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Omicidi bianchi

di Marco Rovelli

Anzitutto, riformare il linguaggio. Non parlare più, a proposito delle morti sul lavoro, di morti bianche – espressione che designava le morti in culla: morti senza colpa, dunque, tragiche fatalità – ma di omicidi bianchi. Ché le responsabilità ci sono sempre, e individuabili. Così come individuabili sono i “motivi” che rendono possibili quelle morti. Una sinistra che davvero fosse tale porrebbe in essere una serie di dispositivi che andassero alla radice di quei motivi, e chiamassero davvero in causa i soggetti responsabili.

Le morti sul lavoro sono sempre “sovradeterminate” da cause interne al modello di sviluppo del nostro paese: la frammentazione del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro, la catena infinita di appalti e subappalti, la condizione precaria dei lavoratori e la loro conseguente ricattabilità, l’abbassamento del costo del lavoro, la preminenza abnorme della cosiddetta “microimpresa” nel tessuto produttivo italiano.
Ma allora come contrastare questa piaga, se non è un fatto contingente ma una piaga implicata dalla struttura stessa dell’economia? E’ necessario un cambiamento culturale – ma nel senso più ampio del termine “cultura”. Dove “cultura” è tutto l’insieme di pratiche materiali che formano l’umano, a partire dal suo essere uomo produttore. Cambiamento culturale, allora, significa prendere coscienza di quelli che sono i meccanismi di un intero sistema sociale ed economico che produce, e io credo non possa non produrre, le sue vittime sacrificali. Significa comprendere che la vera cura del problema sarebbe: “lavorare con lentezza”. Sono le necessità della produzione, dei suoi ritmi e dei suoi tempi – del profitto, dunque – che inducono a trascurare la sicurezza, che fanno intensificare ritmi e tempi di lavoro, che impediscono una formazione adeguata dei lavoratori. Se si deve fare in fretta, finire i lavori in tempi strettissimi, incrementare la produzione – la sicurezza diventa un impiccio. Ma la società – e il centrosinistra su questo non fa attrito – va in tutt’altra direzione: la detassazione degli straordinari, a livello italiano; e la decisione dell’Unione europea di abbattere il limite delle 48 ore conquistato nel 1917 (quando è ben noto che aumentando i tempi di lavoro cresce esponenzialmente la possibilità di infortuni e morti). Il lavoro, dunque, prima di tutto, e sopra ogni altra considerazione.

