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cronache da Pechino #4

di Gabriella Stanchina

Ho approfittato del bel tempo per visitare gli hutong. Nella foresta di vetrocemento dei grattacieli di nuovissima costruzione, gli hutong sono il sottobosco, umile e proliferante tappeto di muschio e pianticelle. Gli hutong sono i quartieri della vecchia Pechino, costituiti da case a un piano (per evitare che qualcuno potesse guardare l’Imperatore in visita dall’alto in basso) raccolte intorno a cortili quadrangolari. La casa a nord, privilegiata secondo il feng shui era di proprietà dei genitori anziani, le altre erano ereditate dai figli maschi e dalle loro famiglie. Di fatto gli hutong sono cresciuti in tutte le forme. Apprendo da un libro che le figure create dagli hutong non sono ancora state tutte classificate. Ogni vicolo si piega e si ripiega in modo tortuoso rivelando il retro di una scena immaginaria, per poi interrompersi o sbucare in un punto diverso da quello in cui si è entrati. Smarrirsi tra le case è facilissimo, i tetti a pagoda salgono e scendono con un’ondulazione ininterrotta, simile al fluttuare delle ali di una falena. Il colore predominante è il grigio polvere, anche se talora, dietro a una porta scrostata verniciata di rosso si intravede il verde di un’edera, di una sofora, o di un vaso di bambù germoglianti.

Ci sono negozi, in realtà nicchie aperte sulla strada. Vi si vendono pennelli, alcuni grandi come un uomo, che servono, dicono, a dipingere le montagne (!), oggetti di culto tibetani, polverose maschere dell’Opera o figurine del teatro delle ombre. Ci sono minuscoli ristoranti di due o tre tavoli, griglie su cui sfrigolano pezzi di carne, frattaglie, larve, negozietti di chitarre in cui dormono improbabili cinesi con capigliature rasta e gli immancabili negozi di parrucchiere segnalati da cilindri rotanti multicolori. Nella Pechino frattale che descrivevo nella scorsa e-mail, gli hutong sono il livello più piccolo, molecolare. Inoltrandovisi si ha l’impressione che vi sia sempre un retro nascosto e a ogni curva con stupore si scopre un’angolatura inattesa della casa, una sfaccettatura del grande prisma che è Pechino. Ci sono dimensioni avvolte e ripiegate dentro lo spazio-tempo a noi conosciuto, dice la fisica moderna, e gli hutong ne sono la prova, città dentro città con la loro geometria impredicibile.

C’è un livello ancora più piccolo? Forse sono le cataste informi di oggetti che si accumulano su ogni soglia, all’ingresso di ogni cortile. Di tanto in tanto un anziano ne estrae un risciò arrugginito e parte per il giro serale, una casalinga ne estrae uno stenditoio che dispiega, stendendo gli asciugamani e le vecchie lenzuola ad asciugare sulla pubblica strada, gli uomini della famiglia ci trovano alcuni sgabelli e un tavolino per giocare a carte o a mahjong in mezzo al marciapiede. Le cataste di oggetti sono il caos primigenio, antenate dei grandi cantieri che per le Olimpiadi stanno mutando il volto di Pechino. Nel più piccolo si trova il più grande, dentro le cataste c’è tutto ciò che serve per la costruzione quotidiana della città, tutta Pechino in un guscio di noce.

