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Väterliteratur in italiano

di Stefano Gallerani

Già a partire dal titolo – Era mio padre (Fazi Editore, “Le vele”, pp. 281, € 16,50) -, l’ultimo libro di Franz Krauspenhaar si pone di prepotenza, quasi violentemente, di fronte al suo tema, evidente al punto da rendere inevitabile e pressoché automatico il richiamo a quella gran parte di letteratura  contemporanea ispirata dalla morte di un genitore (in ordine sparso e fuori di qualsiasi gerarchia, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Handke, Camus, Gadda, Le Carré, Simon e Ernaux). Ma se la tradizione principale di questo “filone”, almeno così come è proseguita, ad esempio, nel romanzo americano contemporaneo (Moody, Antrim e Lethem, tra i più recenti), si confronta e riferisce soprattutto della perdita della madre, Krauspenhaar, piuttosto, quasi assecondando, sul piano letterario, l’inclinazione delle proprie origini, si muove sul terreno di quella che in Germania è stata raccolta sotto il nuovo conio di Väterliteratur, ovvero “letteratura dei padri” – nonostante il diverso investimento e il diverso valore che assume, in lui, il punto in cui si intersecano esperienza individuale e Storia collettiva. Inoltre, a poche pagine dall’inizio, rispondendo alle obiezioni di una platea immaginaria, Krauspenhaar prende le distanze, oltre che da Paul Auster, sia da Hanif Kureishi che da Martin Amis (rispettivamente confrontatisi con la figura del padre in L’invenzione della solitudine, Il mio orecchio sopra il tuo cuore e Esperienza), e lo fa da autore, sbrigativamente e con recisione: «Questi (Amis) in lotta col padre scrittore prima di lui, l’altro (Kureishi) che parla di un romanzo mai pubblicato del padre, aspirante scrittore per tutta la vita. Quello di Auster non l’ho neanche iniziato. Non so, per me è diverso. I conti che devo fare io sono diversi». Con ciò, ovviamente, non si fa questione del valore degli autori che Krauspenhaar “rifiuta”. non è questo il punto: a rilevare è, invece, l’intenzione sottesa alle sue parole (più vicina di quanto lui stesso non pensi proprio a quella di Amis e Kureishi), la ragione del “rifiuto”. Il che introduce, in uno con l’evidenza tematica, l’altro aspetto chiave del libro dello scrittore milanese (dove è nato, nel 1960, da madre calabrese e padre tedesco), ovvero la rabbia, e con essa  il motivo su cui si incardina la sua scrittura: il riflesso condizionato di chi è assalito dai sensi di colpa che si provano per non aver fatto qualcosa di cui nemmeno abbiamo avuta consapevolezza o il sospetto («la colpa , sempre, ancora, che batte, sorda, che ti fa male, che ti fa disperare, che non ti fa dormire»). Ma si tratta anche di una tensione  salutare e incontenibile («Mi salva la rabbia immensa, dal dolore che potrebbe uccidermi. La rabbia è più immensa del dolore»), perché quella che Krauspenhaar vive come sola condizione necessaria, sia pure, forse, non sufficiente, per opporsi a che alla scomparsa di un affetto, di un amore, subentri, dopo l’odio, l’oblio, è una rabbia, si potrebbe azzardare, redentiva. Una lezione che l’autore di Cattivo sangue confessa di aver appreso dai prediletti Henry Miller e Céline, nonché dal Thomas Bernhard di A colpi d’ascia. Da questo corto circuito di rimorsi e sfacciataggine, da quest’irrequietezza indispettita e da quest’ostinazione percussiva  si  generano, sembrerebbe, le peculiarità e l’andamento stesso che la scrittura imprime a Era mio padre: quelli  di una narrazione incostante e frastagliata, alternante continui andirivieni, richiami ossessivi e brusche interruzioni; sfacciata e irritante, viscerale e impudica (dove non volgare) come spesso sono le confessioni. Rabbiose, appunto. Un sentimento che in Krauspenhaar cova non solo dietro la morte del padre – di cui il figlio ricostruisce, a brani, così il passato prossimo che quello remoto – ma anche dietro quella del fratello Stefano – suicida come si scopre, infine, anche il primo -, destinatario occulto di un altro testo di ispirazione bernhardiana, Le cose come stanno, del 2005. Eppure, se allora Krauspenhaar aveva fatto ricorso all’espediente del romanzo epistolare e alle dislocazioni temporale e geografica per dare sfogo alle proprie inquietudini, ai propri rammarichi, oggi i nervi sono del tutto scoperti, alla sbarra non può che essere condotto un io spudoratamente autobiografico e l’aula presto si riempie della sua corte di amici, della sua città, delle sue donne e  delle sue psicosi. Sulla falsariga degli ultimi lavori di Affinati e Covacich, o come negli ibridi romanzi/non-romanzi di Nori e Cornia, ogni maschera di finzione è gettata dallo scrittore che tanto più si rivendica come tale quanto più affronta a viso scoperto i fantasmi di una vita (la sua, quella del padre e quella del fratello, completamente avvinte le une alle altre, inestricabili). Anzi, sono esattamente questi spettri e questi lutti (vissuti dapprincipio come altrettante sconfitte) che rendono l’uomo che scrive uno scrittore; sono queste morti, redente nella stesura di ciò che è più difficile e duro da esprimere (non è così per la perdita dell’amata/odiata S., che non muore ma, lei sì, in quanto dimenticata, è come se fosse morta), sono queste morti che aboliscono la distanza tra passato e presente, la spianano. Infine, è da questo confronto con la colpa e dall’assoluzione successiva alla rabbia che nasce, dopo quelli che, alla luce di questo, possiamo adesso ritenere nient’altro che tentativi, il più autentico, il primo vero libro di Franz Krauspenhaar: «Un paradosso? Non lo so. Penso al fatto che papà non vedeva di buon occhio la letteratura o, per meglio dire, non se ne interessava. E non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perché di talento allora ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. È allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato da un testimone scomodo: lui».