L’Italia ha un numero di morti sul lavoro più alto rispetto agli altri paesi europei sia in termini assoluti che in termini relativi (mi riferisco all’indice di morti ogni 100mila occupati, escludendo le morti in itinere, ovvero nel tragitto casa-lavoro o lavoro-casa: e questo nonostante i trucchi retorici che Confindustria ha usato a piene mani negli ultimi anni, senza che nessuno svelasse mai i suoi artifizi). Questo picco italiano di omicidi bianchi deve essere messo in relazione con un’altra specificità del sistema produttivo, che è la frammentazione abnorme del processo produttivo e la presenza della cosiddetta “microimpresa”, la cui assoluta centralità nel tessuto produttivo italiano viene fatta rilevare in particolare dagli studi di Sergio Bologna.
Dai dati Istat dell’ottobre 2006 risulta che su circa 16 milioni e mezzo di lavoratori nel settore di mercato, 8 milioni e mezzo sono impiegati in aziende con meno di 15 dipendenti (dunque senza le tutele dello Statuto dei lavoratori), e 6.179.000 lavorano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti. Si tratta di imprese familiari, o addirittura di “ditte individuali” (un vero e proprio paradosso logico), che costituiscono il cuore dell’economia italiana. Un dato che emerge da un’indagine di Mediobanca del 2006 appare decisivo: nel decennio 1996/2005, le medie e grandi imprese (quelle sopra i cinquanta occupati) hanno ridotto ininterrottamente la forza lavoro, accumulando nello stesso tempo profitti in misura mai così grande nella storia del paese (e determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno ricchi che è il più grande dell’Unione Europea ). Nonostante il fatto che. dopo l’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993, per dieci anni i salari pubblici e privati siano rimasti quasi fermi, caso unico nell’Unione Europea, le medie e grandi imprese non hanno scelto di investire in tecnologie o in ricerca, per ingrandirsi e creare occupazione, ma hanno continuato a decentrare, a subappaltare, a esternalizzare. Perciò è stato l’universo delle “imprese” al di sotto dei 10 dipendenti a creare la maggiore domanda di lavoro, tenendo alta la dinamica occupazionale. Piccole e piccolissime “imprese” che devono spesso far fronte a bassi margini di profitto, che lavorano senza capitali, che hanno difficoltà a ottenere prestiti dalle banche, che non hanno sussidi come la cassa integrazione. Non a caso è in questo settore che si concentrano gli orari di lavoro più lunghi. E questo, è evidente, ha effetti immediati anche quanto alla sicurezza. Intervenire in questa questione sarebbe dunque essenziale. Incentivare la ricerca e colpire le rendite. Riformare un capitalismo malato.
Nel frattempo, si potrebbe impedire per quanto possibile la pratica generalizzata degli appalti al massimo ribasso. Che è una causa diretta di morte. Eppure messa in atto normalmente anche dagli enti locali e pubblici (un esempio tra i mille? I lavori per l’allargamento della terza corsia del Grande raccordo anulare a Roma, dove per quindici chilometri di strada da realizzare sono stati utilizzati più di centocinquanta subappalti). Lo si capisce facilmente: se una azienda appaltatrice vince un appalto con un ribasso del 50%, il margine di profitto non potrà che scaturire dal taglio del costo del lavoro, dall’incremento di tempi e ritmi di lavoro, dal taglio dei costi sulla sicurezza. E’ così in tutti i settori produttivi, e massimamente in quello dell’edilizia. Che è il settore che tira il Prodotto Interno Lordo nazionale. Nell’ultimo decennio l’edilizia residenziale ha toccato la maggior produzione nella storia del paese, e dal 2001 al 2007 gli investimenti nazionali sono balzati da 58 a oltre 71 miliardi di euro, con un incremento del 23 per cento. Senza il contributo del settore edile, il Pil avrebbe avuto segno negativo. Ma questa crescita significa morte. Nell’edilizia accadono quasi un quarto di tutte le morti sul lavoro. E cinque infortuni su cento denunciati producono menomazioni permanenti. (“Denunciati” è necessario aggiungerlo, ché se l’Italia è il paese in Europa che ha il più alto tasso del sommerso – circa il 18% del Prodotto Interno Lordo -, sono moltissimi gli infortuni non registrati perché non denunciati. Secondo le stime della stessa Inail,l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, sono stimabili in duecentomila l’anno.) L’esperienza della ricostruzione in Umbria dopo il terremoto del 1997 lo testimonia: se si stabiliscono dei parametri corretti (ovvero una sorta di pavimento sotto il quale non si possa scendere per l’assegnazione degli appalti) e ci sono controlli sufficienti, le morti nei cantieri calano in maniera drastica.

Occorre rimettere dunque mano all’organizzazione del lavoro, e ai motivi che la determinano. Ma come? Io credo vi sia una sola strada: la creazione di un nuovo legame solidale tra i lavoratori, che sconfigga quel diffuso senso di solitudine sociale ormai generalizzato. Sono i lavoratori a doversi difendere. Nessuno può farlo per loro. E questa azione non può che passare per una pratica sindacale reticolare, dove sindacato significa proprio questo: autodifesa dei lavoratori, e rivendicazione dei propri diritti. Non dunque il sindacato sterilizzato, chiuso nelle sue camere iperbariche – non quel sindacato che tende a mediare i conflitti, o che tende a diventare patronato. Ma un sindacato che vive sui luoghi di lavoro, giorno dopo giorno. Ovvero, i lavoratori stessi che si difendono, in virtù dei comuni interessi che li uniscono. Lo dicono gli stessi tecnici della prevenzione – i dipendenti Asl che dal 1978 controllano la sicurezza sul lavoro (per quanto riguarda i cantieri vige anche il controllo degli ispettori del lavoro) -: occorre un rapporto privilegiato tra i tecnici e i lavoratori, attraverso la figura dell’Rls, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza – figura che a sua volta deve essere difesa e valorizzata.

