove è andata e non ha detto niente a nessuno – diceva la gente di Morrone.
E io pulito pulito con un alibi di ferro:
– Alle 4? Sono andato alla stazione a prendere un amico!
Niente di più vero, controllate! Chiaro, alla pagina successiva c’era pure la notizia di una strage a Casolla, nove morti, tutti carichi carichi di precedenti penali, si pensa ad un regolamento di conti di Camorra…
Ma di Viola nessuna notizia, da nessuna parte, neppure il suo amico Luca sa niente, o almeno così dice; non risponde al telefono, non risponde ai messaggi, non risponde se provo a contattarla telepaticamente, e la risposta più sensata che riesco ad ottenere è quella di una donna robot: il cliente da lei chiamato non è al momento ragiungibile. Irragiungibile, si lo so, quel discorso di voler staccare un po’ da tutto e prendersi un periodo di pausa (Violetta, staccati da quello che ti pare, ma non ti staccare da meeee!)
– Secondo te faccio bene?
– Mmh, si, credo che tu ne abbia bisogno. Mi basta che non ti dimentichi di me.
– Danilo, vedi, io ti ho trovato! È questo che importa.
Capito? Lei mi ha trovato, e io ho trovato lei, ci siamo trovati, e allora perché cazzo adesso mi sento perso? Perché mi sento questo vuoto pneumatico allo stomaco e su fino al cuore ogni volta che penso a lei, o adesso che scrivo, o quando mi sveglio al mattino e guardo il cuscino alla mia destra, perfettamente immacolato: porca miseria i cuscini sono fatti per essere usati! Devono essere ammaccati, stropicciati, deformati, sudati, ma non possono essere perfettissimi cuscini da esposizione, immacolati; e neppure lo posso usare perchè non è mio, è suo, glie l’ho regalato io, me lo ricordo perfettamente. Che regalo stupido, è il cuscino del mio letto ma è suo: che regalo geniale!
– Ho un regalo per te; è un cuscino.
– No io non accetto regali.
– Aspetta. È tuo ma rimane qui, a fianco al mio, così tu puoi usarlo ogni volta che vuoi…

Allora vado da Luca, un posto in cui mi piace andare perché ha la dimensione di un negozio di barbiere anche se è un negozio di prosciutti: si chiacchiera, si prende un caffè, si dice male di questo e di quello… e poi è l’ ultimo posto in cui dovrei andare, perché Luca è il miglior amico di Viola e insomma prima o poi si finisce per parlare anche di lei, e io non voglio, oppure voglio…
– Danì, si sa niente della Storta?
– No, nessuna novità, è scomparsa.
– Dici la verità, ti si cacat’ u’ cazz’ e l’ hai uccisa!
– Eh, non sarebbe una cattiva pensata!
Eccetera eccetera, cose così, battute buttate lì, qualche cliente da prendere in giro, e poi Chiara e Nadia, anche loro amiche di Viola.
– Nadia, ti saluta Viola!
– Eh, oggi mi ha scritto un messaggio.
BOOM! Cazzotto al basso ventre.
Ma come non eri in pausa?
SDANG! Calcio nelle palle.
Non dovevi staccare da tutto e da tutti?
SDUMM!
Viola, riesci a riempirmi di mazzate anche a distanza!
– Danì – diceva Luca qualche settimana fa – non ti fare questi film in testa; Viola e Chiara si conoscono da anni e non si è fatta sentire neanche da lei. Anche a me ha mandato solo un messaggio…
Ma che cazzo c’ entra? Io, l’ultima volta che ho visto Viola, abbiamo fatto l’ amore! Tu e Chiara no!!! O forse è proprio questa la differenza…

Capitolo 2, in cui dopo aver scritto alcune poesie decido di partire.
Poi la neve si è sciolta.
E forse a pensarci bene la valanga non c’ è mai stata, me la sono inventata, perché è bello inventarsi cose quando occorre occupare il proprio tempo mentale, perché il tempo mentale è quello che fa i danni maggiori, quando hai troppo tempo per pensare e pensi e pensi ma che pensi a fare, tanto la neve si è sciolta, e torna tutto come prima.
La neve si è sciolta ed erano tutti vivi sotto, anche i cani e i galli, che tornano ad abbaiare e a cantare. E la gente a chiacchierare e l’ erba a crescere… Chissà perché mi vado inventando queste cose… probabilmente per te, perché è una bella storia da raccontarti. O da raccontarmi. Quando poi finiscono le cose da raccontarmi, mi viene di scrivere poesie… o quello che è.

mi trema lo stomaco,
e più sopra
non te lo dico…

ci avevo certe idee
e mò mi pare che
non ce le ho più.
Me le sono perse
nel frattempo che
ti baciavo.