L’articolo è apparso su Alias del 27.09.2008

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24 Commenti

  1. ma quante recensioni ci sono di questo libro? ce ne sono ovunque!?!?!
    forse vale la pena di leggerlo……….

  2. @ Iannozzi
    Potremmo anche sapere perché sono assurdità?

    P.s.
    Questa domanda manca di una premessa: qui non viene accettato alcun argumentum ad hominem.

  3. @ iannozzi
    lascia stare Alias, non è una lettura per te (anche se non per i motivi che credi, quindi risparmiati eventuali chiose da quinta elementare) gira meno sul web, studia – come si capisce che non hai fatto – e poi, forse, ripassa.

  4. E’ un libro magnifico. Ho letto il cuore stretto, vulnerabile.
    E’ un libro scritto nel dolore immenso della scomparsa della padre e anche del fratello.
    Un libro scritto nell’inverno del cuore, che rende la sensibilità acuta, fa sorgere emozioni vive. Avevo l’immagine di un albero in invierno, cristallisato di gelo, ferito di freddo; eppure offre la bellezza del mondo. Franz ha scritto un ritratto superbe del padre e penso che ciascuno leggendo il libro sente il vincolo che l’unisce a suo padre.
    Un canto umano, disperato, di poète maudit, l’ombra di Henry Miller ( il vagabondo, l’uomo erotico, l’uomo di un solo amore) si taglia nella città.
    Milano diventa il personaggio cancro come Parigi.
    Ho pensato anche a “la fêlure” de Scott Fitzgerald.
    Una voce americana in Italia.

  5. Franz,
    Non sono generosa. Ho sempre scritto cio che penso.
    E dovrei aggiungere che il tuo libro fa parte dei libri che hanno cambiato la mia vita di lettrice.

  6. Suggerirei, nel caso venisse postata una prossima recensione del libro di F.K., di accludervi un paio di insulti prêt-à-porter siglati Ia****zi, che ogni commentatore potrebbe copiare e incollare nel proprio post. In alternativa, un apposito spazio-contumelie con accesso riservato a Ia****zi, nel quale postare sputi e rutti indipendenti dal post in argomento.