Certo, anche qui si tratterebbe di porre questioni di ampio respiro. Porre insomma la questione di un cambiamento radicale. Culturale, ancora, nel senso più ampio di cui sopra. Uscire dalla società del precariato. Dove precari non sono solo quelli che hanno un contratto e tempo determinato, ma precaria è la percezione soggettiva del lavoro. Precario è, etimologicamente, colui che prega, colui che implora una grazia (gratia gratum faciens). E la nostra è una società precaria perché il lavoro non viene più vissuto soggettivamente come un diritto da rivendicare, ma come una grazia da avere, una privilegio di cui occorre essere grati. E chi è grato è debitore, e non rivendica alcunché. China la testa – lavora e zitto.
Figura paradigmatica di questa china discendente del lavoro sono i migranti – figura precaria per eccellenza. Gli immigrati in genere si infortunano, secondo i dati Inail, il 50% più degli altri lavoratori. Nel 2006, ad esempio, gli infortuni denunciati dai lavoratori immigrati erano 116.305, contro i 798.720 degli italiani; quelli mortali, 141 contro i 1140 degli italiani. La maggior parte rumeni. E’ evidente la sproporzione tra la percentuale del numero di lavoratori immigrati sul totale degli infortunati (circa il dodici percento) e la percentuale del numero degli immigrati che risiedono regolarmente in Italia (poco più del sei percento, secondo il rapporto Caritas 2007). Si consideri poi che tra gli immigrati non denunciare l’infortunio è prassi normale. Prassi indotta dalla legge sull’immigrazione – il cui scopo è produrre clandestinità (dove appunto la clandestinità è la figura estrema della precarietà, essendo assoluta assenza di diritti). Poiché il contratto di lavoro è essenziale per la permanenza in Italia, l’immigrato non vorrà certo rischiare di perderlo, e dunque, a norma di legge, il lavoratore immigrato tenderà a causare quante meno frizioni possibili con il suo datore di lavoro. Sarà, per usare un termine caro a Foucault, più “docile”. I lavoratori immigrati sono quelli più deboli, più ricattabili, più silenziosi. Le figure più moderne, dunque, del mondo del lavoro.
Un discorso a parte meriterebbe la questione delle sanzioni. In una società che reclama a gran voce più carcere per tutti, gli unici che si sentono immuni sono gli imprenditori. Sul tipo di sanzioni da comminare – penali, economiche, inibizioni personali all’attività – la discussione è aperta, e da fare. Ma è certo che finché ci sarà, come ora, la certezza dell’impunità, l’imprenditore non avrà alcun interesse a garantire la vita dei lavoratori.
Infine: anche ai mass media – nella produzione di un nuovo senso comune – toccherebbe di articolare discorsi che facciano senso di eventi che potrebbero apparire casuali. Parlare di morti sul lavoro non come vuota ritualità, come enumerazione di tragiche fatalità significherebbe mantenere alta l’attenzione sulla vicenda, impegnarsi a dar conto come vanno avanti i procedimenti giudiziari. Non il plastico della villetta di Cogne, insomma, e nemmeno solo meri loculi anagrafici: ma inchieste, e l’impegno a seguire ogni singolo caso – che di solito finisce nel nulla. Non dimenticarsi delle morti il giorno dopo, lasciando nel vago ogni responsabilità. Fare di ogni morte sul lavoro quel che, per una serie forse casuale di eventi, il sistema mediatico ha fatto (e in alcuni casi ha dovuto fare) per la ThyssenKrupp.
Fermare gli omicidi bianchi è la cosa più difficile. E’ utopia, oggi. (E, in quanto utopia, è necessaria). Perché stiamo parlando di vittime sacrificali di un sistema tutto intero. E solo scardinando dalle fondamenta quel sistema potremmo immaginare un mondo dove lavoro non significa morte.