Ora che sono
un poco innamuratiello,
mi viene in mente perché
questa smania
di spaccarmi la fronte
contro un vetro.

Mò chiavo una capata
nel finestrino,
così capisci oh quanto
mi sanguina il cuore.

Ti ho conosciuta
per combinazione,
e per combinazione
mi stai scassando di mazzate
sentimentalmente parlando.

Ci sono voluti
tre giorni per
farmi fesso!
Tecnicamente non
posso darti torto.

Mi sembra di giocare a nascondino solo che non capisco se mi sto nascondendo oppure sto contando, e se mi sto nascondendo quasi quasi mi faccio acchiappare. E se sto contando non voglio più contare, se sto contando non voglio giocare più… Basta.
Ho quattrocentocinquanta euro più spiccioli, dovrebbero bastare per arrivare a capirci qualcosa; erano l’ assicurazione della macchina, ma qua c’ è bisogno di risposte a domande che cadono nel vuoto, una macchina non serve a niente, quindi queste risposte me le devo andare a cercare a domicilio, perché se continuo a farmi una domanda e a darmi una risposta non arriverò mai a nulla. L’ indirizzo ce l’ho per uno di questi due motivi:
a) ho un certo fiuto.
b) Luca è incapace di mascherare le emozioni.
Fate voi: un giorno arrivo là nel regno dei prosciutti e ci trovo, in ordine di apparizione, Luca, Nadia, Chiara. Stanno chiacchierando di non so cosa e forse quando entro io fanno delle facce sospette; il mio fiuto mi guida nell’ altra stanza, e sul tavolo c’è una lettera, busta rosa mi sembra di ricordare, chiusa, un indirizzo di cui mi premuro di tenere a memoria il nome dell’ albergo e il paese. Un momento dopo, mentre io giro per il negozio, la lettera è sparita probabilmente nella sacca nera di Luca; non lo guardo in faccia ma tanto lo so che ha l’ espressione del malandrino, forse crede di averla scampata ma in realtà no, manco per il cazzo.
Internet mi dice esattamente dove sta Viola, mi fa pure la cartina, ma non mi serve. Andrò a naso visto che fino ad ora ha funzionato.
Pantaloni di velluto nero, la felpa col cappuccio, nera, anfibi e un giubbotto atto all’ uopo, il casco, nero, il gerarca nazzista, decisamente il più nero di tutti, incazzato per la lunga infermità causata da una mancanza di assicurazione; l’ assicurazione non c’è ancora, ma anche questa volta, continua ad essere un dettaglio insignificante. Porto con me giusto la bottiglia di rhum, perché fa freddo, e cinque arance: metto tutto in uno zaino, manco a dirlo nero. L’ unica cosa che stona sono i guanti gialli, ma non fa niente, questa volta non devo uccidere nessuno, lo stile non c’ entra.
Ma poi mi ricordo che ho da fare, il teatro, quel po’ di lavori da saltimbanco, impegni presi… niente! Cara Viola non posso venire a darti fastidio, sì perché lo so che se vengo da quelle parti vengo a darti fastidio, già lo sento questo senso di fastidio che riesco a provocare nelle persone ogni volta che qualcosa non va come dico io, questo risultare fastidioso proprio come piace a me ogni volta che mi girano, questa voglia che ho di non piacere alle persone che non mi piacciono (vabbè questo mò non c’entra…) questo desiderio di sentirmi un po’ odiato che mi serve a sentirmi bene con me stesso; qualsiasi cosa, vedi di non odiarmi mai, perché io non ci riesco.