  7. note sparse per una lettura di “era mio padre”

    Innanzitutto volevo dire a Stefano che ha scritto una recensione perfetta, calibrata, colta, esatta. Perché detto tra noi una recensione (critica) deve essere innanzitutto esatta. C’è un solo punto su cui non mi ritrovo con Stefano ed è precisamente quando scrive:

    Eppure, se allora Krauspenhaar aveva fatto ricorso all’espediente del romanzo epistolare (le cose come stanno) e alle dislocazioni temporale e geografica per dare sfogo alle proprie inquietudini, ai propri rammarichi, oggi i nervi sono del tutto scoperti, alla sbarra non può che essere condotto un io spudoratamente autobiografico.

    per due ragioni.
    la prima è che secondo me la scrittura di Franz non ha mai usato espedienti, e questo lo capisci dalla miriade di lavori che trovi in rete,su giornali, in libri ecc. e dove al di là delle dichiarazioni dell’autore, lo senti che non c’è artificio, strategia, tattica e dunque espediente.
    la seconda ragione di dissenso è che a mio parere anche “era mio padre” si presenta come una corrispondenza. per tutto il romanzo Franz non rievoca il padre ma si rivolge a lui, lo interroga:
    così tu papà…
    e in questo farsi naturale del discorso (il suo essere naturale non può farne un espediente) diventa “naturale” anche la voce che accompagna il racconto del discorso.
    La potenza dello scrittore Franz (che avevo scoperto con “le cose come stanno”) è addirittura al di là dello stile (quanti registri e stili è possibile repertoriare nei suoi romanzi?) al di là della struttura compositiva, del plot, è nel suo essere anti-telegenico, come accade nell’episodio della mancata collaborazione con la Rai, ovvero per il suo essere agli antipodi della linearità, di quella chiarezza che sdogana ogni banalità dell’opinione.
    Non ci sono opinioni e se ci sono vengono continuamente contraddette, secondo un modo di agire che lo avvicina più all’anarchico beffardo tra i due gendarmi (celebre icona la cui didascalia recitava, una risata vi seppellirà) che al romanziere a tesi.
    Franz se ti descrive scene di guerra ti fa sentire la carlinga dei blindati, il frastuono dei corazzati, lo sterco dei cavalli e il sangue dei soldati. E lo stesso accade quando contrappone alla grande epica della storia la micro epica degli appartamenti, delle stanze d’albergo, degli uffici, che ti fanno pensare subito a scrittori come Miller, Bukowski, più che a quella tradizione più nobile (e peraltro citata) che va sotto il nome di mitteleuropa.
    per concludere queste note come mio solito sono andato a cercarmi la black box . La mia teoria è che come per la poesia un verso, per un romanzo un paragrafo, un capitoletto, racchiudono la mappa di navigazione del libro, al punto che se il libro andasse distrutto, dalla black box si potrebbe risalire al “plan” dello scrittore. Secondo me è questa, a pagina 201 quando replica a chi (l’editore’il critico?) lo accusa di polverizzazione della narrazione

    “Il Lettore ha ragione? Ha torto? Non lo so. Il lettore è il cliente che ha sempre ragione? No. e poi a volte il cliente ha torto marcio. ma il lettore è sacro, nonostante. A ogni modo rispondo così:non ci posso fare niente. le cose stanno così. la vita non è un’autostrada; la vita, per come la conosco io, è un insieme di strade diverse tra loro, che si intersecano. Mi si parla di polverizzazione: ma che vuol dire? E’ sempre così nella vita. Se voglio raccontare una storia onesta e non artificiale devo seguire le strade intricate della vita. Anche della mia. E poi, a differenza di mio padre, io sono ancora vivo. Almeno credo”

    effeffe

  8. @ Iannozzi

    Ho messo in moderazione l’ultimo intervento. Non è questo il luogo per risolvere la tua querelle con Krauspenhaar. Non interessa a nessuno. Eppure ero stato chiaro…

  9. Certo, Domenico, nascondi pure la merda sotto lo zerbino. Nascondila per bene.
    Se hai messo in moderazione le parole di Krauspenhaar, le sue calunnie infami, hai censurato lui e solo lui. Non me. Forse non ti è chiaro o ti sfugge questo particolare. La figura te la fai tu, NI tutta e Krauspenhaar. Le parole scritte restano. Ricordatelo.

    Un consiglio: censura quel semplificatore se hai un minimo di etica.

  10. Hai a disposizione uno spazio, su NI, che usi quasi sempre male, non puoi lamentarti se qualcuno, ogni tanto, ti risponde per le rime o fa dell’ironia, come nel caso di Semplificatore.

    A me dei tuoi problemi con Krauspenhaar non importa nulla. Non ho interesse a coprire alcuna merda, come tu dici. Nei commenti ai pezzi che inserisco, è veramente l’ultima volta che te lo dico, devi muoverti ed esprimerti in maniera civile.