Dal libro Sinistra senza sinistra – Idee plurali per uscire dall’angolo (Feltrinelli, euro 14).

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7 Commenti

  1. Triste, triste, triste.

    “Sono i lavoratori a doversi difendere. Nessuno può farlo per loro.”

    Impossibile, temo, Marco. Siamo alla schiavitù. Non se ne esce, se non se ne vuole uscire “dall’alto”. A cosa servono la politica, la democrazia, lo Stato. E i nuovi processi industriali, il meccanismo perverso del consumo, dove li butteranno adesso? Ce li terremo, tutti quanti. E l’ultima ruota del carro in particolare ne subirà le più drammatiche conseguenze.
    In lavori più qualificati, di questi dell’edilizia in cui si muore, si muore in altro modo.
    Niente di paragonabile, alla morte vera e propria, naturalmente. Ancora. Ma si muore. Ossia, passando da un lavoro all’altro, finisce che un giorno, il lavoro, non lo trovi più.

    Con chi ti coalizzi quel giorno? Quando non ti coalizzavi nemmeno per un lavoro che durava due mesi, sei?

    E poi, ti fanno venire l’esaurimento quando lavori. E quando non “lavori” ti viene perché non “lavori”. E poi ti viene da piangere sapendo ogni giorno dei lavoratori che muoiono, e tu sei ancora vivo. Dobbiamo noi risolvere questo problema? Credi che se quei poveri lavoratori avessero avuto consapevolezza di avere un potere, non lo avrebbero esercitato, e avrebbero scelto di morire? Lo credi davvero?

    Una volta credevo come te, adesso non ci credo più. Quando sei solo, è inutile lottare per altri: prendono di mira te e ti buttano fuori. Tu mi dirai, ma bisogna unirsi. D’accordo. In teoria. Perché fuori dalla porta c’è un esercito (di gente che crepa di fame) e loro lo sanno.

  2. @Precaria:

    Non posso dissentire da quel che dici. Dici cose vere. Ma allora? Quel che dici non può che culminare in un – rassegnamoci. Ecco, non ci s può rassegnare. Bisogna credere di credere. L’ottimismo della volontà. Occorre mantenere la posizione, io credo. Non foss’altro che in una modalità di pensiero. Ma poi – adesso viene la Crisi, e siamo agli ultimi giorni di Weimar – come se ne esce? Se ci rassegnamo, la via d’uscita ricalcherà quella degli anni trenta – quando l’Europa era così fieramente e quasi compattamente fascista. Possiamo evitare che finisca così solo mantenendo aperte le possibilità di un’altra storia.

  3. Gare al ‘massimo ribasso’: sono una barbarie e indipendentemente dal settore. Diventano preda dei soliti grandi noti che poi scaricano i costi di sub-appalto in sub-appalto utilizzando le piccole e medie imprese anche come banca.
    Se a questo aggiungiamo l’indecenza di pagamenti che, se va bene, non arrivano prima di 120 giorni (spesso a COMPLETAMENTO del lavoro e a collaudo avvenuto) abbiamo individuato una delle principali cause degli incidenti sul lavoro. E lo Stato, che dovrebbe evitare queste indecenze, è il primo della lista: ottenere un pagamento prima di 90 giorni da qualunque Ministero è una chimera.

    Blackjack.

  4. Marco, premesso che non vorrei mai togliere a nessuno (nemmeno a me, paradossalmente) il “credere di credere. L’ottimismo della volontà” e che ti ammiro per quello che fai.