Mi rimane il rhum, anzi a dire la verità sta finendo, ormai c’è rimasto solo un misero quarto di bottiglia, tutto il resto è noia, no, non ho detto gioia. Il gerarca nazzista torna nella sua cuccia, annoiato, manco il tempo di essere spolverato dal vento; il giubbotto scomodo da portare se non in moto, anche lui noia, il casco in realtà manco l’ avevo cacciato fuori da dove sta nascosto, perché è noia, causata dalla mancanza di qualcuno che mi respiri addosso.
Ma si può? Tre mesi. Tre mesi in tutto deve stare via, come una pausa di riflessione che lei non mi ha chiesto, perché proprio non c’era motivo di chiedermela. Ma forse l’ ha chiesta a se stessa, e io in qualche modo schifosamente sbagliato non l’ho mai autorizzata, se autorizzare è la parola adatta, e non lo è. Una pausa di riflessione di tre mesi in cui una persona normale, con un po’ d’ impegno elaborerebbe la teoria della relatività… e io, giuro, in questo periodo non ho proprio nulla da fare, niente che mi possa tenere la mente occupata, niente che mi possa far pensare a qualcosa d’ altro. E la relatività già c’è, e non mi viene nulla di originale. Non lo so, fate qualcosa, che qualche amica rimanga incinta o qualcuno si sposi, un suicidio per carità, ho bisogno di tenere la testa lontana dal cuscino alla destra del mio, lontana da quel cielo stellato che ostinatamente mi sovrasta il sonno, lontana dal pensiero morbosamente incessante di lei.
Credo che negli ultimi 15 giorni la cosa più eccitante che mi sia successo sia… no, non c’è, non mi è successo niente di eccitante, tranne una sera che ero un po’ ubriaco per via del rhum, e allora ho provato a telefonarla, coglione che non sono altro, interrompendo quel record di astinenza da qualsiasi tentativo di contatto con lei che durava da ormai quattro giorni. Quattro giorniii! Ma si può? Io mi ricordo che fino a qualche mese fa avevo una dignità che era il fulcro della mia vita, anzi io qualche mese fa ero la dignità in persona, a volte mi presentavo così:
– Buonasera, io sono la dignità.
E mica da poco?! Erano anni che impersonificavo la dignità così bene, erano anni che non mi innamoravo di una donna, tanto che a volte quando la dignità riposava, credevo di essere diventato insensibile all’ amore, di non essere più capace di innamorarmi, e questo era triste… fino a quando la dignità non si risvegliava e mi prendeva anche a schiaffi per farmi tornare in me, o perché lei (la dignità) tornasse in me. E adesso? Puf! È bastato uno sguardo di Viola, un bacio, e tutto è cambiato. Riscoprire di essere capaci di amare è una cosa forte, mica come ammaccarsi un dito con un martello! È una cosa che in pochi attimi (il tempo di un bacio) ti rivoluziona nell’ ordine:
1)la vita
2)il cuore
3)lo stomaco
4)il letto (vedi cuscino)
5)la voglia di baciare.
La voglia di baciare è il fulcro: è la sensazione più forte che abbia mai provato, anche più forte di fare all’ amore o di mangiare quando ho fame, o di bere quando ho sete o di dormire quando sono stanco; un solo bacio mi sazia, mi disseta, mi riposa, e riesce a darmi un senso di sollievo… come un utopico sciroppo che all’ istante è capace di curarti una tosse cavernosa, stizzosa, fastidiosa, contagiosa, bellicosa. Per fortuna il bacio a differenza di questo fantastico sciroppo esiste, ma a differenza dello sciroppo non è che puoi andare dal medico che ti fa la ricetta e poi vai in farmacia e prendi lo sciroppo… sfortunatamente il bacio è una delle cose più volatili e volubili e lunatiche che abbia mai conosciuto. Mi tocca rimanere malato…