  11. Non ti preoccupare. La vostra ironia tale non è. Sono calunnie, sporche calunnie che tollerate, anzi che promuovete come è evidente dal tuo ultimo commento, purché siano portate al sottoscritto o a chi esprime idea contraria alla vostra.

    ***

  12. Anch’io sono un lettore coinvolto e partecipe di “Era mio padre”: bella la recensione, e bella anche la nota di effeffe.

  13. Gli asterischi sostituiscono un’altra osservazione sulla persona di Krauspenhaar. In questo post si parla invece di un libro. Se riesci a rimanere sui binari i tuoi commenti saranno pubblicati. Altrimenti no.

  14. Ehm..scusate, ma perchè date così tanta importanza a quello che dice, replica, o commenta Iannozzi ?
    Secondo me un gelido silenzio sarebbe la giusta accoglienza alle sue provocazioni.
    Scusate l’intromissione.

  15. I libri li scrivono le persone. O no?
    Se si scrivono da soli, altro paio di maniche.

    Bravissimo Domenico: censuri le mie osservazioni che tu dici “sulla persona”, ma non quelle avanzate da anonimi commentatori nei miei confronti. Ti dovrebbero fare una statua: di bronzo.

    Il libro “Era mio padre” scritto da F. Krauspenhaar è una schifezza totale, senza ritegno alcuno; un romanzetto infarcito di volgarità sparate a tutto spiano, nonché da una una masochistica voglia di piangersi addosso sempre urlando però. L’autore rivela soltanto l’incapacità di dar corpo a una narrazione che abbia una qualsivoglia parvenza di comprensibilità: manca la trama, mancano i personaggi. In verità manca tutto in questa pletora di parole condita da una marea di inutili puntini di sospensione; manca tutto tranne Krauspenhaar e suo padre, che invece d’incontrarsi – o anche solo di sfiorarsi per un attimo – idealmente per un dialogo, danno sempre e solo voce al loro egotismo al pari di primedonne mancate. Non bastano davvero due voce isolate per poter dichiarare d’aver scritto un romanzo. Purtroppo “Era mio padre” di F. Krauspenhaar può forse solo ambire ad essere etichettato come diario personale o, con un eccesso di critica generosità, lialesco, giovanlistico à la Federico Moccia, pur non accogliendo la romantica spontaneità narrativa della generazione tre metri sopra il cielo.

    Questo è un giudizio critico sul libro.

    Il gelido silenzio d’ora in poi ve lo osservo io. Che è meglio.

  16. Un po’ di dolcezza non fa male…
    Propongo un bicchiere di cioccolato caldo, più di tranquillità: discutere a proposito di un libro non deve diventare terreno di guerra.
    Giuseppe, tu non hai amato il romanzo, ma penso che sei troppo guidato dalla colera. Ho amato il romanzo e mi ha fatto provare emozioni: il romanzo mi ha fatto più sensibile al dolore, alla vita, alla famiglia.
    Allora fammi piacere, mostra che sei gentile ( lo sei) e non il cattivo scimmiotino.
    Non so se faccio bene di entrare nel litigo.
    Discutere si, litigare: no!
    Il mondo è già abbastanza doloroso.
    Ora ascoltare una bella musica di Leonard Cohen e tutto litigo finisce…

  17. Franz Krauspenhaar: la volgarità della non-scrittura…

    Franz Krauspenhaar: la volgarità della non-scrittura
    di Giuseppe Iannozzi
    Il libro “Era mio padre” scritto da Franz Krauspenhaar è una schifezza totale, senza ritegno alcuno; un romanzetto infarcito di volgarità sparate a tutto spiano, n…

  18. Neanche io ho problemi con Franz. Nessuna querelle.
    Solo non mi piace “Era mio padre”. Ma non credo sia un delitto.
    Però se vengo accusato da detrattori anonimi di essere io a insultare, permettete che difenda il mio buon nome, giacché io insulti non ne porto qui e né in pubblico altrove?

    Esula dal post: ma perché NI è sempre piena di trollacci che nessuno si prende la briga di moderare? di tagliargli le gambe? Porco diavolo, fateci almeno un pensiero a come provvedere perché qualcuno potrebbe anche pensare male…

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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