    Noi siamo soli. Io sono sola. Io non ce l’ho la collega o il collega a fianco, il compagno, Marco. Siamo tutti soli a cercare lavoro. E siamo soli sul lavoro. Come sono soli quei lavoratori nei cantieri, di cui parlava quella bravissima giovane che hai proposto – di cui mi scuso non ricordo adesso il nome – pochi giorni fa. Sono soli loro e siamo soli noi,per tante ragioni, ma infine, anche perché… Sai perché? Perché il lavoro finisce.

    Finisce e si torna in un altro “cantiere”, come diceva bene quella brava giovane che ha fatto il reportage. Si torna nel cantiere con altre persone. Altri compagni che non ti conoscono e che tu non conosci. E dura poco. Cinque mesi, due, sei? Un anno, due?

    Non dura più trent’anni, il lavoro.

    I lavoratori non sono più uniti, perché non hanno più manco il tempo, di unirsi.

    La mia generazione, che è la tua, è disgregata, dispersa.

    Il lavoro finisce e si ricomicia la trafila (manda i curricula, fai il colloquio, se sei miracolato lavori per un altro po’, finché finisce). Dopo pochi anni, t’assicuro, sei (quasi) finito.

    Ci sono alcuni tipi di lavori che sono “usuranti”. E c’è il sistema che è usurante.

  5. Torno a dire – sul piano sul quale la poni hai ragione. In qualche intervista mi hanno chiesto – che cosa ti ha fatto più male in questo viaggio nell’Italia delle morti sul lavoro? E io ho risposto proprio la solitudine dei lavoratori, l’indifferenza, la perdita di legami. E’ un Sistema usurante, sì. Ma adesso dovremmo cercare di cogliere le opportunità.
    A me, in questo momento, preoccupano le derive politiche che – “dall’alto” – potrebbero degradare tutto ulteriormente – le analogie con gli anni trenta ci sono tutte, da tempo (il neoliberismo Hoover/Bush, le ondate migratorie, la risposta protezionista che alimenta il fascismo), e la crisi segna il rischioso punto di svolta. Forse adesso è il momento di vedere se – Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva.
    Ma – certo – come può un lavoratore solo riuscire a farlo? Non può, certo. Se ne esce insieme. E insieme forse significa cogliere e amplificare tutte quelle piccole ma molteplici occasioni di fare comunità sul territorio, nella città. Qua si aprirebbe un discorso diverso, certo: ma alla perdita dei legami di classe si potrebbe rispondere solo con la ricostruzione dei legami sociali nelle città. Oggi, però, questo lavoro lo stanno facendo le destre (e non solo con le Case Pound). Andrebbero riprese le fila del discorso. Superando però isolamenti e condanne socialfasciste. Insomma – se sul piano economico-sociologico non se ne esce, bisognerebbe riprendere l’inziativa sul piano del Politico. E oggi “Politica” torna davvero sul piano della Polis. Altre vie d’uscita, francamente, non ne vedo.