Sabato ho visitato le tombe Ming. All’ingresso c’è una porta azzurro pavone, detta la porta dello yin-yang, perchè attraverso essa si passa dallo yang, il mondo dei vivi, la luce, l’energia, la virilità allo ying, il mondo dei morti, il buio delle uterine cavità sepolcrali. Entrando nel palazzo delle tombe, la porta deve essere aggirata. Al ritorno la si deve attraversare, le donne superando la soglia con il piede destro, gli uomini con il piede sinistro e dicendo ad alta voce: “wo hui lai le!”, che significa: “Sono tornato indietro!”. Una volta superata la soglia, non ci si deve più voltare verso le tombe. Ho pensato a Orfeo che ritornando dall’Ade e non sentendo il passo leggero della moglie defunta, temendo di essere stato ingannato si voltò indietro e la perse per sempre. Il mito della soglia è una costante in tutte le civiltà, fa parte di quello che Jung chiamava inconscio collettivo. Al di là della superstizione, ho pensato che c’è una profonda verità psicologica nel rito praticato presso le tombe Ming. Per gli animali vita e morte sono, per quanto ne sappiamo, nettamente divise, esistono l’una nell’assenza dell’altra. Per l’uomo si apre una zona intermedia in cui la morte può tormentare la vita, assillarla, soffocarla, e dove tuttavia c’è la possibilità del ritorno. Chi ha attraversato un lutto, un incidente, una malattia, una depressione, un intervallo di buio, una morte in vita, sa quanto cruciale e pericoloso sia il momento dell’attraversamento della soglia, del ritorno alla vita. Il rischio è quello di voltarsi e restare pietrificati nella memoria del dolore attraversato, della persona amata perduta. Perciò si grida forte “Sono tornato indietro!”: lo si grida agli spiriti per non essere molestati ma soprattutto lo si grida ai recessi oscuri della propria anima per affermare che vogliamo procedere con decisione verso la vita ritrovata.

Si direbbe a un primo sguardo che i cinesi siano un popolo religiosissimo. Non c’è tabernacolo, altare, edicola votiva, davanti alla quale non si inchinino tre volte, lasciando spesso un’offerta in denaro. Può trattarsi del dio della ricchezza al tempio taoista, della dea della compassione dalle mille braccia Kuanyin nel Padiglione della Fragranza del Buddha al Palazzo d’Estate o di un misterioso e grottesco dio dalla testa di drago davanti a una residenza signorile. Ma qual è la religione dei cinesi? Probabilmente tutte e nessuna. Mi sono fatta l’idea che i cinesi credano essenzialmente nel genius loci, nello spirito del luogo, sia esso buddhista, taoista o vetero-pagano e cerchino di ingraziarselo ogniqualvolta entrano nella sua sfera di influenza. Immagino facilmente gli stessi cinesi accendere una candela di fronte a un’immagine della Madonna durante un viaggio in Europa, per implorare grazie e benedizione da questo nume tutelare del luogo.

Ho terminato la giornata salendo alla Grande Muraglia di Badaling. Il paesaggio, ondulato e boscoso, mi ha ricordato quello trentino. Dopo essere passati vicino a delle gabbie con dei tristi orsi prigionieri si sale su una sorta di cremagliera fatta di vagoncini a forma di bob che risale verso le torri di guardia. Da lì in posizione favorevole per le fotografie, parte la ripida salita. La visione è grandiosa e conturbante insieme: la muraglia si snoda serpeggiando di altura in altura, accarezzando ogni dorsale come un drago che fluttui tra spire di nubi per perdersi progressivamente nella nebbia. Il paesaggio si sfoca come un acquerello verso l’orizzonte e ancora su giogaie lontane si intravedono delle merlature o una torre d’osservazione. Ho ripensato al racconto di Kafka “Durante la costruzione della muraglia cinese”, che parla dell’imperscrutabilità del volere imperiale o divino e dell’assurdo di un lavoro ossessivo e interminabile. Borges scriveva: “In fondo non sappiamo se la realtà sia un esempio di romanzo realistico o fantastico”. Guardando la Grande Muraglia sfumare all’orizzonte ho capito che la realtà è, senz’ombra di dubbio, un esempio inimitabile di letteratura fantastica.

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1 commento

  1. Cara Gabriella, queste tue cronache di viaggio sono bellissime, sempre piene di scorci inconsueti, di tableaux vivants che una volta letti non si dimenticano facilmente… qui il pennello grande come un uomo per dipingere le montagne, la porta azzurro pavone delle tombe dei Ming….
    Il viaggiatore che nel viaggio (quello vero che consuma passi nei luoghi, respira aria “altra”) confronta la sua sensibilità (che non è la svenevolezza che si legge qui ed ovunque anche troppo) e la sua cultura (quella vera non il surfing fra le voci di Wikipedia) con quella del luogo e la coglie con antenne particolarmente vibranti.
    Ti ringrazio e spero di leggerti ancora.

    ,\\’

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