Non ho molti dischi di Bill Frisell

di Andrea Cirolla

Non ho molti dischi di Bill Frisell, giusto una manciata. Il primo me lo regalarono a Natale, quando avevo poco meno di diciott’anni. Stavo alla Virgin di via XX Settembre, in centro, fuori mia sorella e mia madre ad aspettarmi. Alla Virgin di via XX Settembre si potevano ascoltare i dischi prima di comprarli, la fila di cuffie fuori da ogni reparto – allora era una novità per i clienti. Nella saletta jazz&classica ben poche cose, un’infinità per le mie esigenze di quel tempo.
Al muro le copertine dei sei dischi del mese, era dicembre. Una di queste era del disco di Bill Frisell con Dave Holland ed Elvin Jones, il batterista di Coltrane. Già la copertina parlava di strane forme colorate, sorridenti, ma pure piuttosto inquietanti; giocavano col buio e la plasticità del sogno. Così la musica, appena calzate le cuffie ingombranti e calde di ascolti. I riverberi, gli echi, un suono lavorato, stratificato; tuttavia puro, semplice, compatto, singolare e veritiero. Ma quel che più mi ha sempre stupito di quel disco, così come degli altri lavori di Bill Frisell, non è tanto il suono, quanto l’atmosfera. E non dico quella che si crea in macchina o in salotto se scelgo la sua musica. Parlo della situazione, che della sua musica non è neppure l’effetto che crea quando cala in un assetto di arredi e persone. So che il discorso non è molto chiaro, pulito, soprattutto se ora mi metto a parlare dell’immaginarsi un luogo e un tempo asettici, incapaci di influenzare un ascolto, un ascolto che abbia il potere di mantenere i suoi effetti collaterali, al di là della melodia, quelli dati dalle briciole, dalle note di passaggio appena interpellate e che sfumano impastandosi con la linea protagonista vestendola a festa, dandole eleganza.
Ogni volta la musica di Bill Frisell mi riporta allo stesso immaginario stralunato, notturno, fatto di smorfie ma anche di simmetrie, o perlomeno di forme rassicuranti; credo sempre che questo mi sia costantemente dovuto, e per giunta in grazia di una sua particolarità indipendente da me e dal mio ambiente.
È chiaro che il mio discorso non ha senso. Me ne rendo conto subito riprendendo in mano quel primo disco. Appena ascolto Bill Frisell mi torna alla mente l’immagine madre a cui l’ho associato, che ha architettato la mia disposizione. I mostri nella copertina, mostri verdi e mostri blu – i miei preferiti. L’animale strano e grosso che sembra una teiera, i colori sfumati dal blu al bianco che sa di contaminato, sporco, ma che è pulito perché ci sbatte sopra la luce. Le finestre della casa senza imposte né telai, e fuori la città coi palazzi blu, anche quelli. Tutta una città nella quale suona il disco di Bill Frisell, dove gli abitanti vivono di conseguenza. Questo è ciò che sta davanti ai miei occhi se ascolto Bill Frisell, ed è un impasto che non so più, di immagini e di suoni che la prima volta distinguevo e cui ora magari non faccio più caso; che adesso anzi – ne sono sempre più certo – stanno nascosti all’attenzione così passiva come è quella dell’ascolto. Altre linee sonore, tra le tante che compongono la musica di un brano, hanno catturato la mia sensibilità; confermano così bene le mie aspettative nell’abitudine, che io non mi ci divincolo più, neanche me ne rendo conto. Tutto il resto è assorbito, c’è ma è come buttato via. E chissà se lo recupero prima o poi. Ma prima o poi è come tutto il resto, che se c’è sa anche ritornare, come la verità di un viso, una persona. Ti giri, la guardi, e non pare più la stessa dello sguardo prima. Ti ritrovi ad aspettare nulla di presentito, a non incasellare la presenza dell’altro nel repertorio che stai archiviando da una vita. Senza esigenze, colto di sorpresa la incontri davvero. E così pensi a come è bella quella sensazione perfettamente divisa tra l’ammirazione di un’immagine e la scoperta di una vita identica e pari alla tua, con le stesse premesse e le stesse aspettative, ma praticata altrove, non da dove sei tu. Con questo ne capisci ancora meno, ma talmente meno che ne sei quasi rassicurato, quasi senza quasi. Ancora un poco e corri, salti fuori e sorridi.

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11 Commenti

  1. bello!
    direi che per rimanere in termini di pratica dislocata ma omotetica: john abercrombie / Characters 1977
    ed in generale il ricasco delle copertine ECM sulle sensazioni e emozioni degli artisti – pochi – che di quest’etichetta fantastica seguo (?) ed ho seguito.
    mi domando se la scelta delle copertine avvenga però di comune accordo con gli artisti; se è vero come è vero – ed ho letto da queste parti – che le copertine sono parte di un tutto che è l’opera e l’oggetto – disco libro…un pò come i render o le prospettive per i concorsi ed i progetti d’architettura..
    o le biennali
    vabbè…
    con i migliori auspici
    ;)

  2. @prodan. [da http://italia.allaboutjazz.com]

    La creazione delle copertine e’ l’ultima fase della produzione in ECM. Un tempo le copertine degli LP, oggi i libretti e la banderuola esterna dei CD, questi costituiscono l’involucro di che e’ dato: la registrazione. Sono queste registrazioni, in una maniera pi intuitiva che metodica, a fissare il tono alle copertine stesse. E dato che la musica in ECM ha le sue specialissime atmosfere e caratteristiche, ne consegue che le copertine ECM non somiglieranno mai a quelle di altre etichette. Come molta della musica ECM, anche le copertine si distinguono per una quieta messa a punto, che rifugge dall’ urlo.