  6. “alla perdita dei legami di classe si potrebbe rispondere solo con la ricostruzione dei legami sociali nelle città”
    Marco, hai sbagliato il modo condizionale e scambiato il predicato del potere con verbo del dovere: si deve rispondere.
    Per il resto, non c’è un rigo in cui sia in disaccordo con te. Con mille rovelli in giro le cifre degli omicidi bianchi sarebbero meno spaventose. Non nicchiare, e spero che nessuno, neanche tu, prenda l’affermazione come uno srotolamento di tappeto rosso.
    C’è però anche altro, oltre alla solitudine di precaria e di tante altre solitudini come la sua, alle quali vanno tutta la mia scarsamente produttiva solidarietà. Il tempo mancante, e non solo quello. Chi lavora in cantiere spesso lavora lontano da casa e costituire elementi fondativi comporta investimenti di energie e tempi che non si è disposti a sacrificare, specialmente se urge il ritorno al focolare domestico con coniuge e prole. Ci si sacrifica al lavoro, eppoi bisogna sacrificare la famiglia per difendere i propri diritti al lavoro? Un giro perverso privo di un’uscita salvifica a breve e medio termine. Anche il precario, se passa – non so se dico stupidaggini – la maggior parte del tempo a lavorare, a cercare lavoro e a cercare famiglia, dove li trova i momenti per costruirsi una via d’uscita da questo giro altrettanto perverso?
    Allora, si continua a denti stretti appesantiti dal proprio scoraggiamento.
    Il mio ente-ufficio è situato in un palazzo, di cui è proprietario, in fase di ritrutturazione esterna. Hanno montato e smontato ponteggi, mobili e fissi, hanno pitturato, hanno tolto l’eternit e lavato. Gli operai saltavano come grilli da un ponteggio all’altro, privi di mantovane i ponteggi, e privi di corde di sicurezza e di elmetti gli operai. I bidoni di vernice erano parcheggiati davanti alla porta della caldaia e non esistevano cartelli di pericolo né di avviso lavori. Il direttore dei lavori non si è mai visto, ma ho visto le sue parcelle da svariate decine di migliaia di euro cadauna.
    Ho fatto presente ad un alto funzionario la situazione, come se lui non l’avesse presente, come se tutti gli altri impiegati non l’avessero presente.
    Mi ha risposto: vabbè, ma tanto c’è un dirigente, e poi il direttore dei lavori, no?
    Altro giro perverso. Chi controlla i controllori?

  7. “Mi ha risposto: vabbè, ma tanto c’è un dirigente, e poi il direttore dei lavori, no?
    Altro giro perverso. Chi controlla i controllori?”

    Dei controllori dei controllori, non c’è bisogno.
    Quelle persone, per l’appunto, NON svolgono il proprio lavoro, per il quale sono pagati. A questi però, nessuno li manda a casa. O fare un po’ di lavori due mesi qui, due mesi là. E naturalmente è il manovale che dovrebbe ribellarsi. Perché non si ribellano dall’alto, i signori che ne hanno il tempo, la forza, e lo stipendio per farlo?
    (Io per quanto mi riguarda, ho deciso: tra il crepare lavorando per loro, preferisco crepare di fame. Finché c’è una minestra, va bene, quando non ci sarà più, amen, per questi non lavoro più. Io mi sono stancata di stare alla mercè di semianalfabeti. Datori di lavoro che non sanno manco scrivere a un pc. L’ultimo colloquio che ho fatto, l’ho fatto con uno che mi diceva: allora non ha capito? qua non c’è orario, se ha un compagno lo avverta che lei non sa più quando torna a casa. A volte si fa mezzanotte. Quante volte non lo so. E ancora: si dimentichi di avere una vita privata. Lei vivrà – testuale – per lavorare. Per lui, naturalmente. Uno che scrive “a mano” i contratti, perché non sa “digitare” sul pc, lui, non dirò “usare”).
    Si guardino gli “annunci”, i signori “dall’alto”. Gli annunci ambigui (ambigui? più chiari di così!) che dicono: cerco una segretaria, eh, ma in realtà cerco una puttana.
    Io, mentre cerco lavoro, dovrei stare a denunciare a destra e a manca, dalla mattina alla sera, ve lo dico io.
    Queste persone spregevoli. Che si approfittano delle persone che cercano lavoro (e basta). E quelli che abusano continuamente del proprio potere? che vi umiliano, vi fanno violenze psicologiche e vi distruggono?

    La Politica non esiste più. Non esistono le persone. Quando si arriva a morire per lavorare, come sta succedendo da troppo tempo, non esiste più niente. Solo indifferenza. Schifo. Morto un operaio se ne prende un altro: questo è. Questo, questo, questo, è. Inutile raccontarsela.
    (E a quelli come Marco Rovelli, li ringrazio lo stesso: so che lui non se la racconta, ma continua a raccontare a tutti quello che succede. Non ci fosse nemmeno questo, sarebbe la fine della fine).

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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