Roma

È un liquore greco, con uno di quei nomi greci che non riesci mai a pronunciarli veramente bene, bianco trasparente più dell’ acqua, viscoso, se solo sapessi esattamente cosa vuol dire, che se ci guardi attraverso guadagni parecchie diottrie: un liquore che ti apre gli occhi.
Un liquore di questo colore può fare solo bene! – la saggezza di Nando.
Fa quaranta gradi e si sentono tutti, uno ad uno ti foderano di fuoco la bocca dopo aver acceso le labbra, e poi giù per l’ esofago e nello stomaco che si riscalda; quaranta gradi che vanno subito in circolo, nemmeno il tempo di dire ‘anice’. Sì, assomiglia un poco all’ anice, con un tocco in più di finocchietto selvatico, e si lascia bere a dispetto della prima impressione; color dell’ acqua e si lascia bere proprio come se fosse acqua, fino alle tre e mezza del mattino, un tavolo, due dadi, una bottiglia e un po’ di gente che non deve fare niente il giorno dopo. Loro. Io si invece, perché alla fine domani parto, dopo una notte greca, un risveglio con lo stomaco sottosopra e la bocca che sa di finocchietto selvatico nonostante il primo il secondo e il terzo caffè. E quando parto piove, così, a completare il quadro: fastidiosissima pioggia.

Roma è una città a tempo pieno, che puzza quasi sempre un po’ di broccolo, che finisce tra le pagine di questo racconto perché dovrebbe tenermi la testa occupata, ma secondo me non è che ci riesce. Ed è una città che decido di affrontare da solo, perché come mi sembra di aver già fatto notare, io sono un coglione, perché si sa che da soli è tanto più facile pensare e quindi hai voglia di averci la testa occupata! E poi quando sto da solo io non mi riconosco, o forse non mi conosco proprio; mi sento strano, asociale, aspiro per certi versi all’ invisibilità, voglio che la gente non mi dia retta, o se mi danno retta che siano gentili, perché io ho paura della gente quando non è gentile. Perché poi succede che io non sono gentile con loro. Via dei Giubbonari è vicina a Campo dei Fiori, un bel posto abitato da relitti; sono in due, messi male, su un lato della strada, uno suona un tamburo, male, l’ altro presenta il conto: un bicchiere di carta della cocacola, in cui i passanti dovrebbero infilare qualche spicciolo, tipo io per esempio, ma si sa, io li odio i punks, sono lunatici. E infatti quello col tamburo si fa scostumato, e con l’accento nordico, immaginatevi delle ‘e’ molto aperte:
– Ehi, guarda che io sto suonando – dice a me, che passo tenendo lo sguardo dritto davanti.
– …
– Ehi, dico a te, io sto suonando il tamburo! Dacci qualcosa!
Un cappellino variamente unto, diversi piercing a bucargli la faccia, sporco, e poi puzza di vino scadente, e io non lo sopporto il vino scadente. E insiste:
– Ehi, ma tu cos’ è che fai? – è che ho con me una borsa da cui fuoriescono i manici di tre clave da giocoliere… comunque so la risposta:
– Io? Niente. Come te. Ma ci ho più stile!
Allora, questo tizio praticamente ha voglia di litigare, ma chi glielo spiega che è caduto male, visto che in via dei Giubbonari abita Alberto, il mio capo, e che quando meno te lo aspetti possono sbucarti fuori dall’ ombra un principe di galles e un pelle marron? La morale dovrebbe essere: mai provare a litigare, perché potrebbe essere uno sciattatore. Ma le morali si sa, vengono sempre alla fine, quando ormai è troppo tardi, quando ormai i due punks sono caduti del tutto accidentalmente nelle fogne di Roma, i cranii fracassati, ad alimentare quella puzza di broccolo che persiste probabilmente da secoli in questa città a tempo pieno.