    Dal 1969, il linguaggio visivo si e’ sviluppato in ECM fornendo un corollario visuale alla musica basato sull’improvvisazione. Cosi’ come la musica, anche la cover art e’ in continua evoluzione. Parafrasando Eraclito, non possiamo imbatterci nello stesso identico giardino due volte, perche’ la luce e’ sempre differente.

    Andando all’inizio della storia di ECM, importanti impulsi al design delle copertine vennero da un amico di infanzia di Manfred Eicher, Burkhart Wojirsch, pittore e grafico – la marina sul fronte dell’album “Diary” di Ralph Towner e’ uno dei suoi quadri ad olio. La finezza e l’essenzialit distinsero le prime copertine concepite da B & B Wojirsch, sebbene i mezzi utilizzati fossero puramente tipografici, fotografici, testurali. Burkhart Wojirsch scomparve prematuramente, ma sua moglie Barbara Wojirsch ha continuato a fornire contributi creativi a ECM per piu’ di vent’anni con i suoi schizzi e scarabocchi ad inchiostro, i suoi acquerelli e disegni a pastello e il suo lettering a mano libera. Nel 1980 Dieter Rehm si e’ unito alla squadra di designers che lavorava sotto le direttive di Eicher, aggiungendo , tramite la sperimentazione fotografica, un nuovo taglio espressivo alle copertine degli album di Terje Rypdal (”Chaser”, “Descendre”), John Abercrombie (”Animato”) e di molti altri. I primi 25 anni di design delle copertine ECM sono stati raccolti nel libro “Sleeves of Desire” prodotto da Lars Mller Publishers nel 1996 e questa mostra delle copertine stata originariamente creata per accompagnarlo.

    Nell’ultimo decennio, sono stati messi a fuoco nuove importanti linee attraverso il lavoro di Eicher con il grafico Sascha Kleis, e con due artisti il cui lavoro e’ stato pubblicato in molte copertine, Mayo Bcher e Jan Jedlika: ECM ha pubblicato libri sui lavori di ognuno di essi. L’accento sulla fotografia, specialmente quella in bianco e nero, e’ stato sottolineato. L’elenco dei fotografi che oggi contribuiscono regolarmente al lavoro di ECM comprende, tra gli altri, Roberto Masotti, Grald Minkoff, Muriel Olesen, Jim Bengston, Christoph Egger, Werner Hannappel, Thomas Wunsch, Caroline Forbes, Jean-Pierre Larcher e Max Franosch.

    Infine c’e’ l’influenza del cinema, altra duratura passione di Manfred Eicher, accanto a quella della musica, sin dai tempi della sua giovinezza. Varie sue copertine hanno un taglio cinematografico. Le registrazioni di Eleni Karaindrouper i film di Theo Angelopoulos, per esempio, hanno trasposto il lavoro del maestro cameraman Giorgos Arvanitis dentro le copertine ECM. La collaborazione con il genio anticonformista Jean-Luc Godard si e’ intensificata negli ultimi 17 anni, e Godard ha usato musiche ECM praticamente in tutte le sue produzioni. Nel frattempo, diverse immagini di Godard, sono apparse in molte copertine – non solo nel contesto di suoi progetti come ad esempio l’epico “Histoire(s) du cinma” oppure “Four Short Films” in DVD ma anche nelle copertine di Tomasz Stanko “Soul of Things” e “Suspended Night”, di Trio Mediaeval “Words of the Angel”, di David Darling “Cello” e altre.

  3. E questo da un comunicato di Roberto Masotti per http://www.jazzitalia.net

    Nel 1973 andai a Monaco per consegnare a Manfred un servizio fotografico su Keith Jarrett realizzato a Bergamo alta, e la fortuna ha voluto che da allora io non abbia mai smesso di raccontare attraverso le fotografie, di essere testimone, durante sedute di registrazione e concerti, di produrre ritratti di musicisti durante I ripetuti incontri.
    Il rapporto con ECM e I suoi artisti è stato doppiamente intenso e fruttuoso: essere parte di un ciclo di produzione artistica, così elevato ed ampio da non avere paragoni, si fonde con l’eccezionalità di una presenza nei momenti creativi più segreti. Un privilegio fuso con la responsabilità di comunicare quanto raccolto ed elaborato, diffonderlo e farlo comprendere nel tempo. […]
    Non perderò il contatto con quegli artisti e quei critici con cui il rapporto non solo è “antico” ma anche profondo e irrinunciabile. Considero queste relazioni un vero nutrimento e uno stimolo continuo ad andare oltre il convenuto e la routine.

  4. e i bass desires, all’arco della pace di milano, un sacco di anni fa! uno dei concerti più belli della mia vita!

  5. @aditus

    gratitudine.

    ricordi animati dalla lettura: copertina: “80/81” “first circle” “watercolors” – Metheny – “ecotopia” – oregon – “current events” – Abercrobie/Jhonson(?)/ Erskine e Frisell appunto.

    file salvati e messi in memoria

    pace

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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