Un’ altra lettera

E poi sei tornata, e come al solito mi hai fregato perché tu eri già qua da qualche giorno e io ignaro, incosciente, tranne alcuni fantasmi che avevano iniziato a girarmi intorno, a fare rumori, a guidarmi di notte ubriaco verso posti in cui forse ti ho vista, o forse era solo il lampo di una luce, che i miei sensi di ubriaco hanno percepito diversi attimi dopo che il lampo è passato, il tuono, la tempesta…
Sei tornata e di colpo ho perso le parole, gli argomenti, il filo, non so più precisamente perché ero arrabbiato, inizio a dubitare che fossi mai stato veramente arrabbiato, si fa strada in me il dubbio, forte, di essere ma veramente un coglione. Ma porca miseria era tutto così chiaro, avevo quasi uno schema di come portare avanti il ragionamento, su quali fronti attaccarti per affondarti, come fare a far crollare i bastioni delle tue difese… ma tu non avevi difese, non ne avevi bisogno, e soprattutto avevi il tuo odore addosso, così totalmente padrone dei miei processi mentali, che in un attimo si sono bloccati e io che faccio? Che dico? Provo a baciarti, ci riesco, mi piace, ti piace, ma c’è qualcosa che non va, è il granchio nel tuo cervello che spara cazzate.
Sei tornata quindi soffro di nuovo di aritmia, come era all’ inizio, il cuore matto (aaaah!), perché sei qua vicino, e non vuoi o non puoi o credi di non volere o credi di non potere, o hai deciso così… che è meglio di no, anche se qualcosa dentro di te, ma qualcosa seppellito da quintali e quintali di granchio, in fondo ha voglia di toccarmi, baciarmi, respirarmi addosso…
E così diventi la paladina dell’ umanità, che vorrebbe difendere me da te, da questo essere vermiforme che cova dentro come un serpente o come una grossa/mucosa lumaca. E io che invece non voglio essere difeso perché:
a)odio i paladini in genere.
b)Come diceva uno, il naufragar m’è dolce in questo mare. Il quale mare anche se è in tempesta ma proprio di quelle che sicuro muori, non fa niente, voglio morire, in questo momento voglio morire, fatemi morire.
A scatola chiusa. Viola, io ti voglio a scatola chiusa; come un affare non proprio chiaro, come un pacco a Forcella, come una bomba camuffata da qualcosatro, che magari è solo un pacco perduto da qualcuno e contiene solo biscotti, o un libro, o un portafogli di pelle, perché non mi frega cosa c’è dentro, io lo voglio con le mani che mi tremano, con lo stomaco teso, con gli occhi spalancati, perché io già l’ amo quello che c’è dentro, perché il fuori mi scatena la voglia di gridare, perché me ne piace tanto l’odore, perché finalmente mi piace una scatola chiusa, e quando mai si è visto che una scatola chiusa metta in guardia contro se stessa… io vorrei rischiare se è possibile, non fa niente se poi mi scoppia in faccia, perché non è detto che poi non mi piaccia l’ idea di una scatola chiusa che mi scoppia in faccia. Finirò per essere innamorato di un mattone, o di una bomba, o di un pacco di biscotti, il libro, il portafogli di pelle…
Dovrai rassegnarti all’ idea, perché è un’ idea particolarmente forte, scassacazzi, proprio di quelle idee che ti fanno venire il granchio nel cervello, e nel cuore…
Che faccio, mangio oggi? Naa, e che mangio a fare, che tento in questo momento non mi serve mangiare. Al granchio non interessa mangiare.
Che faccio, mi do al bricolage? Naa, non mi serve il bricolage, il granchio non ha bisogno di una cuccia di compensato, si trova così bene nel cervello e nel cuore: doppi servizi!
Che faccio, vado a legare un po’ di legna per il forno? Non credo, figurati cosa me ne importa adesso della legna per il forno, e del forno.
Che faccio, mi do al rhum? Eh, questa è un’ idea, ho bisogno di stordirmi perché il profumo di te mi manca, perchè è quello il mio storditore preferito.
Mi viene in mente la storia di quello che era la portaerei di julia, di Julia che andava a posarsi ogni tanto a fare il pieno di emozioni “Posati bellezza, e vola via quando vuoi, io da questo momento navigo nelle tue acque
Navigo nelle tue acque, percià tu puoi fare quello che vuoi, una portaerei può fare quello che vuole e non deve preoccuparsi di niente. Non ti preoccupare per me, lascia che il problema sia tutto mio, che tanto alla fine ho le spalle larghe, capaci di reggere il peso del mondo che mi dovesse crollare addosso. Io voglio solo essere portaerei.

La notte. Lunga.
E ora che faccio? Aspetto. Ma sto tremando, sto tremando per la tensione, sto tremando per la voglia che ho di respirarti, di stringerti, ho tutte le parti del mio corpo tese, ho paura che mi venga un crampo, anche respirando molto lentamente e molto profondamente, non riesco a frenare questo terremoto che mi sento dentro. E non riesco a scrivere velocemente, così i pensieri mi si ammassano nel cervello e vanno ad alimentare il granchio che si sta crogiolando nella mia disperazione.
Aspetto. Aspetto che venga, che riesca a scacciare il suo di granchio. Aspetto di avere di nuovo caldo col suo respiro addosso, perché adesso ho freddo come se la neve non si fosse mai sciolta, fuori e dentro, aspetto e ho voglia di nuovo di fracassarmi la testa in un finestrino, non so perché mi immagino il finestrino dello sportello di una macchina, lato passeggero, davanti.
La notte è lunga, e sembra interminabile se penso che dovrò combattere tutto il tempo contro i troppi pensieri che vogliono venire fuori insieme, una ressa di pensieri vicino al buco nel cervello da dove i pensieri escono, che poi si sa, è il granchio a creare questa ressa.
Ho l’impressione di essere uno dei concorrenti di un concorso che si chiama “lapiùgrandesofferenzad’amore”, o qualcosa del genere, e modestamente credo di poter vincere; mi vengono in mente tutti i libri e i film sull’ argomento, e sono un’ inezia rispetto alla potenza devastante di questa sofferenza che ci ho io, che non mi fa mangiare, non mi fa dormire, non mi fa fare niente tranne le cose che devo fare per forza, e pure quelle le faccio controvoglia… mi viene in mente tutta la retorica banale del becero pop d’ amore, che adesso non mi sembra tanto banale, né tanto retorica.
Un finestrino, datemi un finestrino, o se mi volete bene teneteli tutti aperti, spalancati, se non li volete vedere distrutti a causa della mia testa che è partita ad ariete, a denti stretti per sopportare l’ impatto forte del vetro temperato, ad occhi chiusi per la paura delle schegge, a bocca aperta, nell’ urlo più forte che abbiate mai sentito, laggiù, lontano.
Ci ho tutti i valori al minimo, regolati così per consumare meno energia possibile; conto i movimenti che faccio per evitare di farne di superflui, numero le azioni, i gesti, dal punto A al punto B nel minor numero di mosse, come un gioco da tavolo. E ho deciso anche di non piangere, perché ho bisogno di liquidi e di sali minerali, che con le lacrime vanno via in quantità troppo elevate e io non posso permettermelo.
Mangio i miei stessi pensieri, tanto ne produco in quantità fuori dall’ ordinario, pensieri grassi, succulenti, sostanziosi, altri secchi, smunti, privi di succo… me li mangio tutti per rimanere vivo, e anche per evitare che mi intasino il cervello, maledetto granchio! Ma soprattutto per rimanere vivo, appeso alla speranza che io lo so come sono fatto, le mie speranze sono durature come una batteria di pentole costosa, come la mia moto, come un trapano bosh, come le montagne… ci ho una speranza che non finisce mai, anche se sembra tutto finito, cambia forme ma rimane viva, si piazza in un angolino del cervello, lontana dal granchio, anche se passano decenni, mi è successo spesso, ma questo adesso non c’ entra.
Neppure il caffè. Ommioddio non mi va neppure il caffè, sono grave, voglio un dottore.

Il capitolo del vuoto
Mi sento vuoto come una conchiglia. Puzzolente come una conchiglia vuota. Morto come quello che un tempo abitava la conchigia e che in quanto morto, ecco che la conchiglia puzza. È possibile che riesca solo a bere rhum? È possibile che ho solo voglia di sentirmi questa testa stordita dal rhum che mi altera appena appena le percezioni così si allontana la paura, il granchio, il flusso di pensieri razionali, si allontana tutto, nel rhum, che è rimasto l’ unico, credo.
Morta dentro… Tutte le volte che ti ho baciato, mi ribaciava la vita stessa, non te le raccontare queste storie, non me le raccontare perché non le voglio sentire, mi scassano di mazzate, mi buttano giù a livello dell’ amor proprio, e pensare che sono sempre stato un egocentrico.
Il fatto è che purtroppo si fa strada proprio l’ idea della morte, se tu sei morta io voglio essere morto con te, per te, di te. Come ero fino a qualche mese fa, ma in realtà non me ne rendevo conto fino in fondo: incapace! Un perfetto incapace! L’ incapacità di amare ero, a forma di me, travestito da cinico, addobbato da cinico, agghindato da misogino, le mie certezze ben piantate nel cadavere di qualche granchio precedente… Viola, è un granchio, solo un granchio, porcamiseria un puzzolentissimo crostaceo.

Vuoto come una barique da svariati ettolitri, solo che dentro ci sono solo pochi bicchieri di rhum; vuoto come uno di quei barili da petrolio, vuoto che rimbomba quando rotola, vuoto che mi rimbomba nella testa, e il rhum che amplifica il rimbombo, o forse acuizza l’udito, o non saprei, comunque sto una schifezza nel complesso, proprio un bel quadretto.

Mi spieghi perché il silenzio? Cos’ è una barriera? Un muro dietro cui nascondersi? Mmh, no, no non è quello, io lo so, inutile che mi racconto storie, io faccio esattamente così, mi nascondo dietro questo muro di silenzio per aspettare l’ evolversi degli eventi e-21, 22… mi pare che questa canzone di Belafonte sia davvero troppo allegra per l’ occasione, e non fa affatto pandance con lo stato d’ animo attuale, per fortuna che le canzoni almene quelle finiscono, finisce un disco, finisce una gara, una bottiglia di rhum, finisce il sapone per i piatti… e poi c’è qualcosa che sembra che non voglia mai finire, questa voglia di chiavare capate in un finestrino, vetro resistente, devo partire con tutto il coraggio che ho e ad occhi chiusi se voglio scacciare via per bene un po’ di quei pensieri fissi che ci ho nella testa, se voglio provare almeno ad ammaccare il granchio che però in realtà voglio lasciarlo là, a fare il su lavoro, a spaccarmi un po’ alla volta il cervello, di modo che dopo il cervello possa passare al cuore, perché non lo voglio più il cuore, non mi serve, ormai non ci faccio più niente figurati se mi interessa che pompi sangue. Vaffanculo il sangue.
Io col cuore al massimo ci faccio il soffritto.

Poi.
Non saprei forse avrò potuto avere 12 anni. Era estate, era tempo di zucche, erano le sere d’estate a giocare con gli amici dell’ estate, più o meno sconosciuti per il resto dell’ anno ma non che non li vedessì più. Sai com’è, quell’ atmosfera estiva da cuore leggero, mente libera da cazzi vari, anche a soli 12 anni.
Era tempo di zucche e con l’ aiuto dell’ oscurità noi giovani di Castel Morrone, eravamo soliti piazzare in mezzo alla provinciale una enorme zucca svuotata dai semi, una faccia che sghignazza cattiva ritagliata con un coltello da cucina, come Charlie Brown ad halloween, una bella candela all’ interno, per spaventare le macchine che su quella strada passavano veloci; proprio sotto il lampeggiante che dominava il grosso incrocio, fiochissima e spettrale luce arancione un po’ sì e un po’ no appesa al buio, sospesa nella notte. E ogni volta c’ era sempre qualcuno che finiva per giocare al nostro gioco; si fermava facendo stridere i freni, e forse ci inseguiva o si limitava a bestemmiare, non lo so, e non aveva importanza, perché appena la macchina frenava noi iniziavamo la fuga per i campi attorno all’ incrocio, anche se magari non ci stava inseguendo proprio nessuno: giochi di bambini, a base di un poco di adrenalina. Una sera che correvo davvero forte e che era davvero buio, mi feci un gran male: un bel fil di ferro, teso tra due pali, sostegno per le viti, all’ altezza precisa delle mie gengive. All’ improvviso mi ha buttato a terra! i piedi si sono sollevati dal suolo insieme e sono caduto di schiena, come un placcaggio a rugby, come una mossa di wrestling, come un trabbocchetto di Indiana Johns, un tronco che come un ariete sfondaportoni ti piove dal cielo in piena faccia, sulle gengive. E non puoi mangiare per giorni.
E adesso mi sento così.
E questo tronco me l’ hai tirato tu, candidamente, chiacchierando anche con una certa leggerezza che mi faceva pensare “vedi, riusciamo anche a parlarne con una certa leggerezza”…
Riassumo quello che hai detto perché porca miseria non mi ricordo le parole esatte, mi occorrerebbe un registratore conficcato da qualche parte nel culo per migliorare la mia memoria… allora, il concetto era che tu stai benissimo con me (non era benissimo, era un termine che descriveva meglio la cosa…) però c’è il problema che io sarei sfuggente, o che non riesci ad avere un certo controllo su di me (non mi ricordo esattamente, non mi ricordo…) . Come dire che saresti anche innamorata di me, ma è una cosa che non riesci a gestire perciò non se ne fa niente, stai talmente bene che questa cosa esce fuori dal tuo controllo perciò…
MA CHE CAZZO DICI! È UNA CAZZATA GROSSA MA MOLTO PIU’ DI UNA CASA!!!
E perciò è affascinante.
Oppure dimmi che ho capito male o che mi hai preso in giro, perché altrimenti scordati che io possa mai nella vita lasciarti in pace.

Fine.
Progetti per il futuro?
Non saprei; in linea di massima non saprei.
Credo comunque che sia il caso di uscire da questo vicolo cieco: o torno indietro, o scavalco, o sfondo il vicolo, a testate. In ogni caso qualcosa occorre fare, è da tempo che ho in mente di scrivere la cronologia della mia vita, per avere un po’ le idee più chiare, per cercare di capire come ho fatto ad arrivare a questo punto, in cui francamente mi ci ritrovo e proprio non mi ricordo come. E tu dove sei? Sei scappata di nuovo? O solamente ti nascondi?

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10 Commenti

  1. Sono molto contenta di trovare un post di Roberto Saviano. E’ lungo. Allora stampo per leggere più tardi.

  2. @ veronique

    provo a mandarti l’intervento di saviano, se non dovesse visualizzarsi
    ora il ‘qui’ il questione sarà sufficiente iscriversi alle newsletters di
    fahreneit a fahre@rai.it o ascoltare radiotre

    Un’anticipazione per gli ascoltatori di Fahrenheit: cliccando qui potrete ascoltare il cuore del discorso che Roberto Saviano ha tenuto al Festivaletteratura di Mantova e che andra’ in onda, in due parti, oggi e domani alle ore 16.00 a Fahrenheit.

  3. Un’anticipazione per gli ascoltatori di Fahrenheit: cliccando qui potrete ascoltare il cuore del discorso che Roberto Saviano ha tenuto al Festivaletteratura di Mantova e che andra’ in onda, in due parti, oggi e domani alle ore 16.00 a Fahrenheit.

  4. 1) teqnofobico: dov’è che bisogna cliccare?

    2) véronique: il post è pubblicato da Saviano ma l’autore è Danilo “Manlio” Agutoli. Diamo a Cesare quel che è di Cesare.

  5. Di letteratura non capisco nulla e quindi me ne sto zitto, però almeno gli accenti li poteva sistemare. A quando un pezzo di Saviano?

    Blackjack.

  6. Gianni, avevo visto che non è un testo di Roberto Saviano. Sono contenta avere un post di lui, perché è una persona che ammiro molto.

    Grazie teqnofobico, ma sono un po’ smarrita con il computer ( soprattutto quando il testo è scritto in inglese). Quando avro un momento alla scuola, provero.

    Per il momento torno a casa e leggero il testo di Danilo Manlio.

  7. @ véronique

    beata te che ti smarrisci solo con il computer! me, mi smarrisco semper

    @ gianni e a chi per lui: perdonate la mia teqnofobia, ma pensavo bastasse copincollare la newletter per evidenziare il ‘qui’… non è così
    evidentemente… e dunque occorre iscriversi alle news della trasmissione
    radiofonica “fahreneit”: basta andare su http://www.fahre.rai.it e seguire
    le istruzioni…

    un saluto a tutti

  8. Ho letto il testo e ho apprezzato l’analisi minuziosa della passione.
    L’ossessione assalisce ogni parte del territorio dell’innamorato ( invasione del corpo e della mente), incanto doloroso.
    E’ una lenta scomparsa dell’identità. Mi sono sempre chisto se amare non è una forma elegante dell’oblio di se, della fuga per penetrare un’altra mente. Ma l’illusione si batte contro la realtà: il narratore vuole fracassarsi contro il vetro della finestra: fracassarsi contro la realtà opposta al sogno.
    Un’amore “molesto” ( come lo dice Elena Ferrante) lascia vuoto come una conchiglia.
    Il granchio è l’animale simbolo della malinconia. Per me è legato alla depressione, al crollo ( la vita gira nel vuoto: oppressione fisica, gola stretta, nodo allo stomaco, sudore/ idee fisse, immagini di morte subite).
    Sentimento strano, fuori limita.

    Analisi superba

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